Devastazioni ambientali, sfruttamento dei lavoratori, corruzione: dall’Eni in Nigeria all’Impregilo in Etiopia passando per numerose altre imprese in diversi angoli del mondo. Forse è qualche gradino inferiore a quello francese, ma il neocolonialismo italiano in Africa ha comunque il suo bel curriculum
di Giulia Franchi*
Sebbene già da alcuni anni, assieme ad altri incorreggibili detrattori, insistiamo convintamente sul fatto che il nesso tra estrattivismo e colonialismo sia tutt’altro che apparente e fuori moda, scopriamo con stupore che è proprio il colonialismo ad imporsi con una insperata e rinnovata notorietà sulle prime pagine dei principali quotidiani di questi giorni.
Sorprendentemente, a ridare trazione a un indegno capitolo della storia accantonato un po’ troppo sbrigativamente dai più è un irriverentissimo J’accuse del nostro vicepresidente del Consiglio. Con un tempismo ai limiti della decenza, di fronte all’ennesima strage nel Mediterraneo, Luigi Di Maio rompe gli indugi e con un coraggio per lui un po’ inusuale, denuncia pubblicamente, e senza mezzi termini, le politiche neocoloniali francesi in Africa come prime responsabili delle ondate di migranti verso l’Italia.
“Il posto degli africani è l’Africa, non il fondo del mare”, ci ricorda con volto grave il vice premier, subito seguito da un altrettanto tirato Alessandro Di Battista che, ridisceso in campo dopo il lungo riposo del guerriero, chiosa in TV che “finché non avremo risolto la questione del franco CFA, la gente continuerà a scappare dall’Africa”. Il franco CFA. Chissà in quanti l’avranno dovuto googolare dopo la “rivelazione governativa”, per poi scoprire che a essere sotto accusa è la politica monetaria della Francia adottata in Africa. Quello che per i più è un legittimo carneade, si impone così come nuova distrazione di massa sugli ascoltatori della prima serata.
Non ci soffermeremo ora, infatti, sui soli 2000 migranti provenienti nel 2018 dai quattordici paesi aderenti alla Comunità Finanziaria Africana, cruscotto statistico degli Interni alla mano, né sul fatto che al franco CFA vanno imputate innumerevoli nefandezze, ma non certo il trend migratorio di questi ultimi anni verso il nostro paese.
Raccogliamo invece volentieri, e con forza, l’invito della nostra élite di governo a guardare alle cause dei fenomeni senza ipocrisie. Era il luglio del 2014, se lo ricorderà bene Di Battista, quando (solo) all’indomani della pubblicazione sul Fatto Quotidiano della notizia dell’iscrizione di ENI nel registro degli indagati per corruzione internazionale nel caso della maxi-concessione petrolifera in Nigeria OPL 245, si infuocava in Parlamento sollecitando l’allora ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan a riferire nel merito di una partecipata dello Stato coinvolta in casi di corruzione internazionale, che “pesano con forza anche sullo sviluppo delle popolazioni africane”. Parole sue.
Ebbene, da quell’8 di luglio 2014 molta acqua è passata sotto i ponti. L’ENI non è più indagata, ma accusata di corruzione internazionale per il caso OPL 245 in Nigeria, con un processo in corso per una mazzetta pari, da sola, all’80 per cento della voce di bilancio per la sanità nigeriana per un intero anno. Due intermediari coinvolti sono stati condannati con rito abbreviato; il partito di Di Battista non è più all’opposizione ma al governo con Matteo Salvini, il quale è stato subito molto netto nella sua difesa della più grande azienda italiana, ancora partecipata dallo Stato per il 30 per cento. Nessuno, né al governo, né all’opposizione (ovviamente), ha pensato di proporre per decenza almeno la sospensione temporanea dell’amministratore delegato. Mentre sarebbe stato un atto dovuto, se non per rispetto dei quasi 200 milioni di nigeriani cui sono state sottratte risorse pubbliche, almeno per tutelare la forma nei confronti dei principali azionisti dell’Eni, ossia 60 milioni di italiani. E invece no, allineati e coperti in continuità perfetta col governo che li ha preceduti.
A “casa loro”, dove si aiutano i migranti prima che diventino tali ci siamo stati spesso. Si potrebbe infatti chiedere ai Nigeriani del Delta se si sentono sufficientemente aiutati, o che ne avrebbero fatto del miliardo di dollari pagati da ENI per l’acquisizione di OPL245, che sarebbero andati ad ingrassare i già corposi conti di politici, intermediari e managers tra la Nigeria e l’Italia. O domandare agli abitanti della Valle dell’Omo, in Etiopia, se la storia della dighe per lo sviluppo targate Salini-Impregilo se la sono mai bevuta fino in fondo. O ripetere l’interrogativo anche ai tanti contadini attraverso l’Africa e l’America Latina, cui le imprese nostrane hanno sottratto decine di migliaia di ettari di terra.
A dirla tutta, quindi, ben venga l’affondo irriverente sui francesi colonialisti, sia beninteso, basta un’occhiata veloce alle vicissitudini di Total nella martoriata Basilicata per testimoniare come la pensiamo in merito. Ma il condimento con la retorica salviniana del confronto con l’Italia “Paese accogliente e solidale”, in strettissima continuità con gli italiani brava gente di renziana memoria rende il piatto del tutto indigesto anche agli stomaci meno delicati.
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