Dove sono finiti i migranti? I mesi del lockdown saranno ricordati anche per la censura e l’autocensura dei grandi media su quanto accade nel Mediterraneo, sulla Libia ancora in preda alla guerra civile, sui ricatti e i trattamenti disumani contro i migranti di Malta, sui naufragi nascosti, sull’Ue che ritira i suoi mezzi di soccorso mentre il game della traversata del Canale di Sicilia diventa sempre più rischioso. È l’altra medaglia del discorso dell’odio, quella che si alimenta di assuefazione, silenzi e indifferenza
Lo scorso anno la comunicazione era rivolta prevalentemente ad alimentare la “guerra” contro i soccorsi umanitari operati dalle Ong e a nascondere le responsabiltà italiane ed europee nelle intercettazioni di naufraghi nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, delegate alla sedicente Guardia costiera “libica”. Chi rompeva la consegna del rispetto delle linee ufficiali imposte dai vertici politici e militari finiva per essere costretto al silenzio, anche quando i fatti denunciati erano incontrovertibili, ed erano addirittura confermati dalle indagini della magistratura penale.
Negli ultimi mesi – caratterizzati da una diffusa censura (o autocensura) dei principali organi di informazione – dopo la proclamazione dello “stato di emergenza” per il Covid-19, il 31 gennaio – i salvataggi in mare operati dalle Ong (ma più frequentemente da navi commerciali, mentre gli stati e l’Unione europea ritiravano i loro mezzi di soccorso), sono rimasti ai margini delle cronache e riferiti con modalità tali che hanno contribuito ad alimentare assuefazione e indifferenza, se non, per la mancanza di dati certi, un ulteriore rilancio del discorso d’odio.
Si doveva tacere il fallimento di tutte le teorie, anche giudiziarie, che avevano indicato nelle Ong il pull-factor che avrebbero costituito rispetto all’incremento delle partenze, e il ruolo delle imbarcazioni private utilizzate dal governo maltese per i respingimenti effettuati in Libia. Soprattutto si doveva nascondere a ogni costo il ruolo di coordinamento o di collaborazione operativa che le autorità italiane, anche oltre la missione Nauras di Mare Sicuro, della Marina militare italiana, hanno continuato a svolgere in occasione dei soccorsi di imbarcazioni partite dalla Libia (o dalla Tunisia) e a rischio di naufragio (in condizioni di distress) proprio a sud di Lampedusa, in una zona ricerca e salvataggio (Sar) da sempre controversa (secondo alcuni sovrapposta) tra Malta e Italia.
In molti casi imbarcazioni avvistate già al loro ingresso nella zona Sar maltese, a settanta miglia a sud delle Pelagie, già in evidenti condizioni di distress (pericolo imminente) per il sovraccarico e la mancanza di rifornimenti e dotazioni di sicurezza, sono state lasciate navigare fino al loro arrivo nelle acque territoriali italiane, e solo a quel punto si sono mossi i mezzi di soccorso per prestare assistenza o per effettuare, tardivamente, i trasbordi. Come se i sistemi di tracciamento di Frontex e delle autorità statali non consentissero avvistamenti ben prima dell’ingresso nelle acque territoriali. Così il “game” della traversata del Canale di Sicilia è diventato sempre più rischioso.
In altri casi, come nel caso dell’intervento del peschereccio ombra libico-maltese Dar al Salam si è permesso che i migranti intercettati nella zona Sar maltese fossero riportati in Libia, come poi veniva denunciato anche dall’Oim e ammesso dal premier maltese Abela. In queste vicende, verificatesi a poche decine di miglia a sud di Lampedusa, in una zona monitorata anche dagli aerei della missione Themis di Frontex, sono mancati comunicati ufficiali delle autorità italiane, anche quando dalle stesse autorità sono partiti ordini di ricerca a unità aeree e navali appartenenti alla nostra Marina o coordinate dall’agenzia europea Frontex. Nel corso di queste operazioni ci sono state vittime, come quelle accertate durante le operazioni di soccorso a trenta miglia a sud di Lampedusa nella notte tra l 13 ed il 14 aprile, ma queste persone sono state rimosse con la stessa rapidità con la quale erano state inghiottite dal mare. Come veniva rimosso il fermo amministrativo a tempo indeterminato stabilito dalla Capitaneria di porto di Palermo nei confronti di due navi delle Ong, la Alan Kurdi e la Aita Mari che oltre a soccorrere persone avrebbero potuto continuare a essere, anche in questo periodo, testimoni oculari delle modalità opache e scorrette con le quali si operavano le attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale.
