Mai come in questi giorni siamo schiacciati dalla paura del futuro, che consideriamo indegno di qualsiasi rischio. Del resto ovunque domina la morte. La nostra azione è paralizzata. Intanto, la vita di ogni giorno è soffocata dalla velocità che ci impedisce di pensare e di scegliere strade nuove. Non si tratta di inseguire la temerarietà ma di saper accogliere nella vita di ogni giorno quello che non conosciamo e le nostre fragilità, di cominciare ad andare oltre le paure, di restare aperti alla vita. Mentre si cerca ossessivamente la sicurezza in tutto, il rischio interroga prima di tutto il rapporto con il tempo, come ricorda un testo scritto poco più di dieci anni fa e ristampato in Italia tre anni fa, Elogio del rischio, da Anne Dufourmantelle, filosofa e psicanalista francese (collaboratrice di Jacques Derrida). Scrive, tra l’altro, Dufourmantelle (che nel 2017, a 53 anni ha rischiato e perso la vita in mare per salvare un bambino che stava annegando): “Benvenuta la civiltà cinetica, le nostre immagini in cut up e in montaggio accelerato raddoppiano i nostri atti, i nostri presentimenti, le nostre parole in una proiezione immaginaria sempre presente… Il futuro diviene una pura superficie di proiezione… Rischiare il futuro equivarrebbe forse a domandarsi come attardarsi ancora un po’… prendere del ritardo, restare un pochino indietro rispetto alla corsa folle delle ore e dei giorni e dei mesi, dei programmi e delle liste, delle attese, dei doveri, di tutto ciò che è già riempito senza neppure che noi si debba esserci. … Rischiare il futuro sarebbe allora un’altra via possibile del rallentamento…”. Un paragrafo del libro

“Qualche cosa che egli in maniera distratta e pusillanime ha lasciato passare di un presente che gli apriva il futuro… Si deve sospendere la propria corsa e girare su se stessi: convertirsi o forse danzare“
(Maria Zambrano, Chiari del bosco)

Di avvenire ‘puro’ non ne vogliamo. La sua estrema tossicità ci invade già come una promessa non mantenuta. Allora ce ne sbarazziamo: jolly. E tiriamo fuori dalla manica la scusa con un’aria un po’ triste. Prendere il rischio di quel che è a venire è una prodigalità che non ci concediamo. Perché significa rischiare di perdere tutto quel che avevamo accuratamente accumulato: abitudini, concessioni, segrete disfatte, piaceri furtivi, piccoli accomodamenti con i morti. Rischiare di vedere così smascherati tutti i nostri nascondigli, senza garanzia che siano almeno un pochino protetti? No, grazie. È salutare rifugiarsi là dove si può, non è così?…
La fenomenologia oggi rifiuta la grande idea del tempo che ha guidato la metafisica fino alle soglie del XX secolo. Pensare la totalità (del tempo, dello spazio, del mondo) è cosa superata, pare. Siamo entrati nell’era della totalità aperta, vale a dire locale, frattale. Una prospettiva che assembla le microdiscontinuità e tutte le linee di fuga che compongono la nostra visione. Benvenuta la civiltà cinetica, le nostre immagini in cut up e in montaggio accelerato raddoppiano i nostri atti, i nostri presentimenti, le nostre parole in una proiezione immaginaria sempre presente. Non vi è più delimitazione chiara fra il dentro e il fuori, né nella separazione fra privato e pubblico né in ambito giuridico o sociale, e nemmeno nella rappresentazione che ci facciamo delle nostre vite ancorate a una sorta di ideale del molteplice e del trasparente. Il tempo oggi è fatto di frammenti e di giustapposizioni molto rapide che non si lasciano più abbracciare da un’unica visione panoptica. Il futuro diviene una pura superficie di proiezione, fatto della compossibilità degli stati del reale. Scrive Michela Marzano:
Ognuno teme l’irrompere dell’inatteso: abbiamo talmente paura del futuro che siamo disposti ad assumere qualsiasi comportamento compulsivo per neutralizzare ciò che percepiamo come pericoloso. Ma i comportamenti compulsivi tesi a combattere la paura non fanno che generare spesso un’angoscia ancora più grande.
Ogni ignoranza è futura. Un piccolo atto di barbarie firmato da noi. E tuttavia vogliamo ritrovare quel che ha fatto di noi dei viventi estremi. Si preferisce non sapere, immaginarsi vinti e non battersi. Andare a combattere senza alcuna certezza, senza nemmeno un piano di battaglia, è assurdo. È così che consideriamo, per gran parte del tempo, il futuro. Indegno di rischio. A meno che non venga pensato a partire dal passato, dal nostro e da quello dei nostri genitori, da quel sapere immagazzinato in noi nel caso che… da cui viene la nostra garanzia di conoscere un po’ il territorio sul quale avanziamo i nostri passi.
