Sandy, l’uragano atlantico più ampio e più forte che la storia ricordi, è una manifestazione diretta e incontestabile dei cambiamenti climatici che minacciano il pianeta a causa di un consumo incontinente di fonti energetiche fossili; e non in un futuro più o meno lontano, ma già qui e ora. E’ verosimile e del tutto probabile che fenomeni climatici anche più devastanti si possano ripetere a breve. Non si sa, né si può sapere con un margine sensato di probabilità, quanti, in che forma, quando dove; magari anche lì dove Sandy ha appena lasciato un paesaggio devastato peggio che da un bombardamento (leggi anche l’articolo di Mike Davis, «Clima e business, verso il grande crash»). Ma Sandy mostra anche in modo lampante – tra tante altre cose – che la dottrina che ha portato al governo Mario Monti, e lo stuolo di professori che ne gonfiano i ranghi, non vale un fico secco ed è solo una manifestazione di grande prepotenza e di grande ignoranza, di una vera e propria «dittatura dell’ignoranza». Ignoranza di ciò che sta succedendo o che sta per succedere nel mondo reale, quello della vita quotidiana di tutte e di tutti, e non nell’iperuranio dello spread e dell’alta finanza, che comunque anche Monti e i suoi sodali italiani ed europei – molti altri sparsi nel mondo – non sanno o non vogliono mettere sotto controllo.
(…) Se si scende su questa terra dal cielo dei cicloni o da quello delle tempeste finanziarie il risultato non cambia. In un solo giorno Sandy ha provocato sulla costa orientale degli Stati uniti un disastro analogo, ma dieci volte maggiore, di quello che le politiche finanziarie adottate dall’Unione europea stanno infliggendo alla Grecia. Un paese dove metà della popolazione non ha più la luce elettrica e usa le candele non perché tre o quattro centrali nucleari sono state allagate o perché i cavi elettrici sono andati in corto circuito, ma perché gli utenti non possono più pagare le bollette e l’azienda, destinata alla privatizzazione se solo qualcuno vorrà comprarla, taglia gli allacci. Dove l’acqua potabile spesso non arriva più non perché le pompe sono bloccate, ma perché i gestori del servizio non hanno più il denaro per farlo funzionare. Dove molti non hanno più niente da mangiare non perché le strade sono interrotte, ma perché il circuito economico si è fermato e per chi è rimasto senza soldi non c’è più niente né da vendere né da comprare.
Il cinismo con cui governo e ministro del lavoro (iena plorans) si sentono autorizzati a sacrificare diritti, dignità e vita non solo di milioni di giovani e di lavoratori, ma persino dei portatori di handicap nelle scuole e dei malati di sla (e che cosa resta più della loro vita?) che manifestano davanti ai palazzi del potere. E’ un anticipo di quello che succede in Grecia, che Monti chiama «risanamento», ma dove negli ospedali non si opera e non si ricovera più per mancanza di medicine e di presidi sanitari e molti si procurano da mangiare frugando nei cassonetti. E fa il pari con l’assoluta indifferenza nei confronti della crisi ambientale planetaria di cui il governo ha dato e continua a dar prova. A cominciare dal discorso di presentazione del suo programma al Parlamento, in cui la parola ambiente non è mai stata nemmeno nominata (e nessuno, tranne il manifesto, lo aveva fatto notare). Non è una svista: nel frattempo il ministro Passera programma di trivellare il paese come una groviera, alla ricerca di poche gocce di petrolio che al massimo ne coprirebbero il fabbisogno per un anno o poco più; progetta di farne il perno (hub) del metano importato per tutta l’Europa da tutto il resto del mondo, finanzia con il risparmio postale chilometri di autostrade moltiplicando congestione, inquinamento, dissesto idrogeologico e costi del trasporto. Sprofondando tutti in un’economia fossile senza futuro.
(…) Qui sta la colpa più grave del governo e di tutte – tutte – le forze che lo sostengono, l’ambiente cancellato dalla loro agenda, soprattutto per ignoranza – è un fattore cruciale. Prenderlo in carico è l’unico modo per garantire un futuro alle imprese in malora, e ai lavoratori di cui si sta facendo carne di porco. Significa lavorare a una loro riconversione a quelle produzioni che favoriscono la transizione verso un’economia sostenibile: in campo energetico, edilizio, nel settore della mobilità, in quello agro-alimentare, nella salvaguardia del territorio, nell’educazione e nella ricerca, nelle mille e mille piccole opere che possono garantire occupazione, sicurezza e vivibilità a tutte le comunità, ma che al tempo stesso concorrono a mettere in sicurezza il pianeta. E che potrebbero instradare il nostro paese verso le tecnologie e soprattutto le soluzioni gestionali – complesse, articolate, altamente differenziate, necessariamente partecipate – indispensabili per promuovere questa transizione. E se non ora, quando?
(Ampi stralci di un articolo pubblicato da il manifesto il 2 novembre 2012)
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