Sono sempre più rari i comunicati delle autorità europee e dell’agenzia Frontex. Sull’operazione Irini di Eunavfor Med si sono avute solo dichiarazioni a scopo di propaganda, ma nulla si sa del reale impiego delle navi coinvolte nella missione. Spesso le uniche fonti di informazione, in assenza di fonti ufficiali, sono rimasti pochi giornalisti testimoni diretti degli eventi, magari costretti a trasformarsi in free lance, e qualche corrispondente locale al quale giungono notizie per canali ufficiosi, magari con l’intento di tranquillizzare i comuni lettori. Ma con dati che confermavano le preoccupazioni sull’andamento dei soccorsi e sulla sorte dei naufraghi che, ancora in questo momento, sono i migranti costretti a partire dalla Libia in preda alla guerra civile. Altro tema tabù nei grandi canali di informazione in Italia, probabilmente per nascondere il fallimento dei tentativi diplomatici volti a un riposizionamento del nostro paese con le diverse fazioni libiche in lotta tra loro, non per riportare la pace ma all’unico scopo di contenere le partenze di migranti e di salvaguardare le attività economiche nel settore energetico, nel quale l’Italia è pesantemente esposta.
Negli ultimi giorni si è nascosta la vicenda dell’attivazione della nave hotspot da quarantena Covid-19 Moby Zazà, ormeggiata a Porto Empedocle e utilizzata questa notte per una missione lampo a Lampedusa, per caricare gli ultimi settanta migranti arrivati con un cosiddetto sbarco autonomo, mentre rimane oscura la sorte di un barcone carico di cento persone circa che era stato individuato il 16 maggio sera a circa trenta miglia a sud di Lampedusa e che non risulta essere stato soccorso o assistito da qualche assetto navale italiano o maltese. Si tratta sempre della stessa zona nella quale si era già verificata la strage di Pasquetta, nella notte tra il 13 e il 14 aprile scorsi, quando un peschereccio “ombra”, dai molti nomi, libico di bandiera ma alle dipendenze del governo maltese, riportava a Tripoli decine di naufraghi soccorsi in zona Sar maltese, persone che avrebbero avuto dunque il diritto di essere sbarcate in un porto sicuro, in Italia, se non a Malta.
Come riferisce il 17 maggio il sito del Giornale di Sicilia, “Nelle ultime ore, a circa 14 miglia da Lampedusa – in acque Sar maltesi – un barcone con un centinaio di persone è stato soccorso da un peschereccio che chiede all’Italia un porto sicuro”. Occorre chiarire a questo punto che se il barcone si trovava a 14 miglia da Lampedusa e dunque all’interno della zona di ricerca e salvataggio (Sar) per la quale sono direttamente responsabili le autorità italiane. A meno che questa distanza non fosse ricavata da un comunicato della organizzazione AlarmPhone, che poi veniva corretto, circa la presenza di un barcone in difficoltà ieri sera, a 30 miglia circa a sud di Lampedusa, in quella che secondo la interpretazione corrente a livello ufficiale sarebbe da considerare come zona Sar maltese, nella quale sarebbero dunque le autorità maltesi le prime obbligate a intervenire. Ma le Convenzioni internazionali di diritto del mare, come la Convenzione Sar di Amburgo del 1979 impongono di attivarsi per interventi di soccorso verso imbarcazioni in stato di distress (pericolo imminente) anche agli stati che non sono direttamente responsabili di una determinata zona Sar, ma che possono attivare i soccorsi più rapidamente per salvare vite umane in mare. Come avveniva sistematicamente anche nella zona SAR maltese fino al 2017, quando la maggior parte degli interventi era svolta da assetti italiani o dalle Ong, con destinazione di sbarco come porto sicuro in Italia. Adesso con l’allontanamento delle navi umanitarie si ricorre alle navi commerciali per i primi interventi di soccorso, ma spesso questi interventi non sono tempestivi e si limitano a una osservazione a distanza che non si traduce nel recupero immediato e nella messa in sicurezza delle persone. Poi i cargo si allontanano e qualcuno si getta in mare.
