Esplorare la relazione tra i concetti di minoranza e identità, che oggi hanno ricadute rilevanti nella vita di ogni ogni giorno, è un sforzo importante. Farlo nel tempo dell’uomo-macchina è già un modo per rifiutare un mondo fatto di solitudini

In un’intervista di Toni Negri a Gilles Deleuze pubblicata su Futur Antérieur nel 1990 e ripubblicata in una raccolta di interventi di Negri per la casa editrice brasiliana Editora Politeia con il titolo Deleuze & Guattari, uma filosofia para o século XXI, Deleuze parla dell’essere minoranza. Se la maggioranza “è un modello a cui essa stessa deve conformarsi, per esempio l’europeo medio, adulto, maschio urbano, ecc.”, una minoranza “non ha un modello, è un divenire, un processo”. Più che una differenza numerica, quella che distingue la maggioranza dalla minoranza è la differenza tra procedere della storia ed evento: la prima sta dentro il pentagramma della storia, la seconda è la variazione, la fuga da quel sistema di notazione.
Una minoranza assume una forma visibile all’interno di una contraddizione nello scenario di riferimento del modello maggioritario. È il divenire in un processo che, collocandosi alla base di quella contraddizione, la precede, non ne è la conseguenza. La passione marxiana, ad esempio, è “l’erompere sensibile dell’attività del mio essere”, come scrive Marx nei Manoscritti del 1844. Conseguenza del rapporto uomo-natura, uomo-mondo, la passione fonda l’attività a partire dal suo venire prima, produce una resistenza alla storia che vuole stravolgere quel rapporto. Il farsi minoranza di quel processo produce l’emergenza di un “evento” che, problematizzando l’assetto veridizionale maggioritario, marca la deviazione di cui parla Deleuze, vuole imprimere una torsione al procedere della storia.
Un’evidenza di ciò si trova nel rapporto tra lingue che coesistono in uno stesso contesto. Usare una lingua minore è vivere una passione primaria, è un evento che scardina i principi fondanti le modalità comunicative e normative della “lingua maggiore” dominante e imposta. Usare una lingua diversa da quest’ultima, esprimere il proprio essere minoranza, implica acquisire un nome, essere riconosciuti tramite quel mezzo. Detto altrimenti, è l’ordine “poliziesco” che descrive il gioco delle parti, pronto a lasciar spazio alla “politica” in quanto “messa in discussione dell’ordine”, come dice Marramao in Contro il potere.
Un esempio di questo è contenuto in Quarto Secolo di Édouard Glissant. Lì l’autore descrive in modo memorabile l’uso delle lingue in un contesto coloniale nel dialogo tra il proprietario terriero schiavista La Roche e il marron Longoué, schiavo fuggito dalla sua piantagione e rifugiatosi nella foresta. Con l’uso di una lingua che non è quella imposta dal potere coloniale da parte di Longoué, va in frantumi la “partizione del sensibile” che quel potere aveva definito. La Roche deve accettare un dialogo che non era previsto e con esso un nuovo ordine, in cui lo schiavo viene riconosciuto come essere cosciente e parlante. Longoué crea – e gli viene riconosciuta – la propria posizione come secondo fuoco dell’elisse che si sostituisce al cerchio monofocale, unica espressione, fino a quel momento, del sapere e del potere impersonato da La Roche.
Maggioranza e minoranza, quindi, vivono di un rapporto intimo con il sapere egemonico che si fa potere, a cui la minoranza è ricondotta con le regole della “polizia”, come dice Rancière: esisti in quanto minoranza, hai un nome, hai diritto di parola e sei parlato in quanto tale. L’esistenza di una minoranza è quindi definita dall’ordine poliziesco dei corpi, che le assegna, o le riconosce, un nome, la parla, oltre a consentirle di parlare: chi è senza nome appartiene a quella zona malfamata dei “senza parte”, dove regna solo lo stigma, l’incontemplabile, il rumore invece della parola.
