Costruire e distruggere, colpire e porgere, liberare e incatenare, condurre e barare, ma soprattutto creare legami, anche conflittuali. Abitanti del quartiere, dirigenti associative, mamme, cuoche, writers, teatranti, operatrici e operatori, tirocinanti universitarie, personale scolastico, insegnanti e figli: a Scampia, Napoli, per tre giorni hanno giocato insieme per strada e in alcuni spazi sociali con l’idea che attraverso pratiche ludiche di comunità è possibile non solo osservarsi mentre ci si espone, ma anche imparare ad essere all’altezza delle bambine e dei bambini e perfino ribellarsi. Scrive Claudio Tosi: “In questa fase di incattivimento e separazione, in cui la sicurezza diventa muro e esclusione, in cui a chi non ci è simile muoviamo guerra, il gioco si contrappone con una caratteristica essenziale: non può esistere se non riconoscendo a chiunque la sua umanità. Il gioco è un baluardo contro la disumanizzazione dell’altro…”
Napoli affascina, ti rende contento anche quando tutto va di traverso, anzi a volte a Napoli ci vai, di traverso, proprio per vedere in che modo ti stupirà. Ma noi siamo venuti qui per rendere un servizio ad altri, e all’inizio pensiamo che per farlo serva una certa efficiente applicazione, una rigidità organizzativa funzionale al disporre quante più cose utili nel ridotto spazio di tempo che ci è concesso. E’ certamente un’idea corretta, eppure la Szymborska ci direbbe: “com’è bella questa certezza, ma l’incertezza è più bella”.
E infatti con l’efficienza implacabile della comunicazione non verbale, il gruppo dei partecipanti ci guida per curve e labirinti fatti di pause caffè, dolcetti, telefonate fatte ai figli o ricevute dagli utenti, apparizioni di amici e intrecci tra progetti, fino a farci perdere quell’ansia da prestazione e consegnarci, vinti ma appagati, al flusso degli eventi. Perché in questo cambio di paradigma, non c’è in nessun modo lassismo o disinteresse, è commovente vedere come chi si è affacciato quasi per caso torni con gioia una volta risolta l’incombenza che lo tratteneva, così come è una gioia intrattenersi con chi, venendo da lontano, si è premurato di non far tardi e si gode con te quella mezzora di chiacchiera a commentare l’universo e tutto il resto prima di iniziare.
LEGGI ANCHE QUESTA INCHIESTA:
Siamo immersi in una scanzonata quanto incessante affermazione del “Prima l’Umano” che non farebbe mai a meno del tempo del saluto, dell’accertarsi delle buone condizioni del nuovo arrivato e che concede al “programma” una titolarità solo in quanto espressione della propria soggettività. Vinco presto la mia frustrazione accettando di buon grado questa rivendicazione del gruppo della propria autorità.
Insomma, chi comanda è il gruppo dei “formandi” che con gentilezza ricorda a me a Sara che si, siamo stati chiamati, ma non per la nostra autorità, bensì per l’autorevolezza che il gruppo ci riconosce e affida.
E infatti, nonostante i tempi siano plastici e la scaletta piena di slittamenti, quando poi si entra in azione, l’intelligenza pronta, la concentrazione e il piacere del gioco rendono fluide le spiegazioni e godute le dinamiche, che fioriscono nell’interazione di questo gruppo composito che va dai 20 ai cinquant’anni e ha in sé almeno dieci categorie: nei tre giorni hanno giocato con noi abitanti del quartiere, dirigenti associative, mamme, cuoche, writers, teatranti, operatrici e operatori, tirocinanti universitarie, personale scolastico, insegnanti e figli. E abbiamo giocato in sede e per strada, invitando e facendoci guardare, prestando il fianco a narrazioni altre, di quelle che poi ti tornano con l’aggiunta, di chi “ti sa” che quando poi si riavvicina ti ricorda che ti ha visto giocare e un po’ ti sfida e un po’ ti stima.
Certo, avremmo voluto essere di più, coinvolgere piazze di gente, ma nei 18 giochi che abbiamo fatto c’è potenzialità per fare questo ed altro e in più, la sensazione forte di esserci messe e messi in gioco interamente, nella più preziosa delle dimensioni, come persone, portando dentro di noi l’emozione dello scoprirsi e dell’incontrare, con quella delizia di senso che ha il verbo scoprire, che da un lato è svelarsi e dall’altro è rendersi conto, in questo caso di quanto si è capaci e si vale.