Rischiare il futuro equivarrebbe forse a domandarsi come attardarsi ancora un po’… prendere del ritardo, restare un pochino indietro rispetto alla corsa folle delle ore e dei giorni e dei mesi, dei programmi e delle liste, delle attese, dei doveri, di tutto ciò che è già riempito senza neppure che noi si debba esserci. Il rischio è una capacità negativa (riprendo questo bel termine da Adam Phillips) e la capacità negativa è come un cammino che faremmo a ritroso rispetto a quello di Pollicino, ma per perdersi (alla fine). Rischiare il futuro sarebbe allora un’altra via possibile del rallentamento, della deviazione, di ciò che si attarda dietro le quinte, fuori campo, prima che tutto precipiti, come nel film di Sokurov, Arca russa, fatto di un solo lungo piano sequenza.
Tom è un architetto. Lavora in un’agenzia, è affaccendato in progetti, dossier, concorsi. Arrivando, mi dice solo: «Sono stanco», ed è tutto. E per qualche mese è tutto, in effetti. E poi un mattino, dice: «Non ne posso più, veramente, bisogna che lei mi aiuti». Ha fatto un sogno. Era in una casa di cui non riconosceva nessuna stanza. Entrava in ognuna, e sempre un’altra porta si apriva. Il sogno diventava un incubo. Non c’era fine a questa apertura infinita man mano che si procedeva…
Quale riparo introvabile vi spinge a essere costruttore, guaritore delle case degli altri, inventore di rifugi che si rifiutano per se stessi? Dal suo sogno Tom si era svegliato con un’angoscia indescrivibile. Aveva dovuto fare uno sforzo su se stesso per affrontare la giornata, come se si preparasse una catastrofe di cui solo lui aveva avuto i segni premonitori. Ma niente. Soltanto il ricordo di quell’apertura indefinita delle stanze su altre stanze. Voleva comprendere quella notte di sgomento nella paura che tornasse l’incubo senza oggetto né figure minaccianti, né alcuna apparente maledizione. Fu grazie alla sua professione, su un cantiere, che riuscì a riconoscere il suo sogno. Stava restaurando l’ala di un castello del XVIII secolo nel Périgord verde, con cautela perché gli avevano preannunciato la presenza di vestigia romane. Non scoprì rovine, ma un passaggio segreto. Un sotterraneo abbastanza recente che collegava il villaggio al castello e risaliva senza dubbio al tempo della guerra, di cui una parte importante era stata ostruita dalle intemperie. Una volta sgomberato, conduceva a una grande stanza a volta, una sorta di cantina dove si trovavano ancora delle carte e dei progetti. Li osservò: quasi ogni casa del villaggio possedeva un secondo accesso. Aveva davanti tutta l’organizzazione sociale di una vita clandestina. Studiò la storia della Resistenza in quel paese, le sue ramificazioni, la sua organizzazione, si appassionò al gioco, sorpreso della propria febbre. Apprese così che una delle famiglie aveva perso tre figli, arrestati qualche giorno prima della fine della guerra. Incontrò quella famiglia. Poi niente, per cinque anni. Quando suo nonno era in fin di vita, apprese che durante la guerra aveva nascosto due bambini ebrei (suo padre e suo zio) a casa sua, facendoli passare per gli ultimi nati della famiglia. I suoi ‘veri’ nonni erano stati deportati. Nessun dato anagrafico era rimasto. Suo padre ne era apparentemente uscito bene, se si eccettua il cancro che se l’era portato via a cinquant’anni. Suo zio, il fratello giovane, era diventato tossicodipendente. Ormai barbone, l’avevano trovato morto in una cantina. Di freddo, di fame? Il suo corpo era un rottame, aveva appena trent’anni. Lui, l’architetto che aveva fatto carriera, aveva passato la sua vita a costruire dei ripari, delle case per gli altri. Il silenzio può uccidere più di nessuna memoria. Perché non gli avevano detto niente? Non ebbe il coraggio, la forza, di chiederlo a suo nonno morente.
Non che il nostro silenzio uccida sempre. È la nostra debolezza, voglio dire ciò che si mette sul conto del silenzio. L’alibi che gli si fa indossare. Il nonno cattolico aveva adottato i due bambini per salvarli, ma rivelare la storia in seguito non era nelle sue prospettive. Era un eroe ordinario. Gli umani fanno quel che possono con la loro storia. Con il traffico delle menzogne e dei sentimenti. Con una coscienza rovinata da false convinzioni anche nelle occasioni in cui la generosità vorrebbe, e permette comunque, di salvare delle vite. Scrive Frédéric Boyer:
Tradurre quanto detto in passato in atto di vita presente è una forma di combattimento. Un combattimento che ha senso soltanto se ci salva dal passato e dai padri. Se ci strappa alla tradizione e fa di noi un superstite nella nostra lingua e nella nostra cultura.
La psicanalisi è una pratica di appropriazione che produce qualcosa di inedito. Parlo a quell’altro, l’analista, per metamorfosare l’eredità che si pretendeva di avermi riservato. La necessità della psicanalisi è in primo luogo quella di una rottura intima. Significa accettare la sensazione di essere un orfano in ogni lingua. In tal senso, sì, è una sorta di patto di sopravvivenza. Non incrementare il proprio debito né lasciare che l’oblio si immischi ma, al contrario, abbandonare le rovine, o uscire dai silenzi.
Lascia un commento