Molti bambini e bambine si portano dentro ferite di cui pochi sono a conoscenza. In alcuni casi sono talmente profonde che i bambini non sanno spiegare a loro stessi. Per questo a scuola occorre imparare a raccontarsi, imparare ad accogliere lo sguardo e il racconto degli altri. I bambini devono sperimentare luoghi nei quali ogni vita ha la sua dignità e ogni storia può essere raccontata: allora tenteranno di indagare su se stessi. Bisogna insegnare ai bambini che ognuno ha una storia unica e che non c’è una storia migliore e una peggiore
“Ogni essere umano è un essere unico, è un esistente irripetibile che, per quanto corra disorientato nel buio mescolando gli accidenti alle sue intenzioni, non ricalca mai le medesime orme di un altro, non ripete mai il medesimo percorso, non si lascia mai dietro la medesima storia. (…) Le storie di vita sono sempre capricci del destino”
(Adriana Cavarero)
Le storie di ognuno come dice Adriana Cavarero “sono sempre capricci del destino”, ma quel destino è il proprio destino, diventa la propria vita che può scorrere più o meno serenamente o invece partire in salita e piena di ostacoli.
Con il proprio passato il bambino deve fare i conti e si presenta agli altri. La scuola non può non tener conto di questo. Deve favorire l’incontro e il confronto tra storie tanto diverse fra di loro e con la necessità che ognuno venga accettato così com’è. Maria Zambrano vedeva l’aula come “uno spazio di speranza aperto a tutti…”, in controtendenza con la società che tende, invece, a rimarcare le differenze e non sottolinearne la ricchezza, a separare invece che unire.
Molti bambini si portano dentro ferite di cui non siamo a conoscenza. Si portano dietro un passato spesso difficile da raccontare. Su di esso pesa già il giudizio di una società intera, che ha già deciso chi è di più e chi è di meno a seconda del luogo in cui si nasce, dello stato sociale a cui si appartiene…
Non è facile per molti bambini dover rispondere a delle domande su se stessi, non è facile confrontarsi con la storia degli altri, dover ripercorrere magari tappe dolorose della propria vita e non trovare le parole per dire. Soprattutto può accadere che molti sentano la loro situazione come “impresentabile”, in qualche modo “indicibile. Non è un pensiero razionale, è un sentimento doloroso, un blocco, un sentirsi fuori posto che non viene esplicitato, che lo stesso bambino non sa spiegare a se stesso, che rende il rapporto con gli altri sempre più difficile. E fino a quando non si sentiranno in uno spazio particolare, accogliente, avranno difficoltà e metteranno in atto comportamenti reattivi per nascondersi agli altri. Quando un bambino è per esempio aggressivo, svogliato, disattento, quando si sente inadeguato, quando si isola dagli altri, o parla troppo… sta raccontando qualcosa di sé. A questi segnali dobbiamo prestare attenzione, non dare giudizi affrettati e rigidi, ma avvicinarci in punta di piedi. Aiutarli ad aprirsi al linguaggio, parlare con loro di sentimenti e di emozioni, magari cominciando dalle letture e la letteratura è ricchissima in questo senso. Una lettura che faccia parlare gli autori e i loro personaggi come fossero persone accanto a loro, che appunto si raccontano. Perché ogni bambino vuole imbastire la propria storia, trovare un filo conduttore, soffermarsi su di essa per comprenderla, per apprezzarla o affrontarla, per raccontarla agli altri mentre gli altri raccontano la loro.
Scrive Robert Musil:
“Nella relazione fondamentale con se stessi, quasi tutti gli uomini sono dei narratori. […] A loro piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all’impressione che la vita abbia un «corso» si sentono in qualche modo protetti in mezzo al caos”.
Bambini e bambine hanno assolutamente bisogno che ai loro stati d’animo sia data voce. Crescere vuol dire anche imparare ad imbastire una narrazione, soprattutto quando i propri ricordi sono frammentati, discontinui, a volte inaccettabili e i propri sentimenti non trovano la strada della parola. Contro l’insignificanza, dunque, la storia del soggetto va in cerca del suo racconto. Il racconto di sé, piccolo o grande che sia, è l’inizio di un cammino per rispondere a una domanda cruciale e fondamentale “Chi sono io?”, e in una situazione di scambio interrogare l’altro: “Chi sei tu?”. Senza questa reciprocità difficilmente il ragazzo riesce a comprendere e a dare un senso profondo e reale alla sua vita.
Tu che mi guardi, tu che mi racconti è il titolo di un bellissimo libro di Adriana Cavarero. Ogni storia è esposta, affidata allo sguardo e al racconto dell’altro per il quale ognuno di noi è “un sé narrabile”. Quindi nel costruire il racconto di sé, si ha bisogno dello sguardo e del racconto che l’altro fa di me, si ha bisogno di comprendere come l’altro ci vede, come ci descrive, ma soprattutto come ci aiuta a comprenderci meglio, in uno scambio reciproco per capire meglio se stessi, meglio l’altro, per conoscerci e rispettarci.
La narrazione non deve avvenire in un momento dedicato, o preciso, avviene nel quotidiano, nelle vicende quotidiane, ogni volta che se ne presenta l’occasione o l’opportunità, ogni volta che qualcuno si sente sollecitato a farlo.
Il racconto di sé è sempre vicinanza alle proprie emozioni e per questo bisogna accostarsi in punta di piedi.
Quando un ragazzo manifesta il desiderio di aprire il suo cuore agli altri è un passo molto importante che bisogna accogliere e aiutare a fare. Mettere in comune fa bene a chi parla e fa bene a chi ascolta. Smuove i nostri sentimenti, ci fa sentire vicini e ci fa accettare la nostra debolezza.
