La centralità dello sguardo sul mondo del bambino e della bambina e il loro movimento libero possono essere il fulcro di un agire educativo che non comincia negli spazi dedicati e non finisce tra le mura di una scuola, ma scorre e spazia per l’intero spazio e tempo sociale. Per questo dobbiamo imparare a riaccogliere il gioco nella vita di ogni giorno. Per farlo, scrive Claudio Tosi, «è importante che sia a portata di mano, diffuso nella città, ma soprattutto raggiungibile autonomamente, anzi “attivabile” a piacere dall’interazione continua tra spazio e bambini, che vivono di angolini, di sponde e limitari, come le nicchie dei portoni, i dislivelli dei marciapiedi o il bordo della pozzanghera…»
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Fammi giocare. La città e il gioco
C’è un grande dibattito sul fatto che i diritti delle donne non vengono garantiti dalle “quote rosa”, ma sembra invece assodato che le “riserve indiane” dei parchi attrezzati rispondano alla voglia di gioco dei bambini. È un falso, perché per i bambini giocare è un modo di espressione e sperimentazione del mondo e portarli in “un mondo attrezzato” è come credere davvero che i criceti amino girare in tondo sulla ruota della gabbia, piuttosto che esplorare tutto il loro territorio.
E ancora, c’è chi sostiene che le città siano proprietà del MAM: maschi adulti motorizzati. Ma anche se non fosse così, sembra indubitabile l’atteggiamento predatorio e coloniale con cui, di norma, il sistema produttivo e l’impero del traffico automobilistico concede una riduzione alla propria potestà sul territorio e permette l’istallazione di angoli, nicchie, fasce orarie disegnate a favorire la convivenza con gli altri generi e le altre generazioni.
Educatrici e educatori di tutto il mondo, ormai un secolo fa, si riunirono nel 1922 a Calais, in Francia, per fissare i principi dell’Educazione nuova, una rivoluzione nell’approccio pedagogico che facesse del bambino il centro e il soggetto dell’agire educativo della società. Dopo la devastante “Grande guerra” il mondo dell’educazione voleva lanciare un messaggio universale di speranza nell’umanità, superando filosofie, origini e diversità per scrivere collegialmente un manifesto per fissare i principi e i metodi che permettessero ad ogni bambino di esplicitare a pieno le sue potenzialità, rispettato nelle sue caratteristiche e libero di sviluppare specifiche capacità creative, per sé e nel gruppo sociale. Quel Manifesto, a cento anni dalla sua stesura è ancora, drammaticamente, attuale per chi ha a cuore, per le nuove generazioni, uno sviluppo libero, che non sia programmato per l’omologazione sociale o per garantire capacità funzionali al sistema produttivo, ed è stato al centro della riflessione di un nuovo incontro internazionale, svoltasi questo autunno 2022 a Bruxelles, dove otto movimenti educativi si sono riuniti in “Convergence(s)” per presentare un nuovo Manifesto per l’educazione nuova, che di quel primo messaggio faccia tesoro e costituisca un rilancio.
Oggi come allora il gioco, il movimento libero del bambino, la centralità del suo sguardo sul mondo e la presa di parola sui propri bisogni e responsabilità costituiscono il fulcro di un agire educativo che non inizia negli spazi dedicati e non finisce tra le mura di una scuola, ma scorre e spazia per l’intero spazio e tempo sociale.
E allora, per la nostra riflessione, quello che risuona dalle parole di Francesco Tonucci – che tanto si immergono in quel filone dell’educazione attiva di cui come Cemea mi sento parte – è che a tutti gli effetti la scuola stessa è uno spazio attrezzato e che solo con una radicale trasformazione dei metodi educativi e degli atteggiamenti degli adulti possiamo restituire ai bambini il senso di “venire al mondo” potendolo conoscere realmente e agire in esso.
Come persone impegnate in educazione, forse dovremmo seriamente riflettere a cosa comporta l’idea del LLL, Long life learning, inteso come una educazione attiva lungo tutto il corso della vita e prenderlo a guida. Avremmo allora lo strumento per riconsiderare, da adulti, cosa ne è stato delle nostre speranze bambine, quanto ci siamo sentiti frustrati a non avere il permesso di fare cose per le quali ci sentivamo pronti, a non avere accesso agli strumenti che ci sarebbero serviti per i nostri progetti, a non veder considerato serio il nostro bisogno di amicizia e il senso di comunità o a non venire completamente ascoltati quando abbiamo avuto idee e concetti da esprimere, e trovare i modi per ricucire il senso e il linguaggio di quelle speranze, per non tradirle nei nostri figli e con ciò, almeno idealmente, restituirci quello che ci è stato così pesantemente negato.
Il gioco allora, in primo luogo, va ricompreso nella sua profondità di senso e pluralità di aspetti. E soprattutto riaccolto in seno al quotidiano, nostro e dei nostri cari: abituale in famiglia e con i figli, possibile con i vicini, auspicabile e proposto nella socialità e nel lavoro. E non per sfuggirne la serietà, ma per realizzarla con tutti noi stessi, compiutamente, tenendo insieme emozione e raziocinio, passione e organizzazione, come il gioco, prima e meglio dello studio e del lavoro, ci insegna a fare.
E perché sia quotidiano è anche importante che sia a portata di mano, diffuso nella città, ma soprattutto raggiungibile autonomamente, anzi “attivabile” a piacere dall’interazione continua tra spazio e bambini, che vivono di angolini, di sponde e limitari, come le nicchie dei portoni, i dislivelli dei marciapiedi, o il bordo della pozzanghera.
Serve una città liberata, certo, ma come ci ha mostrato Mario Lodi, la liberazione si fa nel quotidiano delle relazioni, a partire dalla fiducia nelle capacità e nel desiderio di bambine e bambini di dire e comprendere il mondo che vedono e vivono, esprimendosi individualmente nel confronto con i pari e organizzandosi per realizzare concretamente le condizioni per sperimentarlo secondo i propri bisogni e interessi.
E questo noi adulti lo possiamo favorire migliorando la capacità di ascolto e restituendo ai bambini l’onore e l’impegno alle responsabilità che sempre si legano alla possibilità di esprimersi in autonomia.
Voglio chiudere rassicurando noi MAM che non è solo nostra la responsabilità di quello che viviamo, ma certamente anche qui è possibile agire nel quotidiano e organizzarsi per erodere spazi alle concessioni coloniali, senza per questo farle diventare riserve indiane. Solo se il gioco sarà possibile e praticato nel mondo “così com’è”, trovando soluzioni e adattando i bisogni a ciò che c’è, staremo giocando.
Altrimenti siamo sempre a Disneyland, Las Vegas o in uno degli stadi del Qatar.
Claudio Tosi, Segretario della Federazione Italiana dei Cemea e membro del Direttivo della Federazione Internazionale Cemea.