La “politica”, per contro, problematizza quell’ordine “poliziesco”, “disloca un corpo da un luogo che gli era stato assegnato o cambia la destinazione di un luogo”. Produce una frattura nelle parti, sposta più in là il confine tra visibile e non visibile. È qui, su questo confine, dove si innestano le politiche dell’identità. Esse rappresentano lo strumento che consente di governare i corpi nella variabilità delle distinzioni tra visibile e invisibile, tra voce udibile e rumore di fondo (tra chi far vivere e chi lasciar morire, direbbe Foucault). Le politiche dell’identità agiscono nel momento in cui le minoranze si presentano in quella frattura. Gli esempi nel tempo che stiamo vivendo si possono moltiplicare all’infinito: dalle distinzioni tra migranti, ad esempio, a quelle per i diritti civili, o in qualunque altro ambito (educativo, abitativo, lavorativo, sessuale, ecc.) dove il potere capitalistico accoppia “il governo delle disuguaglianze […] alla produzione e al governo dei modi di soggettivazione”, come scrive Lazzarato in Enunciazione e politica. Una lettura parallela della democrazia: Foucault e Rancière.
Le politiche dell’identità, includere differenzialmente
Le politiche dell’identità pongono in modo evidente il problema dell’ordine: problematizzano l’ordine che appare inscritto nella presunta naturalità dell’elemento identitario di un soggetto (l’ordine “poliziesco”), riscrivono la trama che forma l’ordito delle relazioni, delle conflittualità tra le identità e tra queste e il potere. Al posto di quell’ordine, le politiche dell’identità definiscono relazioni, posizionamenti, elementi di forza contrattuale; definiscono rapporti di potere.
Lungi dall’occuparsi unicamente di rendere “docili” i soggetti, le politiche dell’identità hanno come obiettivo la produzione di “coerenze identitarie” fondate su pratiche di cristallizzazione, imposizione e induzione, “prodotte da uno Stato che può solo assegnare riconoscimento e diritti a soggetti totalizzati”, anche, o soprattutto, a quelli appartenenti a diverse minoranze, scrive Haider in Mistaken identity. L’obiettivo di tali politiche, quindi, non è solo o non è tanto la produzione di identità come risultato di un assoggettamento a-problematico, maggioritario. Devono includere – differenzialmente – identità e rivendicazioni di una qualunque minoranza nelle pratiche discorsive che legittimano e rendono fruibile il sistema che riconosce quelle minoranze.
In questo senso si associa la funzione dell’identità a quella del “lavoro morto”. Affinché le norme si riproducano con “costi” i più bassi possibile, le identità devono rientrare nel ciclo produttivo del soggetto, favorendo l’identificazione da parte dell’individuo con qualcosa già disponibile e contemplato. Il sostegno attivo che l’identità dà al dispositivo delle norme è il “lavoro in più”, il plusvalore che il sistema ottiene nel processo produttivo del soggetto.
Perché questo si renda possibile devono essere soddisfatte due condizioni. Le politiche dell’identità devono considerare tanto i singoli individui, quanto le forme collettive. Oltre a ciò, devono avere il carattere di politiche rivolte a individui “liberi”. Le democrazie liberali, del resto, trovano storicamente in questi due punti la loro legittimazione. Occuparsi del singolo e contemporaneamente del collettivo è la funzione del governo delle vite. La razionalizzazione dell’azione governamentale consente questo doppio binario, con il potere che da “microfisico” si fa istituzione. È qui dove le politiche dell’identità mostrano tutta la loro efficacia, il loro essere uno strumento potente al servizio della biopolitica.