Rimane la notizia che il 16 maggio sera un peschereccio, di cui non si precisa la nazionalità, avrebbe chiesto all’Italia un porto sicuro di sbarco (Place of safety- POS) in conformità con gli obblighi imposti dalle Convenzioni internazionali, ma non si conosce il tipo di risposta che sarebbe giunta dalle autorità italiane, presumibilmente la Centrale di Coordinamento della Guardia costiera a Roma (IMRCC). Se questo peschereccio fosse stato ancora una volta un mezzo della flottiglia fantasma che Malta utilizza per i soccorsi in mare, e si fosse poi diretto verso Malta, si sarebbe di fronte all’ennesima violazione del diritto internazionale del mare. Malta non garantisce infatti per stessa ammissione del suo governo un “porto sicuro di sbarco” e mantiene su mezzi ancorati in acque internazionali le persone che i suoi mezzi soccorrono, in attesa che qualche stato europeo ne accetti il ritrasferimento. Un ricatto inaccettabile perché basato sulla violazione del diritto internazionale e dei Regolamenti europei n. 656/2014 e n. 1624/2016, oltre che della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Al di là dei comunicati delle Ong, che rimangono ancora imprecisi sul punto in cui si trovavano ieri notte le imbarcazioni in difficoltà a sud di Lampedusa, con un mare agitato da un forte vento di scirocco, sorge legittima una domanda. Che ne è oggi della notizia che ieri sera ci sarebbe stato un barcone carico di cento persone (secondo altri 50 o 70), in difficoltà a sud di Lampedusa? In assenza di comunicazioni ufficiali, che sorte è toccata oggi a queste persone? Sono state trasbordate sul peschereccio che sarebbe intervenuto in loro soccorso, che tipo di peschereccio era, e di quale nazionalità, e soprattutto, dove si trovano adesso? Un quesito molto importante, dal momento che ormai è accertato che Malta utilizza pescherecci, o meglio, piccole navette camuffate da pescherecci, proprio per intercettare in alto mare i migranti che riescono ad entrare nella zona Sar di propria competenza, per riconsegnarli direttamente, o con ulteriori trasbordi in mare ai libici. Come peraltro ha fatto anche l’Italia, ai tempi di Maroni ministro dell’interno, nel 2009 e nel 2010, incorrendo in una pesante condanna, da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, sul caso Hirsi. Quando invece oggi i naufraghi sono riportati verso Malta sono condannati a restare stipati per settimane a bordo di piccole imbarcazioni private, ancorate al limite della zona costituita da un banco di ormeggio in acque internazionali che Malta utilizza come zona offshore per sottrarsi anche in questo campo al rispetto delle norme internazionali. Persone che di fatto sono soggette a un respingimento collettivo e a trattamenti inumani e degradanti vietati dalla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Ma non si possono scaricare soltanto sulle autorità maltesi tutte le responsabilità su quanto avviene a sud di Lampedusa. Sarebbe un alibi troppo comodo per le autorità europee e italiane, dotate di mezzi di intervento più vicini ed efficaci rispetto ai luoghi dei soccorsi.
L’ultimo comunicato della Guardia costiera italiana sui soccorsi operati a sud di Lampedusa sembra risalire al 2 maggio. La mancanza di comunicati da fonti ufficiali nasconde la verità dei fatti e costringe i giornalisti e i comuni cittadini a trasformarsi in ricercatori e in testimoni oculari per denunciare una carenza di interventi tempestivi che è già costata troppe vite umane, e ancora altre potrà costarne nei prossimi mesi.
Ormai è evidente come, malgrado i “fermi amministrativi” delle navi delle Ong, gli sbarchi di persone provenienti dalla Libia e dalla Tunisia proseguano e si intensificheranno ancora nei prossimi mesi. Lo “stato di emergenza”, dichiarato dal governo a seguito dalla pandemia Covid-19, ha già imposto un pesante prezzo sul piano della attuazione effettiva delle norme della Costituzione che garantiscono le libertà fondamentali, incluso il diritto all’informazione. Il passaggio alle fasi successive e l’allentamento (in vista) dei vincoli alla libertà di circolazione, non stanno producendo alcun effetto sulle modalità di soccorso in acque internazionali. I grandi mezzi di informazione omettono di ricordare il contesto nel quale le prassi di ricerca e soccorso in mare stanno rapidamente degenerando. Gli stati che hanno dichiarato “non sicuri” i loro porti tendono a sottrarsi al rispetto degli obblighi di soccorso fino allo sbarco a terra, imposti dal diritto internazionale.
La Corte di Cassazione aveva affermato, appena lo scorso 20 febbraio, che le attività di soccorso intraprese e coordinate dall’Italia dovevano concludersi con lo sbarco in un porto italiano, e si avvicina il tempo del processo che si aprirà il 14 luglio nei confronti del senatore Salvini, a Catania per il caso Gregoretti. Le decisioni della giurisprudenza e i processi ancora in corso, se contengono indirizzi sgraditi ai vertici politici e militari, sono oggetto di rimozione, in un clima politico che si avvia di fatto verso un quadro di “unità nazionale”. L’esercizio del libero diritto all’informazione, in tempi come questi, costituisce un punto di resistenza fondamentale per evitare una involuzione autoritaria del paese, soprattutto se riguarda temi rilevanti che mettono in discussione la vita delle persone, l’accesso al territorio per esercitare il diritto costituzionale di asilo e la politica estera italiana, anche sotto il profilo del rispetto del diritto internazionale e dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione italiana e dalle Nazioni unite.
*Avvocato, componente del Collegio del Dottorato in “Diritti umani: evoluzione, tutela, limiti”, presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Palermo. È componente della Clinica legale per i diritti umani (CLEDU) dell’Università di Palermo
Fonte: A-dif.org
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