Negli Usa è esplosa la questione dell’abolizione nelle scuole della pausa di ricreazione. La motivazione? Rendere more productive, più produttivi i bambini… Non è certo un problema solo statunitense. In tutta Europa la scuola è sempre di più al servizio delle imprese. Secondo Piero Bevilacqua “siamo di fronte a un assurdo e strisciante progetto di assoggettamento totalitario della base formativa del cittadino europeo alle ragioni dell’economia capitalistica…”
di Piero Bevilacqua*
È stata Juliet Schor, sociologa al Boston College, ad accorgersi del fenomeno. Stava studiando le famiglie che negli Usa praticano il cosiddetto downshifting, vale a dire la riduzione dei consumi, la decelerazione nella vita quotidiana, l’attitudine alla sobrietà e alla semplicità dei rapporti umani. E si accorse ben presto di una stranezza: nessuna delle famiglie che aveva fatto quella scelta aveva bambini in casa.
Da quella scoperta fu indotta a occuparsi del consumismo fra i bambini statunitensi e scoprì un continente sommerso. In alcuni mesi di ricerca fu in grado di constatare una frattura storica sconvolgente: per la prima volta nella storia l’influenza formativa sui bambini dalle mani delle famiglie e degli insegnanti era passata alle imprese. Queste avevano lavorato alacremente per allargare un mercato ancora vergine e pressoché illimitato. Dal 1980 al 2004 gli investimenti in pubblicità destinata all’infanzia erano passati da 15 milioni di dollari l’anno a 15 miliardi.
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Non è naturalmente un fenomeno statunitense. La Psicologa Susan Linn in un saggio del 2010 del Worldwatch Institute dedicato alla «commercializzazione nella vita dei bambini», ha rilevato che le sole industrie alimentari spendono circa 1,9 miliardi di dollari l’anno in campagne di marketing mirate ai bambini di tutto il mondo. Non è una pratica senza conseguenze: «L’organizzazione mondiale della sanità e altre istituzioni per la salute pubblica identificano nel marketing rivolto all’infanzia un fattore rilevante dell’epidemia globale di obesità infantile».
Non è solo la pubblicità, ovviamente. Tutta la cultura capitalistica dei nostri anni cerca con feroce determinazione in ogni angolo del vivente materia da cui estrarre profitto. E trova sempre solerti figure intellettuali pronti a fornire motivazioni di utilità generale. Negli Usa è esplosa la questione dell’abolizione nelle scuole della pausa di ricreazione. La motivazione è stata quella di rendere more productive, più produttivi i bambini, che devono impiegare tutto il tempo scolastico ad apprendere. Eppure è noto, e non da oggi, che proprio il gioco, tra i bambini, è una esperienza formativa decisiva per il loro futuro e per il futuro di tutti noi. «La spiritualità – ricorda ancora la Linn – e i progressi scientifici e artistici si fondano tutti sul gioco. Il gioco promuove attributi essenziali a una popolazione democratica, quali la curiosità, il ragionamento, l’empatia, la condivisione, la cooperazione e un senso di competenza, cioè la convinzione che un individuo possa cambiare le cose in questo mondo». E il gioco sta sparendo nel XXI secolo, sostituito da attività istituzionalizzate e disciplinate (scuole, palestre), dalla fruizione passiva della tv, dagli intrattenimenti digitali sempre più pervasivi, al punto da creare ormai patologie di massa.
Ma ora è l’Europa che entra più esplicitamente in campo per forgiare esemplarmente la nostra infanzia. Non per creare zelanti e totalitari consumatori, ma addirittura volitivi e vincenti imprenditori. In un documento di quaranta pagine elaborato dal Joint Research Centre dell’Unione europea, e varato nel 2016, il cosiddetto Entrecomp: the entrepreneurship competence, framework più importante delle otto competenze europee, che il Miur esorta ad assumere come riferimento teorico anche per la scuola italiana, è la capacità di fare impresa.
Per intenderci e per usare le espressioni dei nuovi manager che si stanno impossessando della scuola europea, occorre fare apprendere come si diventa capitalisti di successo «attraverso metodi di insegnamento e apprendimento nuovi e creativi fin dalla scuola elementare».
Già i bambini di cinque o sei anni dovrebbero apprendere ad «assumersi rischi», «prendere iniziative», imparare a «mobilitare gli altri», ecc. Si tratta, per chi stenta a credere – ma si leggano in rete gli articoli di Rossella Latempa sulla rivista Roars – di un passo in avanti, rispetto alle esortazioni degli anni scorsi, da parte del ministero dell’Istruzione, a fornirsi di «competenze trasferibili», soprattutto quelle digitali, «che i datori di lavoro esigono sempre di più». Dalla a scuola a servizio delle imprese, alla scuola che ha per fine ultimo quello di creare imprese.
Non ci sono dubbi. Siamo di fronte a un assurdo e strisciante progetto di assoggettamento totalitario della base formativa del cittadino europeo alle ragioni dell’economia capitalistica. Il pensiero unico vuol crearsi le basi antropologiche della propria infinita riproduzione. Ma che società sarà quella popolata da un uniforme esercito di imprenditori? Quanto può durare un mondo di uomini che vogliono, tutti, competere e vincere? E che fine fa l’infanzia, chi protegge i nostri bambini contro tali progetti di pedofilia economicistica? Quando reagiremo, di fronte a queste forme ormai dispiegate di criminalità intellettuale?
Giulio De Vivo dice
Condivido in pieno le parole di Bevilacqua. Sono venti anni di distruzione pubblica che ci stanno conducendo all’ammaestramento. La colpa è anche nostra, delle paure di critiche, della mancata condivisione, della competizione (altroché spirito di corpo), degli addestramenti che subiamo con le guide ed i metodi, della autoreferenzialità (di un mondo che ci ha escluso come marginali), del grigiume che ci affligge. Alziamo la testa! Questi ci portano dritti al baratro!
Antonella Provenzano dice
Sono una nonna e vorrei far qualche cosa. Ma cosa? Siamo veramente messi male…
Gianluca Carmosino dice
Il primo passo, come altre esperienze insegnano, resta probabilmente mettersi in cammino con altri, pochi altri/e (genitori, nonni, insegnanti, educatori…), in uno stesso territorio, e immaginare qualche prima iniziativa. Forse Antonella, pensando alla vostra esperienza, si può cominciare perfino dallo sperimentare laboratori di autoproduzione con alcune classi oppure passeggiate o mercatini dello scambio… Insomma piccoli e grandi appuntamenti di scuola diffusa in cui non c’è spazio per il dominio del profitto e in cui la scuola incontra il territorio senza logiche aziendali… (il tutto può avvenire a scuola oppure in luoghi accoglienti “fuori mercato”, quelle briciole di un mondo diverso… di cui abbiamo tutti molto bisogno http://www.bricioledi.org/)
Ambra Pastore dice
Se si entra in merito all’argomento si rimane sgomenti…. Il marketing per l’infanzia si avvale di ogni strumento e strategia lecita e illecita: il presidente della Shalek Agency ha detto che la pubblicità migliore è quella che fa sentire che senza quel prodotto si è perdenti… Le tendenze di marketing per i bambini sono ormai molto pesanti: dall’age compression al nag factor (potere di assillare) al trans toying (trasformare oggetti di uso quotidiano in giocattoli) fino ad alleanze convenienti tra scuola e agenzie di prodotti per bambini e bambine, senza poi pensare al marketing di prodotti violenti… Uno dei libri che entra nel merito su questi temi è “Nati per comprare” di Juliet Schor.