Il gioco ci fa osservare mentre ci espone, ci porta a esprimerci in ogni possibile linguaggio, dello sguardo, della scelta, del corpo, del tatto, del canto e della voce. Giocare svela, emoziona, collega, connette e separa, ci fa avversari e complici, ci permette di esprimere sdegno e rifiuto, ma anche di sostenerci, toccarci, respirare insieme. Vivere queste situazioni risuona in ognuno con una particolare sonorità, il gioco proposto si moltiplica nei giocatori tanto quanto un libro scritto porta in viaggi diversi ogni lettore.
E allora non si può voler far giocare senza interrogarsi sulla potenza del gioco come veicolo di senso, emozione, socialità. Come il carro di Apollo per Fetonte, il gioco può essere troppo evocativo e potente e se non lo si conosce governarlo può risultare difficile, e se sfugge di mano qualcuno può restarci male, sentirsi escluso, o al contrario troppo toccato, svelato, messo in mezzo. Abbiamo così affrontato anche una codifica dei giochi fatti e proposti, cercando di figurarceli realizzati dai diversi pubblici possibili, altri adulti, bambini, adolescenti e subito ci sono apparse le diverse implicazioni che ogni dinamica ludica potrebbe indurre a seconda delle età, della passione e delle paure, dei desideri e dei tabu, che ad ogni età si affrontano e si macinano.
Come si arriva a giocare un gioco che ci mette seduti uno sull’altro? O che mette i corpi fianco a fianco, o che spinge alla corsa con il rischio della storta o dello scontro reciproco? E che delicatezza serve per proporre un gioco in cui ci si dichiara metaforicamente, descrivendosi “come se”, ma sempre svelandosi agli altri con fiducia?
La sagoma che abbiamo disegnato chiedendo a ciascun partecipante di indicare dove il gioco l’avesse colpito, cosa gli avesse mosso, è stata riempita di segnalazioni in ogni dove, dall’intelletto alle caviglie, dall’emozione (tante e diverse, naturalmente) al battito tumultuoso del cuore.
Ci siamo lasciati perché era finito il tempo, ma, tra chi avrebbe voluto vincere prima e meglio la sua timidezza e chi ha scoperto il grande tema dei ruoli sessuati da tenere sotto osservazione liberandoli dallo stereotipo, ci siamo ripromessi di tornare ad incontrarci.
Perché ci sembra che in questa fase di incattivimento e separazione, in cui la sicurezza diventa muro e esclusione, in cui a chi non ci è simile muoviamo guerra, il gioco si contrappone con una ulteriore caratteristica, essenziale da proporre e diffondere: non può esistere se non riconoscendo a chiunque la sua umanità. Il gioco è un baluardo contro la disumanizzazione dell’altro, contro la montante, violenta, separazione delle creature, tutte, tra sommerse e salvate. Nel gioco siamo avversari, non nemici e l’altro è misura delle mie capacità, compagno nella sfida, fratello e sorella nella ricerca di sé e della propria emancipazione e crescita.
E per questo il gioco è il nostro prezioso strumento di resistenza alla disumanizzazione e alla negazione dell’altro, una pratica sociale che diventa politica, per una società pacifica e nonviolenta in cui allenarci a ritornare alla ragione, all’affetto, all’incontro.
APPUNTAMENTI: DIRITTI IN GIOCO A MANZIANA Domenica 24 novembre, in occasione della “Giornata Mondiale dei Diritti dei Bambini e degli Adolescenti”, Manziana (Roma) ospita una straordinaria giornata di laboratori per grandi e piccoli. Spazi allestiti per il gioco spontaneo, lettoni per guardare le nuvole passare, laboratorio per supportare il gioco spontaneo di bambine e bambini, laboratorio di urbanistica partecipata su gioco e spazi pubblici, e ancora “Caccia alle impronte”… La giornata è promossa da: La Casa di Pi AsiloArteNatura, CasaLaboratorioLaYogurta, APS Cantiericomuni, in collaborazione con Ass. Larthia (con il patrocinio del Comune di Manziana)