Non possiamo delegare ad altri e al futuro le trasformazioni sociali di cui abbiamo bisogno. I cambiamenti profondi non arriveranno mai da spettacolari rovesciamenti che portano le sinistre a vincere le elezioni. Possiamo invece chiederci ogni giorno che tipo di persone vogliamo essere e desiderare mondi nuovi. È il desiderio che spinge all’azione, che vuole cambiare le cose qui e ora, superare le dinamiche individualistiche. È il desiderio, ad esempio, di chi migra perché vuole prima di tutto vivere, scrive Gian Andrea Franchi dalla Piazza del Mondo di Trieste dove ogni giorno incontra giovani uomini e donne della rotta balcanica: “Non a caso sono state soprattutto le donne, il movimento politico delle donne, a introdurre politicamente la tematica concreta del desiderio…”. Un intervento che prende spunto dagli ultimi articoli di Lea Melandri e Bifo pubblicati su Comune
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Vorrei inserire una variante nella campagna Partire dalla speranza e non dalla paura, con particolare riferimento ai due testi di Lea Melandri, Sperare nella logica del desiderio, e di Bifo sulle elezioni francesi, L’imprevisto.
Vorrei dire, appunto, “partire dal desiderio e non dalla paura” o forse, ancora meglio di paura, dall’angoscia che ci inchioda tutti alla nostra miserabile “individualità”, mentre la morte di massa passeggia per il mondo in una sorta di silenziosa cavalcata dell’apocalisse, che il sistema d’informazione nasconde mettendo i quotidiani massacri di Gaza al di sotto della sconfitta di un tennista o delle quotidiane beghe dei professionisti della politica.
La speranza è un sentimento, un affetto dell’individuo: “speriamo bene…” si dice dopo aver constatato qualcosa di negativo.
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In un passo de La persuasione e la rettorica, Carlo Michelstaedter scrive:
“Gli uomini dicono … bisogna ben vivere – in tempi andati cantavano nel Veneto: Se spera che i sassi/deventa paneti/ perché i povareti/li possa magnar […] Se spera sperando/che vegnarà l’ora/de andar in malora/per più no sperar”1.
Alla speranza corrente Michelstaedter oppone il kairòs: “non è più il momento opportuno (kairòs) di indugiare, ma di agire”2. Il kairòs è il momento della presa d’atto della qualità politica del proprio tempo, cercando la situazione in cui farne esperienza. Forse, il kairòs michelstedteriano può rimandare alla concezione benjaminiana dello Jeztzeit nella XVIII Tesi sulla storia, tradotto inadeguatamente con “adesso”: la contrazione, l’accensione del tempo in un punto d’intensità da cui irrompe la scelta decisiva: “l’apertura della piccola porta”, che può esser l’inizio di un nuovo cammino. Il kairòs rimanda dunque al desiderio, che non è un sentimento, ma un’emozione, un movimento, cioè, che spinge all’azione. C’è differenza tra sperare in qualcosa e desiderare qualcosa, tra sperare in un incontro e desiderare qualcuno, in carne e ossa.
La speranza è basata sul rimando, sulla delega al futuro, ad esempio al sistema elettorale. Bravissimi i francesi, che hanno una storia sociale così ricca! Ma non deleghiamo a Mélenchon o piuttosto agli equilibri di composite dinamiche rappresentative.
Il desiderio vuol realizzare e ne corre il rischio! Il desiderio vuole cambiare le cose qui, ora, dove io sono.
Io sono sul confine: meccanismo chiave del potere statuale. Sono sul confine per aiutare a passare chi viola il potere dello Stato: i migranti della Rotta balcanica. Sono con chi viene nella piazza del Mondo davanti alla stazione di Trieste, avendo accolto il nostro messaggio; sono con coloro che ci chiamano in giro per l’Italia a parlare e a riflettere insieme sulla nostra esperienza. Desidero cambiare le cose. Ma ci deve essere sempre un qui-ora, un kairòs.
Ho avuto la ventura di incontrare coloro che venivano evitati, non visti, come ombre, da un’intera città, anche da chi avrebbe avuto il compito legale di fermarli. Ho capito che erano dei messaggeri, degli àngheloi, che, venendo da un passato di violenza, ci parlano del futuro di tutti noi, della vita intera.
Ecco come il mio desiderio ha cercato e trovato corpi. Se fossi stato a Firenze, avrebbe probabilmente incontrato i corpi degli operai della GKN – o altri. Ecco ciò che da corpo al mio desiderio, perché il desiderio cerca corpi. Infatti. Che cos’è il desiderio? È desiderio di vivere. Ma che cos’è vivere? Lo si vede nel modo migliore alla nascita: è ricevere il “se stesso” dagli altri. Desiderare di vivere è allora cercare se stesso negli altri: costruire comunità.
Non a caso sono state soprattutto le donne, il movimento politico delle donne, a introdurre politicamente la tematica concreta del desiderio e della relazione:
“L’uomo ha sempre rimandato ogni soluzione a un futuro ideale dell’umanità, ma non esiste, possiamo però rivelare l’umanità presente, cioè noi stesse”, “vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte”3.
Venite nella piazza del Mondo. Nella piazza della stazione di Trieste, accogliendo gli esuli, noi cerchiamo in qualche modo il nostro kairòs, il nostro Jeztzeit: la piccola porta. Sia ben chiaro: non ci facciamo illusioni. Dal punto di vista esistenziale e politico sarebbe meschino sopravalutarci e sopravalutare il nostro impegno. Emergono spesso problemi, anche dolorosi, di relazioni personali difficili fra gli attivisti e anche fra gli esuli, come nella lunga attesa per coloro che sono accolti solo formalmente, ma costretti a stazionare fra le rovine del cosiddetto Silos perché i luoghi di prima accoglienza sono già saturi. La piazza degli esuli è un luogo che mette a nudo la nostra struggente esigenza di riconoscimento nelle consuete dinamiche individualistiche: ci fa capire quanto sia difficile e faticoso, in maniera piena forse per ora impossibile, uscire dal potente schema sociale dell’individuo. Lo dico, ovviamente, anche pensando a me stesso.
1 Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi Milano, 1982 p.72.
2 C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p.72. Verso 22 dell’Elettra di Sofocle
3 Carla Lonzi, Premessa a Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta femminile, 1974 pp. 9, 18.
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