
Il 28 giugno a Primavalle, Roma, muore Michelle, diciassette anni da due giorni, per mano di un ragazzo della sua età armato di coltello (leggi anche J’accuse dalle periferie). A un anno esatto di distanza questa storia ha lasciato molti segni, pensieri, dolori, tentativi di cura…
Il 28 è inciso, tatuato, sulla pelle dei suoi amici, ragazzi come lei che le volevano un bene profondo, e che hanno scelto di tatuarsi questo numero triste e doloroso sul braccio, sul petto, sul collo. In molti adolescenti i tatuaggi espongono quello che non si riesce a dire in altri modi. Ci sono i nomi delle mamme, delle sorelle, le date, i ricordi, i sogni, e alle volte c’è la cura.
Mi piace pensare che il 28 sia il dolore ma sia anche l’inizio della cura, che sia un ammonimento, perché dopo il 28 niente è più come prima, ma sia anche il ponte per trovare a Michelle uno spazio “per sempre” dentro ognuno di loro, sulla loro pelle.
Gli amici di Michelle hanno, ognuno, degli oggetti che la ricordano, feticci di un legame profondo tagliato bruscamente con una di quelle lame che sempre più spesso affondano nei corpi di ragazze e ragazzi, con una violenza atroce che ogni volta ci paralizza.
I tatuaggi, il cercarsi a vicenda, fumare fino a stordirsi: la rabbia e il disordine che questi ragazzi hanno esploso molte volte in questi dodici mesi sono l’inizio della cura, gli strumenti e le risorse che hanno scelto per non impazzire, per non disgregarsi di fronte a una cosa così tanto più grande di loro che è piombata nelle loro vite, già fragili e molto faticose. Sono gli strumenti con cui hanno provato a fare da soli, perché invisibili agli occhi del resto del mondo. Sono stati molto bravi.
Ho sentito alcune interviste ai genitori di Michelle, e nelle loro parole di rabbia e dolore c’è spazio ancora solo per la vendetta, e mi arriva forte la sensazione che non ci sia l’inizio della cura, e mi chiedo come sia possibile che nessuno li stia aiutando in questo.
Con alcuni amici di Michelle abbiamo provato a starci quando ce lo hanno permesso, un po’ per loro, un po’ per noi, per recuperare la possibilità, anche noi, di non crollare di fronte alla morte agita così.
Fra questi amici ce ne sono cinque ai quali siamo stati più vicini, a cui proviamo a stare più vicini, perché solo per un insieme di coincidenze erano già fra i nostri ragazzi di tutti i giorni. Di questi cinque ben tre sono stati bocciati quest’anno.
Mi chiedo se serviva, se era inevitabile, e soprattutto per due su tre penso che sì, forse era inevitabile per come sono andate le cose, mentre per un terzo no, non era neanche necessario né giusto, ma non è questo che mi fa più dispiacere. Quello che mi sconforta, che mi lascia impotente di fronte al mondo degli adulti, è che queste bocciature, che sono come il sale fino su ferite brucianti (che alimenta ancora di più il fuoco della loro rabbia), sono arrivate fuori dalla relazione, sono arrivate come se, dopo il 28 giugno 2023, fosse tutto come prima, sono arrivate senza nessuno sforzo di riconoscere il dolore di ognuno di loro e provare a dargli uno spazio, di ascolto e di comprensione. Quel dolore non riconosciuto fa male quasi come un coltello, e questa è la cosa che mi mette più in difficoltà, pur consapevole che se gli adulti della scuola non sono riusciti ad accoglierlo è perché da qualche parte, dentro di loro, ne hanno una enorme paura, e ne sono fuggiti scegliendo di misurare quei ragazzi con le regole e gli strumenti buoni (o cattivi) per tutte e tutti.
Il mio dispiacere è anche rabbia, e devo lavorare molto su me stesso per restare in relazione con quel mondo di adulti, con cui cerco di collaborare per arrivare a quei ragazzi. È faticoso e a volte doloroso. E mentre cerco di elaborare tutto questo, che ha reso gli ultimi mesi di scuola difficili, arriva la notizia di Thomas, anche lui sedicenne, ucciso a Pescara da due coetanei sotto lo sguardo silenzioso di altri quattro ragazzini. Mi si piegano le gambe, letteralmente. Mi si confondono le idee, mi pervade la paura, perché dalla morte di Michelle a oggi, in questi dodici mesi, molte notizie simili ci hanno raggiunto a raccontarci la violenza brutale di questi ragazzi “mostruosi”, e andando a leggere nelle loro vite, nelle loro storie, scopriamo che non sono diversi dai ragazzi con cui stiamo tutti i giorni, che hanno le stesse fragilità, difficoltà, sofferenze, al di là della povertà, del ceto sociale, della famiglia benestante, perché come scrive Elvira Zaccagnino su Territori Educativi fra Mostri e Nostri c’è una sola consonante di differenza.
Io penso che nessuno di loro sia un mostro, e che ognuno di loro sia nostro.
Non so dove inizierà la cura degli amici di Thomas o dei due ragazzi che lo hanno ucciso, non so dove inizierà la cura dei quattro amici che hanno assistito senza intervenire mentre la violenza assumeva forme orribili.
Se non fossi così ostile ai tatuaggi, come in realtà sono, forse anche io avrei il 28 da qualche parte, perché sento forte il bisogno di dare una data all’inizio della cura.
No pain no gain, recita un altro tatuaggio. Nessun dolore, nessun guadagno. Lo porta scritto grande sulla pancia, forse da il titolo a tutto ciò che vi ribolle dentro, e che sembra obbligare al dolore per poter stare bene. Mi chiedo se non abbia ragione lui quando provo a dirgli che in quella pancia si può mettere ordine per stare meglio, quando mi dice per quel dolore non si può fare niente, ma poi mi convinco che qualcosa si può fare, e abbiamo il dovere di farla.
Loris Antonelli, educatore ÀP, Accademia Popolare dell’Antimafia e dei Diritti