Ma ancora non è sufficiente: gli individui devono percepirsi “liberi”, devono sentirsi considerati liberi di essere assoggettati in quelle norme e soggettivizzarsi al loro interno con gradi diversi di uguaglianza. L’identità e le politiche dell’identità, più che riconducibili a un’idea di potere assoluto e totalizzante, costituiscono il prodotto, la prima, e la tecnica, le seconde, del potere che assume la forma del governo di viventi dotati di un nome. In Il soggetto e il potere, Foucault dice che “governare, in questo senso, è strutturare il campo d’azione possibile degli altri”; perché questo si renda attuabile, l’individuo deve essere “libero”, perché nel gioco che si stabilisce tra potere e libertà, quest’ultima “apparirà infatti come una condizione di esercizio del potere”.
C’è un ulteriore aspetto che le politiche dell’identità, nella loro relazione con le minoranze, non si scordano mai di considerare: la funzione costitutiva del desiderio nella definizione del rapporto tra io e “altro”, laddove i due termini possono essere riferiti tanto a entità singole, come collettive.
Il desiderio e la passione marxiana di cui si è detto sono due cose differenti: il primo è indotto, la seconda viene prima. Sostenere che il soggetto, attraverso l’identità a cui aderisce, desidera il “desiderio dell’Altro” (nel senso che appartiene all’Altro), significa vedersi là dove siamo collocati per assoggettamento e rivolgere quindi una richiesta di riconoscimento come essere che fa proprio un progetto. Consideriamo ad esempio una minoranza religiosa. L’esternazione del desiderio di poter praticare con determinate modalità è indotto dal desiderio dell’Altro, in base al quale quella minoranza religiosa può esprimersi nella misura in cui non interferisce o urta la sensibilità degli appartenenti alla religione maggioritaria. Questo significa, nel caso della religione musulmana, niente minareto nei luoghi di culto in città, niente chiamata alla preghiera con altoparlante, controllo dei sermoni dell’Imam e altro.
Nel momento in cui la minoranza dimostra di aderire a quel desiderio facendone una rivendicazione propria, non sta procedendo secondo passione, in base alla quale quei vincoli risulterebbero incomprensibili. Sta procedendo secondo le logiche definite dalle politiche dell’identità che hanno stabilito il livello differenziale dell’inclusione di quella minoranza, inducendo un desiderio che corrisponde a specifiche norme.
Nella misura in cui la minoranza agisce non più in forza di una passione, ma delle logiche desideranti definite dalle politiche dell’identità, il processo che ha condotto al divenire della minoranza rientra nella mediazione dialettica delle “fratture composte”, nelle tecniche di “ortopedia sociale”. L’assoggettamento ha raggiunto il suo obiettivo e la soggettivazione si struttura sulla base di presupposti corrispondenti, anche quando assume un carattere antagonista.
Identità e minoranze al tempo del cyborg
Che la digitalizzazione delle vite modifichi la costituzione dei soggetti e la loro rappresentazione identitaria è cosa ormai ampiamente riconosciuta. Modifica i presupposti e le modalità con cui si viene a creare quel rapporto, lo accelera e lo semplifica, in qualche modo. L’oggettivazione dell’individuo procede con un passo diverso rispetto la sua soggettivazione; vengono prodotte trasformazioni tali da lasciar presagire una “riduzione della specie umana a materiale su cui sperimentare”, scrive Rocco Ronchi su Doppiozero.
La velocità dei processi in cui è inserito l’individuo come oggetto di sperimentazione di tecniche che vanno dalle propensioni al consumo alla risposta a stimoli di natura etico-politica ne fanno un soggetto parzialmente consapevole del, o interessato al, proprio ruolo di produttore di dati, addestratore degli algoritmi, materia prima, insostituibile e inesauribile del capitalismo digitale. “L’estrattivismo della conoscenza e il colonialismo epistemico”, come “progetto di meccanizzazione della ragione umana”, secondo la felice sintesi data da Joler e Pasquinelli su L’Indiscreto, sembra non avere freni, né subire contraccolpi. Se pensassimo che non c’è scampo a questo destino del genere umano, sotto i colpi sferzanti del turboliberismo delle élite “siliconate” che quel progetto spingono sempre più avanti, tanto varrebbe accelerare la nostra estinzione, o non cercare di ostacolarla.
