Alcuni pensieri sparsi a margine di un film, C’è ancora domani, di successo. “Forse bisognerebbe ammettere che non si tratta di un film – scrive Chiara Sasso su Volere la luna -, ma di un manifesto politico, di un “qualche cosa” di cui si aveva dannatamente bisogno…”
Il film di Paola Cortellesi suggerisce una moltitudine di riflessioni. Un pensiero per tutti: stupore. C’è ancora domani si è alimentato con uno straordinario passa parola che è riuscito a mantenere celato, non svelato il finale o qualche altro momento epico del racconto. Il tutto mantenuto rigorosamente protetto nei non detti.
Forse bisognerebbe anche ammettere che non si tratta di un film, ma di un manifesto politico, di un “qualche cosa” di cui si aveva dannatamente bisogno. Un popolo di orfani riempie le sale. Una storia che prima ancora di raccontare la povertà del dopo guerra, la difficoltà del vivere, la speranza, la violenza sulle donne eccetera, in qualche modo fa lievitare un bisogno assopito che si pensava perso fra le tante macerie della militanza politica. Ora, tutti a bocca chiusa, a casa, frastornati e silenti. Poi quel bisogno quasi viscerale di condividere e dirlo: «Vai a vedere il film». E il tono perentorio tradisce subito il fatto che non si tratta di buone sceneggiature, di interpretazioni, di regia. È altra cosa, è un di più. È successo, ad esempio, che durante la presentazione di un libro (Laura Conti, Discorso sulla caccia) il relatore si sia fermato e di pancia abbia lanciato l’invito: «Andate a vedere il film».
È lo stesso bisogno fisico che il pubblico sente al termine e applaude. Uno scossone per migliaia di persone che sono andate al cinema. «Ma davvero è bello?! No, è qualche cosa di più. Ma perché ci siamo ridotti così?». Si commenta all’uscita. Aggrappati a questa storia per un bisogno di riconoscersi. Questa volta la cultura è stata un passo avanti alla politica. Per una strana alchimia riesce a provocare smottamenti.
Lunga coda di persone anche per entrare a vedere Io Capitano di Matteo Garrone. Stessa attenzione per il bellissimo film di animazione Manodopera del regista francese Alain Ughetto che racconta la storia di emigrazione dei suoi nonni partiti da Giaveno, comune piemontese (non a caso l’opera è dedicata a Nuto Revelli). Quel Nuto Revelli che aveva avuto il merito, con un lavoro di inchiesta durato anni, di svelare la retorica sul lavoro contadino. La storia di tante donne sfruttate che vivevano in montagna, tenuta nascosta. L’anello forte edito da Einaudi (1985) aveva dato la parola alle donne nella società rurale attraversata da emigrazione, da guerre e da un pesante patriarcato. L’uscita del libro era stato una “pietra di inciampo” così come ora lo è il film della Cortellesi, opera contemporanea ma ambientata nel passato.
Commenta Luigi Casel: «Ho visto il film C’è ancora domani di Paola Cortellesi. Un film meraviglioso, credo il più bello visto negli ultimi anni. Tecnicamente perfetto. Dolce, determinato, struggente, esaustivo, poetico, denunciante, fuori dagli schemi pietistici e tante altre cose ancora. Ho pianto per tutta la durata del film e piango ancora ora. Piango per essere nato uomo e per non essere riuscito ancora a strapparmi completamente di dosso l’essenza terribile del patriarcato. Ci ho provato ma mi capita di ricascarci e mi arrocco dietro la scusa che sono cresciuto imbevuto di questa cultura e che è difficile cancellare sé stessi. Il patriarcato non è solo violenza fisica. Anzi. È agire senza giustizia, è perseguire pratiche di vita che ricalcano schemi violenti di sopraffazione continua. È un quotidiano spregio al vivere stesso. Il patriarcato è la condizione più inaccettabile che vive la nostra società. Più devastante e inaccettabile di qualsiasi altra aberrazione. E non sono le donne a doverci insegnare. Non ci sono scuse da poter accampare. Non è difficile da capire, basta volerlo. Basta essere pronti a rinunciare alla sopraffazione. Siamo noi uomini titolari di questo dovere. Lo dobbiamo fare totalmente senza indugio e percorrendo vie dritte che non prevedano scorciatoie. Questo è da fare. Ed è da fare non per concessione alle donne. È da fare per noi. Per poter rivendicare il diritto di essere persone bisogna che capiamo che questa non è una lotta. Le lotte verranno dopo ma se non riusciamo ad estirpare il patriarcato dal nostro essere, non abbiamo dignità e forza per affrontare nessun’altra lotta. E allora continuo a piangere nella speranza che con le lacrime possa uscire da me anche quel che ancora resta del mio essere uomo patriarcale. E spero che comincino a piangere tutti gli uomini. Giovani o vecchi che siano».
Gabriella Dalla Ca' dice
E aggiungo: piangere e riconoscere anche per noi donne il patriarcato nascosto dentro di noi, nelle nostre più profonde viscere, nelle nostre parti ombra ancora non svelate a noi stesse ma che inconsciamente agiamo sia nei confronti di noi stesse sia nei confronti delle altre sorelle. E ancora piangiamo sulle parti maschili che potremo a volte avere assimilato del maschile, anche il più becero, sull onda di una ideologia di malintesa uguaglianza.
Riconoscere questo credo sia fondamentale per aggiungere un altro tassello alla nostra parziale visione della realtà e quindi una possibilità in più di cambiamento in positivo.