S’era affacciata nel gabbiotto di legno che fungeva da ufficio degli abbonamenti, proprio in fondo all’interminabile corridoio di via Tomacelli, e aveva chiesto delle forbici. Gentile, sorridente ma altera come sempre. Poi s’era accomodata in silenzio sull’unico sgabello libero, certo attratta dalla pila di pesanti collezioni rilegate che giacevano aperte e disordinate ovunque. Ci annegavo da mesi in quelle collezioni, scrutando minuziosamente ogni singola pagina di dodici anni del mio giornale alla ricerca del meglio, delle più importanti interviste internazionali del manifesto: Sartre, Marcuse, Wallerstein, Allende, Foucault, Althusser, Habermas, Garcia Marquez, Hobsbawn… Roba da gelare il sangue per il terrore di saltare qualcosa di essenziale o di scegliere male. Leggevo il manifesto da quasi dieci anni, tutto, ma ne avevo ancora solo ventiquattro in quella tarda sera primaverile del 1982. Era molto tardi, il giornale era andato in tipografia da tempo e c’era un silenzio quasi surreale, le molte stanze della redazione ormai quasi vuote. Rossana mi guardava con uno sguardo intenso, serio ma insolitamente dolce. Poi, d’improvviso, aveva chiesto: “Cosa si prova a vedersi scorrere sotto gli occhi tutta la nostra storia?”. Non ricordo affatto cosa le risposi, probabilmente qualche fesseria sul senso di responsabilità e il fascino della storia di quegli anni cercando di tradire il meno possibile l’emozione di sentirmi rivolgere una domanda simile proprio da lei. Ricordo bene, invece, cosa disse stringendomi tutte e due le mani, con quelle sue dita lunghe, prima di andar via. Dopo aver scambiato ancora qualche frase su come quel che facevamo potesse interessare i più giovani e quel che gli anni settanta avevano significato per la speranza di fare rivoluzioni nel mondo, disse: “Quando tu avrai la mia età, forse, questa nostra storia non interesserà più nessuno. Sarebbe un gran peccato, vero?”. Pensai che fosse solo molto stanca, lo ero anch’io, ma nemmeno quella volta ebbi il coraggio di dirle che erano state proprio le sue parole, in un’affollata assemblea studentesca di parecchi anni prima, a cambiare il mio modo di guardare il mondo – e la mia vita – per sempre (marco calabria)
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Quella che segue è la prefazione di Rossana Rossanda alla prima edizione de “Le interviste del manifesto”, a cura di Marco Calabria, Michele Melillo e Gianni Riotta. Stampato nel gennaio del 1983 dalla Cooperativa manifesto anni 80, il volume fu realizzato solo per gli abbonati del quotidiano. Negli anni scorsi, il manifesto ne ha stampato e distribuito una seconda edizione.
Un’intervista è un’istantanea. Una doppia istantanea: fissa l’immagine di chi parla e quella dell’interrogante. È un punto singolare del giornalismo, specie politico. E c’è modo e modo di farlo.
Il giornalista mattatore coniuga su se stesso qualsiasi paesaggio umano: l’intervista è prima di tutto chi la fa, e l’intervistato sa che, se accetta, si sottoporrà a un giudizio, tanto più sornione in quanto indiretto. Sarà l’apparente obiettività delle domande, mai innocenti, e l’imbarazzo delle risposte a garantire che viene colto il “vero”: “Gliel’ho fatto dire con le sue parole”, giubilerà l’intervistatore o l’intervistatrice. Il fine non è capire, ma dimostrare, anzi svelare: ora vi mostro chi è costui e a cosa mira. È una falsa intervista, un monologo dell’interrogante.
Il giornalista neutro non coniuga invece, apparentemente, nulla: trae dal suo paesaggio la fotografia più smorta o prevedibile. Quando non è addirittura il personaggio interrogato che si serve di lui, avendo scelto la posa, lo sfondo e facendo scattare l’obiettivo con i congegni del potere a distanza. Queste sono immagini poco rivelatrici; testimoniano, al più, d’un fine politico o pubblicitario a breve. False interviste, monologhi dell’interrogato.
Poi c’è l’intervista vera, nella quale l’interrogante scopre le sue carte attraverso le domande e queste sono rivolte a capire colui o colei che gli sta davanti. È un momento raro, simpatetico, che può darsi anche fra persone assai lontane per ideologia o esperienza: uno si china sull’altro, lo vuol vedere, e l’altro risponde vedendo a sua volta, o intravvedendo, gli occhi dell’interrogante. La vera intervista è un dialogo, e abbisogna d’una umana curiosità delle due parti.