E quando uno comincia può partire il dialogo, perché in quel momento anche gli altri scoprono la loro fragilità e prendono coscienza di non doversene vergognare, pian piano la classe diventa comunità. Una comunità viaggia insieme e cerca insieme soluzioni ai problemi che man mano si pongono ognuno nelle sue competenze. E anche i bambini sono competenti. Eccome lo sono.
Il pensiero, quindi, si fa “ricerca”, impara ad osservare, a non trascurare i piccoli dettagli, quelli che sfuggono alle generalizzazioni, alle astrazioni, e che hanno la capacità di rimetterlo in movimento. Impara a riflettere su ciò che accade, e a guardare le cose da più punti di vista. Il dettaglio a volte ci fa scoprire aspetti inaspettati di una persona, ci fa cogliere anche solo uno sguardo rivelatore di uno stato d’animo, un atteggiamento del corpo, un’espressione del viso che possono dire molto di più di tante parole. L’attenzione al dettaglio sospende l’atteggiamento che ci fa dare per scontato ciò che ci circonda e che facciamo usualmente: con ciò avvia processi di nuova comprensione e di elaborazione della nostra esperienza. L’attenzione al dettaglio ci insegna a costruire ambienti accoglienti a cui ognuno possa sentire di appartenere. L’attenzione al dettaglio può far nascere nuove idee e ci mette in movimento verso direzioni non ancora esplorate. Ci fa provare e riprovare. Non ci fa mollare.
Si impara a conoscere se stessi e ad uscire da ciò che altri avevano scelto per te. E questo vale per i ragazzi con storie difficili alle spalle ma anche per chi apparentemente vive una situazione di “normalità” e non presenta apparentemente problemi.
Solo imparando a raccontarsi si può, quindi, come dice Cavarero, rispondere alla domanda “chi sono?”. Una domanda che secondo la Blixen sgorga prima o poi dal moto di ogni cuore:
“Riuscire a trasformare le vicende della propria vita in racconto è una grande gioia: forse l’unica felicità che un essere umano possa trovare su questa terra”. E le storie si intrecciano le une alle altre: “Le storie si raccontano da quando esiste la parola, e priva di storia la razza umana sarebbe perita, priva di acqua”.
Se il bambino sperimenta nel luogo in cui vive che ogni vita ha la sua dignità, ogni storia può essere raccontata, allora il bambino dentro di sé potrà tentare di indagare su se stesso, di accettare ciò che dentro di sé è ancora un’ombra. Non racconterà necessariamente una storia, ma dialogherà con gli altri sui propri ed altrui vissuti perché c’è uno spazio psicologico in cui farlo. Si sentirà “riconosciuto” dall’altro come persona, come individuo, nella sua personalissima e unica storia. Solo in questo modo pian piano si potrà “diradare la nebbia che si stende sul senso delle cose” (Cavarero).
Bisogna insegnare ai bambini che ognuno di loro ha una storia unica, che costruirà una storia irripetibile… che merita di essere narrata. Per questo l’intervento dell’altro è importante. Perché ti rende degno di essere raccontato, citato, ricordato. E bisogna insegnare che non c’è una storia migliore e una peggiore: ogni storia racconta qualcosa sulla vita, su come può essere vissuta ed affrontata.
Pian piano dice Jerome Bruner
“I ragazzi si raccontano per come si vedono e si sentono, per come hanno vissuto le loro relazioni con gli altri, per come è rimbalzata su di loro l’immagine che gli altri si sono fatti della loro persona».
E come dice Hanna Arendt:
“La storia rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi. Intollerabile non è una vita che è sempre stata un “no”, ma una vita che risulta insignificante, una vita che non interessa nessuno”.
Quando incontrano gli altri, quando instaurano rapporti rispettosi con i compagni, quando cominciano a raccontarsi, i ragazzi imparano ad osservarsi, a ri-pensarsi e ad assumere pezzi della propria esistenza appropriandosene per fornire a sé e agli altri un’immagine di se stessi che sarà sempre in divenire.
Bisogna credere nel riscatto del bambino, uscire dall’idea del bambino idealizzato, del figlio pensato, dell’alunno modello, per entrare in rapporto con il bambino reale, con le sue difficoltà, i suoi limiti e le sue potenzialità. E iniziare con lui il cammino.
Questo modo di vedere ci aiuta a fare della scuola un luogo dove non si chieda di essere ‘”forti”, ma in cui sia possibile accettare le fragilità della vita. Una scuola che riconosca, come scrive Miguel Benasayag in L’epoca della passioni tristi “la molteplicità”:
“Ogni individuo si può esprimere in diversi modi e questo riconoscimento “non dovrebbe riguardare solo le persone che hanno problemi, ma anche quelle che si considerano “normali”, affinché possano finalmente disfarsi, con loro grande sollievo, della terribile e dolorosa etichetta di ‘normale’, per poter assumere e abitare le molteplici dimensioni della fragilità (…). Infatti è proprio là dove nessuno guarda, in quel ‘niente da segnalare’ della norma che una serie di esseri umani vivono nella paura permanente di ‘dover essere forti’, ‘all’altezza’’” recidendo “ogni legame con le dimensioni della propria fragilità e complessità”.
Può succedere, infatti, dice la Vegetti Finzi che
“per essere accettato, riconosciuto, amato, il bambino si sforza in tutti i modi di compiacere le aspettative dei genitori, dell’ambiente che lo circonda, dimostrandosi non solo bravo e intelligente, ma più bravo, più intelligente di altri”. Questo atteggiamento, però, ci avverte la psicologa, ha un rischio perché “avviene a spese del nucleo più profondo e più vero della sua personalità, quello legato alle emozioni e alla creatività, che non ha modo di manifestarsi, soffocato com’è da questo imperativo categorico: devi essere intelligente, se vuoi essere accettato”.
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