La pervasività delle tecniche adottate da quelle élite è tale da arrivare ad agire nel profondo offline delle nostre coscienze, secondo una descrizione perfetta data dal sociologo brasiliano Miskolci sulla rivista Cult. È in questa profondità dove si realizza il livello più sofisticato della trasformazione della specie umana in corpi su cui fare sperimentazioni. Ogni giorno, in qualunque parte del giorno, siamo costantemente testati su cosa riusciamo a focalizzare la nostra attenzione, su come indurre, articolare e modificare il nostro desiderio.
Chi ha dimestichezza con i social network (praticamente tutti noi, o quasi) sa che è lì dove il nostro desiderio diviene il “desiderio dell’altro”, nelle diverse forme che questo “altro” assume. L’identità che mettiamo in gioco nei vari gruppi social è frutto di una costante produzione di desiderio di identità, temporanea, fluida e molteplice, che si combina perfettamente con ciò che i vari gruppi a cui aderiamo manifestano di desiderare, dipende da questo.
Con la capillarità della loro diffusione, e in particolare da quando abbiamo iniziato a rivolgere la fotocamera verso noi stessi (altra acutissima osservazione di Miskolci), inizia il declino del mondo totalmente analogico, ancora dominante al tempo dell’intervista a Deleuze. Si sviluppa una copresenza di digitale e analogico con sfumature che variano nel tempo, e sempre più a favore del primo, a cui l’IA ha imposto una fortissima accelerazione. Si realizza una discontinuità netta: il posto dell’uomo soggetto e oggetto di conoscenza che aveva dominato la scena epistemica negli ultimi due secoli viene occupato da un nuovo ente: l’uomo-macchina. È una mutazione antropologica da cui non si torna indietro.
Nel “finito illimitato” in cui ci muoviamo ogni volta che apriamo una chat box per interrogare un sistema di IA su un qualunque argomento, facciamo un’esperienza diretta di come si stia modificando il nostro investimento nella capacità di pensiero autonomo, di elaborazione, di apprendimento, di critica. È una conseguenza diretta dell’estrattivismo e del colonialismo operato dalle grandi aziende sovranazionali high-tech di cui parlano Joler e Pasquinelli, che porta con sé conseguenze pensanti per i processi di soggettivazione.
La trasformazione in corso arriva a un livello ancora più profondo, agendo sulle propensioni alle relazioni personali indotta dai molteplici strumenti di connessione virtuale che ci consentono, in qualunque ambito, di gestire quelle relazioni dal nostro schermo, con pochi o nessun contatto “analogico”. L’estrattivismo scava infatti anche nella sfera emozionale, erotica della componente umana del nuovo ente, come venne anticipato nel preveggente film Her di Spike Jonze nell’ormai (tecnologicamente) lontano 2013.
Pensare le questioni che riguardano la soggettività e l’identità, quindi, richiederà necessariamente il riferimento all’uomo-macchina.
Donna Haraway ne parla in modo convincente nel suo Cyborg Manifesto. “Un cyborg – scrive la filosofa e femminista statunitense – è un organismo cibernetico, un ibrido tra macchina e organismo, una creatura della realtà sociale e una creatura della finzione”. Colpisce in questa definizione la continuità che l’autrice crea tra realtà e finzione. Abbattere la parete che separa queste due sfere della vita corrisponde a descrivere in modo perfetto uno dei piedistalli del capitalismo contemporaneo, o cyber-capitalismo, dove quel confine non è altro che “un’illusione ottica”. Il cyborg rappresenta, per Haraway, un’identità ibrida, che rigetta le dicotomie tra uomo e donna, natura e cultura, umano e macchina, a favore di una visione di identità multiple, frammentate e parziali.
