Possiamo ripensare la scuola nel momento in cui gli insegnanti vivono l’aula come il luogo nel quale mettersi in gioco ogni giorno, il luogo in cui accendere il desiderio di conoscere, il luogo delle domande e del sapere che contrasta l’apatia, ma anche il luogo nel quale soddisfare il bisogno di avere intorno a sé non altri individui ma una comunità. Per dirla con Maria Zambrano, “uno spazio di speranza aperto per tutti…”

Ogni primo giorno di scuola, lo ricordo molto bene, nell’aula magna si accalcavano tutti i ragazzi/e del primo anno, guardavano con ansia verso il fondo della sala per capire chi erano quegli adulti che sarebbero diventati i loro insegnanti, ed era visibile la loro emozione, il loro timore e la loro speranza. Il primo giorno, un giorno molto importante. I primi gesti, le prime parole pronunciate diventano segnali di come sei o potresti essere. I ragazzi ti guardano e si guardano, e il loro primo posizionamento nei banchi di scuola dice già molto: chi ha già uno o più amici, chi è invece isolato, chi vuole mettersi in mostra e chi al contrario cerca di nascondersi.
La scuola era ed è ancora il luogo del “non si può”, e siamo noi che dobbiamo scegliere, invece, se vogliamo farlo diventare il luogo del dialogo, del possibile. Una bella scommessa! Una sfida, una forma, quasi, di disobbedienza civile. Molti, infatti, rimpiangono oggi la scuola di una volta. I ragazzi sono cambiati, dicono, non hanno più rispetto, bisogna tornare alle vecchie regole, imporre più disciplina. Per questo il ministro attuale ha rimesso al centro il voto in condotta come strumento, un’arma ha detto, che fa della scuola un luogo dove “premio e punizione” sono i due momenti centrali del processo formativo. Alcuni insegnanti, forse, si sentono più legittimati e più protetti, difesi dall’autorità, ma in questo modo, come insegnante, come persona, si rinuncia a mettersi in gioco, a guardare chi si ha di fronte e giocare con loro una partita sempre nuova, perché è vero i ragazzi sono diversi, ma i loro bisogni più nascosti, meno visibili sono sempre gli stessi.
Bisogna tener conto che ogni allievo, quando entra in classe, è di fronte a te, a te chiede conto, da te si aspetta risposte ai suoi bisogni. Con te entra in quell’aula che si presenta all’inizio spoglia, quasi triste, come un’anonima stanza istituzionale: solo i banchi e la cattedra, il posto di ogni allievo, il posto dell’insegnante. La raffigurazione di una scuola che non vuole cambiare. E allora spetta all’insegnante insieme ai suoi allievi farla diventare un luogo “abitato”, un luogo che assume una forma. Grazie al lavoro di tutti potrà prendere vita. C’è quindi una corresponsabilità e reciprocità anche se è l’adulto in quanto tale a dover condurre il gioco, a dover prima di tutti mettersi in gioco.
Ogni gioco ha le sue regole e i suoi ruoli: fare classe può diventare il risultato cooperativo in cui concorrono tutti.
Giocando ci esponiamo, iniziamo un cammino, insieme affrontiamo i rischi di questa nuova avventura. È questo “insieme” che i ragazzi devono subito capire e soprattutto costruire dandosi delle regole, discutendole, fermandosi di quando in quando a riflettere su quanto realizzato o no. Lo fanno se sentono che quell’aula che stanno cominciando ad abitare, può diventare, come dice Marìa Zambrano, “uno spazio di speranza aperto per tutti”, una enunciazione che definisce un programma o per lo meno ne dà il senso, la direzione. E devono subito sapere che per arrivare a quel risultato, è importante l’insegnante, ma sono importanti tutti loro, proprio tutti.