Quel dialogo fissa allora un momento della storia, grande o piccola che sia: prima o dopo, se l’intervista è “vera”, il giornalista non avrebbe fatto quelle domande e le risposte non sarebbero state le stesse. Anche negli intervistati di più grande coerenza di vita o di princìpi, mutano gli accenti: le attese, le speranze, le delusioni sopraffanno la continuità della posizione, colorano le “obiettività”, il dialogo gira per tutt’altri versi.
Chi, leggendo questo libro, vorrà riandare alla collezione del giornale per confrontare le interviste alla stessa persona in diversi momenti, troverà questo passare della storia dentro le vite. Penso a un uomo così composto e riservato con cui abbiamo parlato più volte, Pierre Mendés-France: assolutamente quieto, antiretorico e controllato homme d’état. Eppure è trasparente il momento in cui parla: gli anni della crisi della sinistra, quelli della speranza d’un recupero, della quasi vittoria, della vittoria e dei momenti che seguono – è nel disporsi del ragionamento, non nell’enfasi dell’aggettivo , che traluce la passione, si tradisce lo stato d’animo. L’irripetibile di quella intervista, quel momento.
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E così accade per l’interrogante. Dieci anni di colloqui del manifesto col resto del mondo scrivono la nostra vicenda con non meno verità che gli editoriali; forse più innocentemente. Perché la nostra tecnica non è quella degli scoop, anche se più d’un giornale classicamente votato ad esso ci invidierà la messe di personaggi e quel che ci hanno detto (ne siamo sorpresi noi stessi, vedendoli tutti assieme e selezionandoli); è una tecnica di ricerca. Non muove dalla casualità (“il tale è di passaggio, catturiamolo”; molti passaggi li abbiamo lasciati perdere. Tanto meno: “il tale è di moda, traversiamo l’oceano per vederlo”, pensata comunque interdetta dallo stato calamitoso delle nostre finanze).
L’intervista nostra nasce in genere all’interno di un viaggio o d’una situazione, come verifica di quel che si è veduto e creduto di capire attraverso un personaggio che in quella circostanza sembra essere rivelatore d’un processo in atto. È il sondaggio di alcune ipotesi in una persona, e della persona attraverso ipotesi che si dovranno magari buttare (atteggiamento essenziale, se si vuol intervistare davvero); più raramente è il sondaggio d’un momento collettivo assai difficile, ma quando avviene felice (penso alle interviste volanti alla Renault dopo l’uccisione di Overney, o ai vari comitati di fabbrica alla Lisnave, o alla Sumar pochi giorni prima del “golpe”, in Cile). Nell’interrogare un gruppo – è in quell’ora e tempo in cui si forma – è impossibile lo scavo; quel che va colto è il rispondersi e il contraddirsi della frammentazione delle risposte (le istantanee dell’istantanea) nel filo che le lega, che ad esse sottostà, certezza o smarrimento, speranza o amarezza.
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In questi nostri viaggi di dieci anni – rari e perlopiù fuori dagli itinerari del grande giornalista fornito di mezzi, di regola in scenari incomodi anche sotto il profilo professionale (quanto pochi i telex in albergo, quante ore nei polverosi uffici postali, quanti impervi apprendistati della maligna tastiera per risparmiare i soldi della battitura) – le interviste sono dunque una raccolta e messa a punto delle idee compiuta a due. Una sola di quelle che pubblichiamo è un fotogramma, fedele e spietato, come di chi si china all’imbocco d’un cratere, non sul volto d’una persona: sono le domande di Lucia Annunziata a D’Aubisson, in Salvador, sotto le fucilate delle “libere elezioni”. Non è un dialogo.
Non può esserlo, e in ciò diventa rivelatrice anch’essa del nostro punto di vista. Perché il manifesto gioca a carte scoperte: chi accetta di parlargli sa più o meno (piuttosto più che meno) che razza di bestie siamo. E infatti ci sono, fra i nostri interrogati, clamorose assenze accanto alle clamorose presenze: personaggi neppure cercati, oppure negatisi.
Ma sorprendono anche noi, che oggi mettiamo assieme questa raccolta, le presenze: testimoniano come questo foglio dell’estrema sinistra ragionante sia stato per molti stranieri, anche tutt’altro che ultrasinistri, un interlocutore incontrato con curiosità e interesse. Più d’una volta, quel dialogo iniziale si è trasformato in un filo di amicizia che ci avrebbe permesso di ritrovare dopo anni e da lontano, per telefono, in momenti difficili da interpretare, la voce di colui cui avevamo parlato in ore meno gravi, e ora chiedevamo la chiave d’un precipitoso oggi.
Perché furono tanti ad aprirci le porte in questo decennio settanta, e perlopiù rispondendo “Non occorre, mi fido” alla domanda del professionista corretto: “Vuol rivedere il testo della sua intervista?”. Fidarsi d’un giornale così fuori dell’establishment poteva per più d’uno essere un rischio. Credo che ci abbiano ascoltato e parlato perché, come dicono i giocatori di bridge, noi annunciamo sempre il colore. Perché ci manca il gusto del massacro, anche dell’avversario.
Lette oggi queste interviste, ci hanno fatto pensare con divertimento alla mansuetudine con la quale accettiamo il cliché, che molti ci affibbiano, delle “passate certezze”, Altro che certezza: la nostra voce interrogante non è mai asseverativa, e di fronte alla certezza altrui è irrefrenabilmente portata a introdurre un “ma” o un “sì, però…”. E dire che eravamo un collettivo di giornalisti militanti, stracarichi di ideologia, in cerca d’un mondo in rivoluzionamento”, che ogni tanto riuscivano a intrufolarsi in un viaggio dormendo dove si poteva e sfruttando sfacciatamente il collega gentile ed abbiente: avremmo dovuto essere tutti d’un pezzo, ferrei, a misurare col metro impietoso del nostro marxismo l’altezza, il peso e la temperatura dell’interlocutore. Non c’è una sola intervista che sia stata fatta così. Leggere per credere.
Il fatto è che tanto accecati dalle certezze non siamo mai stati. Traluce anche da questa scelta come, in fasi di ascesa e in quelle di crisi, ci muovevamo sempre, forse inconsapevolmente, come se fosse il timbro naturale della nostra voce, alla ricerca d’una rivoluzione difficile. La nostra speranza ha sempre avuto una memoria, e questa ci tratteneva dagli scalpitii, moltiplicava gli interrogativi.
Del resto nascevamo nel 1971, non nel 1968; sono due anni che contano. Molti di noi con storie meno esaltanti che deprimenti alle spalle. Il nostro accento è quello del “Vediamo un po’ come stanno le cose”, quello d’un impegno furiosamente laico. È anche divertente scoprire, alla lettura, come i più sicuri, i meno dialoganti siano gli “esterni” al collettivo; simpatizzano e veicolano. Noi simpatizziamo ma non veicoliamo.
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Neanche nelle fasi montanti. La prima intervista di questo volume è quella con Jean Paul Sartre e già manda questo suono. Noi eravamo, della nuova sinistra italiana, il gruppo più legato al marxismo dell’alienazione, quello che – anche per l’esperienza prolungata nel partito comunista di parte di noi – portava l’accento più forte su quanto non era strutturato in istituzione, sul movimento, sul non organizzato, il nascente – l’accento del Marx originario, di Rosa Luxemburg, di qualcosa della Scuola di Francoforte, del comunismo dei consigli. Eppure con Sartre, nel quale il 1968 risveglia gioiosamente la vena antica di anarchismo, sembriamo l’avvocato del diavolo: come se seguendo nell’altro – e quale altro, uno specchio che rimandava bagliori insospettati – le nostre inclinazioni, le misurassimo con cautela, ne verificassimo sospettosamente lo spessore, volendo che fossero vere ma non a buon prezzo, non a costo d’una forzatura della ragione. Fummo degli estremisti davvero bizzarri. Forse per questo non piacemmo troppo né alle istituzioni, che ci misero fuori dalla loro cerchia, né ai movimenti, che gradivano verità più semplici e consolatorie.
L’intervista del ’69, del resto, già chiude una fase. Il 1971 – quando inizia il quotidiano – vedrà spegnersi le famose “fiamme rivoluzionarie” che parevano ardere nel mondo: il rosso già accenna a stingere in rosa e quando non è la sconfitta, passa al posto della rivoluzione la sinistra riformatrice, riformista, e anche meno. Una sola contraddizione resta flagrante: la resistenza palestinese. Perfino del martirio vietnamita si vede da un pezzo la fine vittoriosa. Mentre si è già chiusa la rivoluzione culturale cinese, quella che noi soli (e in perfetto isolamento) avevamo letto in termini non stalinisti; la dimensione della tragedia l’avremmo colta dopo, ma era tutta delineata in quei mesi. Il manifesto apriva il suo primo numero, il 28 aprile del 1971, con un reportage di Karol dalle basi rosse di Mao – quelle che erano state le sue basi rosse. Benché Karol volesse mandare, col suo pezzo, anche un augurio – fedele manifestista all’estero – questo era già contenuto, venato dal dubbio che ci avrebbe espresso al ritorno e che percorre l’intervista del giugno, qui riprodotta: in essa ci interroghiamo, noi e lui, sul senso ultimo della campagna contro il “gruppo del 16 maggio”, sigla d’una speranza estrema ed estremista, disseccata nei suoi errori – facile operazione. Significativa.
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Poi, subito, sarebbe stato il Cile. Il quale era sembrato smentire la nostra polemica con il partito comunista: le rivoluzioni non passavano, la via parlamentare sì. Andammo a vedere, profittando d’un invito dell’Università di Santiago. Ricordo che passai da Parigi e incontrai Sartre: “Dove va?”. “In Cile”. “Ah, non è interessante. Sono riformisti”. Impenitente. E anche, nel caso specifico, approssimativo: perché in politica la carica dirompente, la “rivoluzionarietà” d’un programma è data dalla situazione e se un programma riformatore è naturale in Svezia, in America Latina poteva essere esplosivo. Ma neanche i nostri lettori avevano una gran voglia di sapere come funzionava il riformismo: più d’uno ci scrisse che sprecavamo spazio per il Cile, qui c’erano lotte più importanti. Oggi l’intervista di Salvador Allende impressiona per la sua lucidità. Forse lo incontrammo nel momento giusto, a un anno dalla vittoria, quando essa si fa difficile; è l’inizio del dubbio, che è il momento più fertile di idee, trasparenze, ambiguità, o forse ambivalenze più che ambiguità.
Quanto a noi, credo che potremmo ripubblicare tutto quel che abbiamo scritto sul Cile, e raccolto nel 1974 in un quadernone che rapidamente si esaurì: le nostre simpatie per il Mir non ci accecarono. Penso a tutti questi amici e al loro destino di sangue, somigliano così poco alle nostre “organizzazioni combattenti”. Sbagliarono anch’essi, in parte o molto: ma ebbero una dimensione morale, come quasi tutti i latinoamericani, che qui non c’è mai stata. Duro da dire, duro da capire. Là il guerrigliero fu una figura determinata dai grandi del passato, il modello era Ernesto Che Guevara, il movimento 26 di luglio, spericolato e cavalleresco, incapace di colpire un obiettivo povero e dipendente. Dare la morte era un dilemma morale. Noi invece abbiamo i teorici dell’annientamento. Come se l’Italia potesse andare solo molto avanti o molto indietro rifluendo verso sue torbide ricorrenze. Torniamo ai nostri esteri.
L’Europa manda, nei primissimi settanta pochi segnali incoraggianti: l’Italia fa ancora eccezione, nel 1972, per i grandi movimenti operai, e subito dopo per i grandi movimenti civili, il femminismo, i giovani. Altrove è l’isolamento, o il declino del radicalismo americano e tedesco. Di questa stagione le interviste che vanno più in profondità sono di Luciana Castellina: incalzati i protagonisti, Marcuse quando le università già tacciono, Habbash che sbaglia (e noi dubitosi, incerti). Più tardi sarà lei la prima giornalista del mondo a discutere con Horst Mahler, che era stato il teorico della Rote Armée Fraktion, nel carcere berlinese di Moabit.
Sono gli anni in cui il rosso stinge in rosa, ma attraverso precipitazioni e trascoloramenti impreveduti. E, improvvisamente, nel 1974, l’Italia non sembra più, nel suo impetuoso avanzare di movimenti e partiti e soprattutto nell’alta qualità della sua domanda politica, un pezzo d’Europa a parte. Esplode il Portogallo, e dalla parte imprevedibile della storia: saranno i soli militari a fare la democrazia e a liberare le colonie. Dura poco la rivoluzione dei garofani (in questi giorni è venuto a trovarmi uno dei suoi uomini e mi diceva “il tale è a casa, il tale non vede nessuno, quello è molto invecchiato, quell’altro è all’Unesco, e molti, moltissimi, studiano. Specie la storia. Per il bisogno di ritrovare le ragioni della lunga identità salazariana e della fragilità di quell’altra bellissima che la liquidò – nulla fu così splendidamente giovane come Lisbona nel 1974, caloroso e festoso e forse ingenuo, del tutto alieno da crudeltà, pieno di idee non accattate, non vecchie; certo anche di sogni). Molte sono le sue tracce sul giornale, a partire dalle prime ore (a Lisbona c’era Stefano Bonilli) tanto che m’è venuto da dire, con malinconia, “è durata ben poco, Manuel, saranno stati tre anni?”. “Un anno e tre mesi”. Da un aprile a un novembre dell’anno seguente. Non era un principio, era una fine di ormai sclerotiche dittature. Lo capimmo? Forse no.
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Poi ci sarebbe stata la Spagna, che si sollevava come una gravidanza della storia: avrebbe partorito la democrazia più lenta, smorta, torbida, insospettata, il cui primo guizzo – il primo giorno festoso – è di pochi mesi fa, con la vittoria socialista di molti anni dopo. Rossa? Rosa? Appena un pegno della democrazia. La sola intervista sbagliata – ma chi non prevedeva diversamente? – è il lungo ragionamento di Santiago Carrillo, lucido sul mondo, cieco sul suo paese. Che parve il contrario del Portogallo, nulla di spezzato, nulla di conquistato dal basso. Eppure il frutto sarebbe stato uguale. Anche in Grecia è andata così. La borghesia apre negli anni 70, o fa aprire, le porte, cacciare i fascismi. Poi viene, quando viene, una sinistra, stracarica di interrogativi, legittimi; di perplessità, legittime; di debolezze, paurose. Ultima arriva la Francia, risalendo a strattoni una china dopo il 1968, ricadendo in qualsiasi crepaccio prima del maggio di Mitterand. Si può ben dire, che salvo noi, non lo vide nessuno. Assurdo, no? Dati i mezzi della grande stampa d’informazione. Eppure solo noi scrivemmo il 16 maggio del 1981 “Mitterand può farcela” mentre tutti davano Giscard vincente, non per speranza, ma per buon senso e qualche conoscenza dei fatti. Lo demmo vincente e dicemmo che non era né socialismo né socialdemocrazia: meno dell’uno, più dell’altra, ma soprattutto diverso – era un governo di sinistra nella crisi. Chissà che ne avrebbe pensato il dottor Allende. Noi, dispettosi, intervistiamo Badinter, il liberale, Delors, la bestia nera, il “destro”. Sono buoni investimenti per capire quel che succede oggi.
È che dal 1974, ma già annunciato nel 1971, c’è un nuovo protagonista in Europa, nel mondo: la crisi. Che imbroglia tutte le carte e le ideologie dell’ovest, dell’est. E matura il suo prodotto mostruoso e naturale, la destabilizzazione dovunque e la rinascita del pericolo di guerra anche nelle zone “alte”. Questo tema si rivela più ricco di verità delle verità, pur significative della crisi del Welfare come crisi d’una idea dello stato: la tematica dello stato autoritario rimbalza qui dalla Germania, all’inizio in termini solo politici (la risposta repressiva a una rivoluzione matura), confermati dall’incapacità del fronte politico di rispondere alla crisi sociale e politica delle giovani generazioni, e delle nuove figure della marginalità. Offe e Michel Foucault ne parlano anche con noi.
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E tuttavia anche gli stati autoritari appariranno fragili di fronte a una crisi più forte di loro: quanto alla sinistra e ai movimenti, essa ne sgretola ferocemente le basi sociali e l’unità, la stringe alle corde, la usura, ne scopre l’invecchiamento, ma non le dà requie né dove è al potere né dove non lo è. Così cambiano, all’ovest, i governi: chi governa ha sempre torto, ed è giusto che sia così perché è dominato e non domina un processo che gli sfugge: con l’autoritarismo mutila la società ma non salva se stesso. E all’est esplode la Polonia: anch’essa impreveduta, perché dalla parte giuta della storia.
Siamo stati (possiamo ben dirlo, quando si è un foglio così modesto nella diffusione, così controcorrente dunque, le pudibonderie sono inutili) i soli a non dar pace sulle società dell’est, a cercare, parlare, intervistare chi da fuori ne sapeva – i Marek, i Fischer – chi tra fuori e dentro, specie i polacchi ma talvolta anche gli ungheresi (i Baczko, i Pomian, ma anche Mihaly Waida) i cecoslovacchi raggiungibili in Europa, i cacciati via come Leonid Pliusc o chi aveva scelto l’esilio, come Carlos Franqui. Temo che neppure si troveranno nell’indice tutte le conversazioni, talvolta necessariamente “sotto traccia”; come è sotto traccia, involta in un servizio, la conversazione tra Aldo Natoli e Le Duan, e poi Deng Xiao-Ping, un curioso Deng, ancora Teng, apparentemente senza grande potere né capacità di averlo.
Con la Polonia, le nostre riprese “in diretta” si moltiplicano. Non stiamo né nel silenzio della sinistra imbarazzata né nel fragore delle schiere anticomuniste, antisocialiste, antimarxiste; perfino questo capitolo tremendo, rifiutiamo di leggerlo in puri termini di crisismo. Niente, o ben poco, ci dà ragione a breve, ma l’ostinata volontà di capire ci salva dalla molle tentazione del “capire è impossibile”. Le interviste si fanno sempre più complicate, rimandano molti suoni. In pochi anni la gente cambia, i migliori cambiano: i nostri interlocutori spagnoli, francesi, palestinesi, gli israeliani di sinistra. Non è lo stesso Felipe Gonzalez del 1982 quello del 1976, né il Mozdelewski di Solidarnosc è quello del 1956, di cui parlammo nella rivista appena nata. Non a caso qui, e non nella “cultura”, mettiamo due interviste a intellettuali politici, Louis Althusser e Gabriel Garcia Marquez. Lo stato, la storia, la responsabilità, il silenzio: gli anni settanta mandano questo suono e le ragioni della cultura e della morale si intersecano come non mai – compresi i loro abissi – con quelle della politica.
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Non tenterò di inseguire questo decennio in queste poche pagine, anche se nulla sarebbe più affascinante che capirlo: nel tempo, esso ci apparirà il più denso del secolo, quello in cui tutto arrivò a maturazione, anche a marcescenza, tutte le carte si scoprirono, le buone e le cattive, tutti ci trovammo di fronte a figure ininterpretabili con quel che già sapevamo. Forse le ragioni d’un Wallerstein o d’un Thompson vanno oltre il timore della guerra: umana e di risorse, totale e possibile, perché una distruzione non fisica è stata fragorosamente eseguita, condotta, provocata, autoprovocata. Di questo frammento di storia – che sono dieci anni? – continente sommerso ed emergente, il manifesto è stato testimone, le sue interviste parlano per esso.
Non diremo, come una volta dei libri gialli, “Non vi lasceremo dormire”; ma è sicuro che non le leggerete in pace, nessuna. Come noi, scorrendole e chiudendole, vi chiederete se il momento non è venuto di alzare la testa dai flutti: rimpiangere meno, imprecare meno, e alle zampate dei grandi processi distruttori di ideologie, rispondere con il rischio, la sfida delle grandi idee. Per le quali vale la pena di perdere il sonno.
13 dicembre 1982
Rossana Rossanda parla di Rosa Luxemburg in occasione dell’uscita del film di Margarethe Von Trotta – 1986
Bellissima questa prefazione di Rossana Rossanda. Rileggerla è stato un camminare insieme a lei attraverso i decenni e ripercorrere una grande lezione di storia e di politica.
Grazie di cuore.
Grazie per diffondere parole che evocano la memoria di questa Donna, esempio per le giovani generazioni.
Grazie.
IN MORTE DI ROSSANA ROSSANDA – LETTERA AL MANIFESTO
ROSSANA ROSSANDA è stata per me un punto di riferimento morale e intellettuale. Prima che politico. Ed io la saluto in questo triste momento con stima affetto ed ammirazione. Ma è proprio per questo che io credo sia giunto il momento di “raccontare” la storia di questi 50 anni a partire dal vissuto di ognuno dalle esperienze dalle riflessioni senza ledere LA VERITA’ STORICA. IL FALLIMENTO DELLA “SINISTRA”, che io credo sia fallimento di CIVILTA’ e CRISI RADICALE e non solo economica e sociale, è sotto gli occhi di tutti. Ma non si va molto lontano se non si trovano i modi le forme e i tempi di questa crisi. Nei ricordi di oggi l’intervista di COSIMO ROSSI a D’ALEMA mi ha colpito particolarmente. Perché si da il caso che a PISA nel 68 siamo stati compagni (?) di UNIVERSITA’ e di PARTITO. E le nostre storie si sono intrecciate e scontrate. E Cosimo ROSSI sul giornale non lo incalza assolutamente su quelle che sono state le sue responsabilità storiche . MASSIMO D’ALEMA, che non ha mai lavorato in vita sua, E’ UN CRIMINALE DI GUERRA. Ha fatto con COSSIGA, uno dei peggiori Presidenti della repubblica di questo paese che con GLADIO si è macchiato di attentato alla Costituzione, LA GUERRA GIUSTA LA GUERRA UMANITARIA (mai ossimori furono più vergognosi) assieme a BLAIR a CLINTON…Non aveva ancora finito il suo discorso di insediamento al governo e gli aerei erano già partiti per andare a bombardare. E’ responsabile della morte di migliaia di persone. E le morti peggiori sono quelle che ancora continuano nei territori bombardati e nelle vite dei “nostri ragazzi” morti in modo orribile a causa dell’uranio impoverito di cui non erano stati né informati né messi nella condizione di difendersi. Ma questo CRIMINALE ha violato e violentato l’art. 11 e la COSTITUZIONE. Ma il “nostro” non è solo UN CRIMINALE è anche UN INFAME e UN BUGIARDO. E questo Rossi non poteva saperlo. MASSIMO D’ALEMA CON IL MANIFESTO E LA SUA STORIA NON HA AVUTO NIENTE A CHE VEDERE. E tanto meno con Rossanda. Quando Filippo Maone è venuto a PISA per gli abbonamenti alla rivista senza informarsi su come stavano le cose nel PARTITO e nel movimento ha consegnato alcuni blocchetti a D’ALEMA e MUSSI. Ma l’aria che tirava era già pesante e D’ALEMA me li ha riconsegnati in piazza Garibaldi il giorno dopo e MUSSI li ha riconsegnati a ALFONSO GAGLIO con cui abitava. Non solo quindi non c’entrano niente ma badarono bene a tenersi distanti. Come possono testimoniare ALDO FRATOIANNI padre di Nicola GONARIO SEDDA ALFONSO GAGLIO (se sono ancora vivi e glie lo auguro!) il sottoscritto e Jacono “il professore” che per la sua carriera accademica ha tanto “usato” il manifesto giornale. Allora eravamo già un gruppo e un punto di riferimento nel movimento e nel partito. Ma il “nostro” era figlio d’arte (suo padre era parlamentare). Ho nominato quelli che poi il 10 gennaio 1970 dopo il 68-69 e la radiazione costruirono in 24 il primo, credo, centro del manifesto. Ma prima animammo la CELLULA UNIVERSITARIA. Che si ricostituì poco dopo l’uscita dal partito di tutti quelli che costruirono prima IL POTERE OPERAIO e poi LOTTA CONTINUA. Perché tra le tante bugie “il nostro” racconta di un PCI che proprio grazie a ROSSANA fu attento al movimento. L’anno degli studenti di ROSSANA fu una lettura impeccabile di quello che stava succedendo, ma IL PCI fu contro il movimento e viceversa. E quella riunione di cui parla il nostro a cui erano presenti anche NATTA JOTTI BERLINGUER (il fratello) e NAPOLITANO non solo non aprì un dialogo ma sancì una chiusura. Si dà il caso che a quella riunione c’ero anche io. Ed anche allora la ROSSANDA fu malcompresa e maltrattata. Ma là dove L’INFAMIA DIVENTA ABISSALE è quando “il nostro” dimentica il congresso della cellula universitaria. Al congresso MUSSI e D’ALEMA NON FURONO ELETTI DELEGATI. Perché persero il congresso. E quando il 2 gennaio me li trovai al congresso provinciale di CASCINA trasecolai. Io venivo dalla GERMANIA (dove vivevano i miei genitori emigrati dal 62 da un paese della provincia di Salerno…per mandare “ i figli a scuola”…come diceva mio padre…), a PISA c’erano stati i FATTI DELLA BUSSOLA. La contestazione che finì con i carabinieri che spararono e misero CECCANTI sulla carrozzina per il resto della vita. Così io, che ero stato eletto con il 90% dei voti congressuali mi ritrovai assieme a questi signori, che non erano stati eletti e che aggirarono il risultato congressuale con l’aiuto dei burocrati della federazione che li fecero risultare “eletti” nel congresso della FGCI. UNA VIGLIACCATA perché prima di tutto tutti sapevano che avevano perso il congresso nella cellula dove facevano politica e poi era chiara l’operazione in atto. La commissione elettorale aveva pensato bene, ovviamente, di escludermi e dal Comitato Federale e da delegato al congresso nazionale. Questo perché io nel mio intervento mi schierai con il movimento degli studenti e degli operai contro l’occupazione della Cecoslovacchia e a favore della RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE…per uscire a “sinistra” dallo stalinismo e dal socialismo reale. Paietta mi attaccò e ridicolizzò. Anche perché avevo citato Jacoviello. Che lui considerava un reietto. Il caso volle che il professor GERACE di ingegneria andò al microfono e disse :” Io cosa dirò ai compagni in sezione dopo il congresso a proposito dell’esclusione totale di STELLA…che è l’unico che è stato eletto con una maggioranza schiacciante? E come spiegherò invece l’esatto opposto proposto dalla commissione per MUSSI e D’ALEMA?”. Così mi misero nel comitato federale e fui delegato al 12esimo congresso di Bologna. Dove capii, per il modo in cui furono trattati PINTOR ROSSANDA, tutto il manifesto (quarto intervento la mattina con i delegati o assenti o a leggere i giornali…), che il PCI ormai non c’entrava più niente con il comunismo il socialismo e la democrazia. Dopo il congresso nazionale, in cui” logicamente “MUSSI fu COOPTATO al Comitato Centrale (era almeno figlio di un operaio di Piombino e normalista) ma non era stato eletto noi cominciammo a spingere per la scissione. Anche perché non credevamo al famoso dibattito che i compagni Pintor Rossanda Magri volevano suscitare nel partito. Che poi infatti non ci fu in realtà. Ma la cosa più importante di questo discorso ed esperienza è il risvolto culturale che ne viene fuori e che si fa MORALE. Le burocrazie, la cooptazione come sistema nella creazione dei gruppi dirigenti, la menzogna come forma di lotta politica. Il basso che non conta e non decide, la politica come mestiere e professione, i lavoratori il proletariato che da soggetto diventa oggetto , i movimenti che vengono sempre dopo, il futuro che non si fa e costruisce subito, le carriere eterne…e LA VERITA’ che non è fondante. Insomma è tutto il modo di pensare la politica e di praticarla che ha FALLITO. L’intellettuale collettivo non è mai esistito E’ per questo che all’impostazione e all’ipotesi Pdup io (noi) non abbiamo mai creduto. IL PCI è MORTO NEL 66. Subito dopo la morte di TOGLIATTI e con la sconfitta di INGRAO all’11esimo congresso. E INGRAO ha una responsabilità storica. Così il 68 non ha avuto punti di riferimento. E il movimento non ha avuto la capacità la forza intellettuale per uscire dalle sinistre del secolo breve e tracciare un’altra strada. E la scissione del manifesto non ha prodotto la forza necessaria. Così le tesi per il comunismo non sono diventate carne viva. I ruoli e le gerarchie sono rimaste. E molti dei modi di essere del PC non sono stati ribaltati. Io mi fermo qui, ma dovrei parlare ancora di “come” – e dovrei chiederlo anche a chi di voi c’era- la GAGLIARDI è arrivata al giornale è diventata redattrice e di chi ce l’ha mandata e con quali processi “democratici”. Visto che a BOLOGNA per il lancio del quotidiano la compagna ROSSANDA mi aveva chiesto se ero disposto a trasferirmi a ROMA. E io avevo risposto che lo dovevamo decidere tutti assieme nel centro di PISA. Poi a PISA da Lotta Continua arrivò Rina e dopo circa una settimana, lei che col manifesto non c’entrava niente..aiutata dal professor IACONO… e dal silenzio generale si ritrovò a ROMA prima per una settimana e poi per sempre. Io non posi il problema perché mi vergognavo . Ma poi sono stato contento di non essere diventato uno dei redattori. Non avrei condiviso troppe cose…. Però ho capito che anche i redattori del manifesto sono nati con sistemi PC. Così il 72 e gli avvisi del CLUB di ROMA non furono colti. E ancora ora mentre la CRISI è RADICALE E DRAMMATICA a livello mondiale e il virus mostra addirittura la strada ai limiti del paradosso non nasce e cresce un movimento di movimenti. Perché i soggetti sono plurali. E ILPARTITO NON E’ LO STRUMENTO. IL PARTITO HA FALLITO. MARCOS L’ha capito. Ma IL CHAPAS NON ESISTE. E ognuno ha da fare la sua rivoluzione trovando il sé la natura l’ambiente i viventi e la MORALE. Scusate se ho parlato di me. Lo volevo fare da molto tempo. Ora ho 72 anni. Sono stato e sono un compagno di movimento convinto da tempo che chi è ed è stato COMUNISTA non può che essere un convinto ECOLOGISTA e che LA CONVERSIONE ECOLOGICA E’ LA STRADA.E LAUDATO SI’ è il miglior documento culturale e politico dal 68…
Gaetano Stella –lago di chiusi-22-9
-passaparola!-http://blog.gaetanostella.it
N.B. Mi autopubblico perché in 40 e più anni il manifesto
non mi ha mai pubblicato. E io sono “nessuno”.
Che meraviglia questo scritto di Rossanda e il bel ricordo di Marco Calabria. Grazie a Comune, preziosi come sempre.
Grazie Marco. È la cosa più vicina che ho letto, tra le tante pur molto sentite e sincere.
Faccio mie le tue parole. Rossanda, e quel giornale – quella lunga storia – che iniziai a leggere, e poi a diffondere, che ero poco più che un ragazzino, sono state un punto fermo anche per me, come credo per tanti altri della nostra generazione. Una svolta determinante nelle nostre vite.
Un abbraccio
MM
Una maestra per tutti noi, un esempio.
“…come dicono i giocatori di bridge, noi annunciamo sempre il colore. Perché ci manca il gusto del massacro, anche dell’avversario”.
Bisognerebbe far leggere questo testo di Rossana Rossanda a certi personaggi che pretenderebbero di manovrare l’intervistatore o l’intervistatrice a loro piacimento. Non sanno che ancora oggi, che quella grande storia compie cinquant’anni (quasi) e pure tutto è cambiato, rimaniamo fedeli – seppur non all’altezza – agli insegnamenti di quei giganti del giornalismo che sono stati Rossana Rossanda, Luigi Pintor e Valentino Parlato.
Grazie grazie, grazie.
Grazie Comune.
Marco, grazie. Lo scritto di Rossana Rossanda è un capolavoro e il tuo ricordo struggente. Un bel modo di accompagnare questa perdita. Forse, il migliore che abbia letto. Grazie ancora