Resta da capire cosa significhi essere minoranza e quali politiche dell’identità vengono attuate nel mondo del cyborg. Un elemento di riflessione potrebbe essere dato dal modo in cui si struttura la “differenza” e se emergono discontinuità con il modello che ci è familiare, dove differenze e minoranze si rimandano a vicenda, con le disuguaglianze a marcare il tratto comune delle rivendicazioni che tagliano trasversalmente tutto il corpo sociale.
La digitalizzazione sembra operare una diversa partizione in ciò che Balibar nel suo Gli Universali chiama le “differenze di primo grado”, o antropologiche, e, conseguentemente, nelle “differenze di secondo grado”, cioè a dire quelle che corrispondono al risultato della messa al lavoro delle prime, da cui deriva una gerarchizzazione sociale e politica delle differenze stesse.
L’impressione che si ha è che nel mondo del cyber-capitalismo si tenda a sfumare la differenza di primo grado che crea degli insiemi (età, religione, genere, etnia, orientamenti sessuali, ecc.), sulla cui base si formano storicamente le minoranze collettive.
La molteplicità, frammentarietà e parzialità delle identità che connotano l’uomo-macchina favoriscono la “neutralizzazione delle differenze” antropologiche di gruppo, spingendole verso una loro individualizzazione, dove difficilmente possono essere riconosciute come tali e funzionare da spinta verso forme di aggregazione. Al centro delle sperimentazioni del governo delle vite ci sono le individualità nella forma dell’uomo-macchina, il cui contenitore non può più essere la “popolazione” per come la intendeva Foucault. È un insieme eterogeneo fatto di corpi e macchine che si intersecano in aree geografiche non circoscrivibili a priori; travalicano confini nazionali e continentali, si muovono lungo striature che segnano i percorsi migratori, tanto delle persone, quanto dei capitali, delle infrastrutture, delle tecnologie e delle guerre. Un gig worker, un rider, un magazziniere Amazon in Italia condivide più esperienze con un suo collega in India che con un lavoratore metalmeccanico o un artigiano di un distretto industriale della sua stessa città.
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Cambia la popolazione di riferimento, cambiano le tecniche di governo, cambiano le politiche dell’identità e la configurazione delle minoranze. Si completa il progetto del neoliberismo: l’individualizzazione delle politiche deve puntare il più possibile alla sottrazione di riferimenti collettivi. È qui dove entra in gioco un elemento che assume una funzione centrale nella definizione delle identità e delle politiche che le governano: la solitudine. La solitudine intesa come “essere solo/a”, più che come “stare da solo/a”. Si parte dalla seconda, come scelta di vita sganciata dai legami coatti, e si finisce nella prima, come condizione esistenziale masturbatoria di assenza di rapporti solidaristici, di condivisione di scelte e strategie. Si diviene una minoranza atomizzata, camuffata nella rete da relazioni di reciproco riconoscimento, tanto labili quanto temporanei. A questo punta il “muskismo” e i suoi sostenitori a tutte le latitudini e longitudini.
Immaginare una soggettività che si produce solo o principalmente nel desiderio e nella solitudine fa presagire tempi molto cupi, in cui tutto viene percepito in una distanza incolmabile, sia fisica, sia emozionale. A questo fa da corollario un vissuto temporale che schiaccia passato, presente e futuro in una eterna immediatezza del soggetto, il quale riesce a trovare solo momenti di estemporaneo “godimento” che spezzano, per un tempo brevissimo, la catena desiderante senza fine.
Per fortuna, molti hanno ancora la forza di contrastare una tendenza che sembra non arginabile, con i mezzi che giudicano più adeguati: dai portuali del CALP che bloccano le navi della morte, al rapper di Amazon “AleMan” che mette in rima la sua vita, passando per le migliaia di realtà che ogni giorno ribadiscono il perdurare di una passione che tiene lontano, almeno per oggi, l’abisso.
* Ricercatore indipendente e lavoratore nomade. Gestisce il blog di “Transglobal”. La sua ultima pubblicazione collettiva è: La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023). Collabora saltuariamente con riviste online italiane e lusofone.
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