Racconti da un corso di italiano per stranieri
di Lino Di Gianni*
Alla fine della lezione si avvicina Rosa, una donna cinese che ha scelto questo nome italiano stufa che non riuscissero a pronunciare correttamente il suo vero nome. È diversi anni che viene a scuola, con molta forza di volontà, perché lavora dodici ore al giorno in un negozio di abbigliamento cinese. Viene quando può, quando il padrone le dà il permesso. Sua figlia ha frequentato scuole italiane, adesso studia al Politecnico di Torino.
“Mi scusi, professore… posso chiederle una cosa?”.
“ Ma certo, dimmi, Rosa”.
E abbassando i toni, guardando bene che in classe non ci sia più nessuno mi dice: “Lei è fidanzato?”.
Nel breve istante in cui io sono completamente spiazzato da questa amica di una certa età, pensando alla mia di età avanzata, pensando che di solito Rosa mi parla di sua figlia, oppure di problemi del lavoro, e che è una persona molto corretta e gentile, lei mi dice, mostrandomi una fotografia: “È una professoressa universitaria, mm, in Cina. Ha, mm, cinquantacinque anni. Lei dice, mm, se trovo bene, se no, mm, fa lo stesso.
Il giorno dopo nel gruppo avanzato di A2 lei non c’è, perché il suo datore di lavoro le concede solo un pomeriggio a settimana: a lei dispiace molto, perché ci tiene molto a migliorare il suo italiano. Però c’è un’altra ragazza giovane, cinese, appena arrivata da sei mesi. Ha studiato anche l’inglese, nel suo paese, e questa è una novità delle ultime generazioni cinesi arrivate qui.
In classe c’è anche M., che stenta a leggere bene, è timido, parla anche francese. Ha venticinque anni, e insieme a sua moglie incinta hanno iniziato il viaggio arrivando su un barcone a Lampedusa. Erano in centosessantasette, dice, molti bambini e molte donne. “Era una barca grande o una nave?”, chiedono le altre compagne, intenerite da quest’uomo dolce. “Era un gommone grande, molto pericoloso per il mare e le onde”, risponde lui. Lui sa nuotare, ma molti che fanno quella traversata pericolosa, non ne sono capaci e quando succede un incidente, affogano subito.
Le donne presenti del Perù, del Brasile, della Cina, del Marocco dichiarano tutte di essere arrivate con l’aereo, e tutte capiscono la differenza enorme, rispetto ai rischi dei ragazzi africani, e mi chiedono perché? Perché per cercare una vita migliore, senza guerre e senza miserie, devono rischiare la vita? Non hanno fatto così anche gli italiani quando erano poveri?
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