In quell’aula, i giovani possono trovare una formazione, che accenda in loro il desiderio, che li appassioni a un sapere che dia forma alla loro vita, che li aiuti a decifrare se stessi, ma anche gli altri. Ogni individuo ha bisogno di avere intorno a sé non altri individui ma una comunità. Si tratta di cercare quello che si può offrire loro: chiedendoselo ogni giorno, chiedendolo ai ragazzi, parlando, parlando e ancora parlando con loro. Perché è proprio in loro che anche chi insegna può ritrovare la propria motivazione, quella che molti hanno perso. È importante che si torni a sentire la responsabilità del proprio compito, e in quell’aula può iniziare davvero un cammino nuovo. È lì che possiamo fare la differenza.
Scrivono Pier Aldo Rovatti e Davide Zoletto in La scuola dei giochi:
“Il rischio, il gioco è assolutamente necessario, perché qualcosa di nuovo possa avvenire, perché “l’evento”, un evento qualsiasi possa accadere o perché solo ci sia un accadere e non una monotona e letale ripetizione delle cose”.
Essere insegnanti, quindi, che provocano domande, che generano curiosità, desiderio. Il sapere che conta non è quello della prestazione, delle nozioni, dell’obbedienza, ma il sapere che contrasta l’apatia, la disillusione, che sollecita i ragazzi a sentire la scuola come un luogo che li riguarda, in cui possono già fare esperienza di socialità e di amore per quel sapere che rende liberi.
Non si travasano nozioni, ma si provocano domande, si generano curiosità, desiderio di capire di più, di sapere di più e meglio. Senza il desiderio di sapere non c’è possibilità di apprendimento.
Tutti, insegnanti e allievi, dovrebbero entrare in aula con tutti se stessi e non come “spiriti disincarnati”, far vivere le emozioni e le passioni che la relazione educativa genera.
La scuola oggi ancora troppo genera allievi di serie A e allievi di serie B. Nella classe tutti hanno uguale dignità, nulla è già determinato. Maria Zambrano in Per l’amore e per la libertà lo spiega così:
Non avere maestro è come non avere a chi domandare e, ancora più profondamente, non avere colui davanti al quale domandare a se stessi, il che (significherebbe) restare chiusi all’interno del labirinto primario che in origine è la mente di ogni uomo; restare rinchiuso come il Minotauro, traboccante d’impeto senza via d’uscita. (…) E il maestro ha da essere colui che apre la possibilità, la realtà di un altro modo di vivere, la realtà della vita vera. L’azione del maestro può essere chiamata, più esattamente, una conversione: si muta in attenzione l’iniziale resistenza che irrompe nelle aule. La domanda comincia a dispiegarsi. L’ignoranza risvegliata è ormai l’intelligenza in atto. (…). Ignoranza e sapere circolano e si risvegliano nello stesso modo nel maestro e nell’alunno il quale, solo allora, comincia a essere discepolo. Nasce il dialogo…
I ragazzi dicono: «Noi capiamo che per i professori insegnare sia solo un lavoro, che abbiano le loro preoccupazioni, la loro famiglia, i loro figli, ma è possibile che noi non contiamo proprio nulla? Eppur viviamo tante ore con loro!». «Oggi cosa hai fatto a scuola?” “Nulla” “Come nulla?” “Nulla… non ci sono state né verifiche, né interrogazioni». «Io da scuola mi porto a casa nuove conoscenze, ma anche tutto l’affetto che ho sentito per me e per i miei compagni»… Modi diversi di vivere la scuola, evidentemente modi diversi di essere insegnanti. Una scelta che si deve fare.
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Questo articolo di Emilia D Rienzo – insegnante per oltre trent’anni a Torino – fa parte di una ricerca che prova a scavare intorno a diverse parole/concetto con le quali favorire il passaggio da una scuola del “Non si può” a una “Scuola del dialogo”. Il senso della ricerca e i link alle parole approfondite sono qui:
LE ALTRE PAROLE DELLA “SCUOLA DEL DIALOGO”: