Che cos’è e come funziona nelle pratiche che le danno vita quell’economia capace di cambiare le strutture di potere del modello dominante? Quelle pratiche stanno generando condizioni di sostenibilità a lungo termine? Producono una nuova narrazione? Che tipo di relazioni sono in grado di costruire con le istituzioni e con i movimenti? Una lunga conversazione su questi e molti altri interrogativi con Ruben Suriñach, autore di “Economias transformadoras en Barcelona”, il libro che ha introdotto un concetto che prova a mettere insieme tutta la galassia delle esperienze critiche e alternative della città e dei territori
Ruben Suriñach è un economista, ha un master in Studi Ambientali ed Economia Ecologica e ha iniziato il suo percorso come attivista lavorando nella rivista Opcions, dedicata al consumo responsabile e alla decrescita. Dopo qualche anno è passato alla XES, rete catalana di economia solidale, soprattutto per dare impulso al progetto dell’”audit sociale” (simile al bilancio sociale, di cui parleremo più avanti), come strumento di valutazione dell’impatto delle imprese di economia solidale. Adesso segue anche i temi dell’ecologia, della efficacia politica e del coordinamento generale della rete. In Catalogna partecipa inoltre alla rete per la giustizia climatica.
Il tuo libro Economias transformadoras en Barcelona è uscito alla fine del 2017, un libro importante anche perché introduce il concetto di economia trasformativa. Di cosa tratta, dunque, e quale era il tuo obiettivo quando hai pensato di scriverlo?
In realtà, la necessità di costruire questa nuova narrazione nasce già da prima del libro, soprattutto dopo l’insediamento del nuovo consiglio comunale di Barcellona, nel 2015, che ha proposto di generare politiche pubbliche per alimentare l’ecosistema di economie alternative della città. Però, in qualche modo, il bisogno di comprendere l’ecosistema, di fare un discorso sulle altre economie della città senza che si utilizzasse ancora il termine economie trasformative già esisteva.
In pratica identificava quelle etichette o concetti che stavano circolando nell’ambito del movimento delle economie alternative: quali erano le idee chiave, gli attori dietro ogni iniziativa? C’era davvero una base sociale? Quali progetti imprenditoriali o comunitari si identificavano con questo concetto e quali erano le relazioni tra i movimenti? Abbiamo preso il termine “economie trasformative” non con l’intenzione di generare un’altra etichetta ma di trovare qualcosa che potesse inglobare concettualmente tutto quest’ecosistema. È una definizione abbastanza ampia, come tutti quei progetti o concetti che mirano a un elemento di critica del modello economico dominante e fanno proposte per trasformarlo o almeno attenuarne alcuni effetti negativi. L’ampiezza ci serviva a includere concetti tanto ambigui come innovazione sociale o economia circolare, per esempio, o altri come economia femminista o economia di decrescita. L’idea era generare una struttura generale per poter parlare di tutti questi concetti e classificarli. Oltre questa vocazione, se vogliamo più scientifica, volevamo lavorare su quello che è trasformativo e quello che non lo è, e capire quali sono gli elementi, i movimenti che ci interessa potenziare, perché realmente stanno generando un impatto sulla matrice economica della città e la stanno trasformando.
E, secondo la tua valutazione, il concetto di trasformazione socio-economica in questo momento su cosa si deve basare?
Nel libro per differenziarlo, e per poterlo spiegare in maniera più semplice, abbiamo disegnato due grandi assi: l’asse del potere e quello della sostenibilità . Per questo era necessario capire se realmente questi progetti politici erano capaci di generare una trasformazione socio-economica, perché alla fine sono progetti politici quelli che vogliono trasformare l’economia. Il che significa analizzare di fatto come queste pratiche possano cambiare le strutture di potere soggiacenti al modello economico dominante, e se stanno generando condizioni di sostenibilità a lungo termine. Ci sono poi delle articolazioni, sia sulla questione del potere che sulla sostenibilità, che possono far scaturire altri criteri di analisi. Alla fine, esse ci hanno portano ad elaborare un modello di “bilancio sociale” come strumento di valutazione dell’impatto.
Se all’interno di queste esperienze, ad esempio, il potere è orientato solo al profitto, che continua a essere il motore dell’attività economica, mentre la gestione continua a essere verticale, gerarchica e non democratica, non si compiono le condizioni di trasformazione del modello capitalista. E se a livello di sostenibilità non è garantita la sostenibilità dei corpi, delle cure su larga scala, se non si garantisce la sostenibilità del tessuto comunitario, non si staranno nemmeno attuando le condizioni per trasformare il capitalismo, sostituendolo con un sistema di economia plurale o trasformativa. Questi sono i due grandi elementi: potere e sostenibilità. È su di essi che si può costruire una griglia di criteri che ci portano a valutare l’efficacia trasformativa di queste progettualità. Questa modalità può esser adottata anche per valutare le azioni di politica pubblica municipale o quelle del mondo imprenditoriale.
L’analisi vi è servita per individuare i diversi paradigmi dell’economia alternativa? Come avete elaborato la loro diversa caratterizzazione?
Una prima cosa che abbiamo fatto è stata differenziare i movimenti dai fenomeni, perchè c’erano movimenti sostenuti da una base sociale, uniti in base a un progetto politico comune che si mobilitavano, generavano proposte per incidere sulla sfera pubblica. Quelli li abbiamo definiti “movimenti”, includendovi l’economia sociale e solidale, l’economia femminista, la decrescita, l’economia collaborativa e l’economia del bene comune, anche se si muove su altri parametri. Ci sono delle entità di riferimento che fanno proposte politiche e c’è una certa coesione come movimento. Invece i “fenomeni” sono più concetti che appaiono improvvisamente, provengono da un ambito più accademico e servono ad identificare pratiche o a generare politiche pubbliche in uno specifico ambito. Qui abbiamo incluso l’innovazione sociale, l’imprenditoria sociale, l’economia circolare, concetti molto sostenuti dalle istituzioni nazionali e internazionali che, in realtà, servono a creare un nuovo contesto di politica pubblica “business friendly” e sono senza implicazioni politiche. In realtà, poi, si trasformano in nuovi campi di battaglia sui significati. Alcuni esperti ecologisti della Rete XES che lavorano sui temi della decrescita, dicono che per farsi sostenere progetti su questo tema devono utilizzare la parola “economia circolare”; perché il linguaggio istituzionale tende ad orientare verso questo paradigma tutti gli spazi alternativi come la decrescita. Ma, nello stresso tempo in cui generiamo spazi subalterni, lavoriamo per creare spazi fuori dal sistema per lottare contro questi significati.
I fenomeni, alla fine, li concepiamo come spazi di disputa di significato tra il racconto mainstream e il significato alternativo trasformativo. La stessa cosa accade per l’imprenditoria sociale: ne esiste una individualista, che ha una visione iper-capitalista della storia, e poi c’è una visione di imprenditoria sociale collettiva, che risponde alle necessità della gente. Sotto il nome di imprenditoria sociale c’è una disputa tra significati, le istituzioni fanno da arbitro, in funzione della correlazione di forze.
In questo caso, direi che il Comune di Barcellona ha fatto un lavoro abbastanza buono nel far sì che questi significati vadano più verso le interpretazioni dell’economia solidale che verso quelle capitaliste. Parlo soprattutto dei programmi di imprenditoria promossi da Barcelona Activa, che è l’ufficio di promozione economica del comune, dove si sono attivati programmi di imprenditoria femminista, collettiva, dei beni comuni, di software libero, che hanno elaborato cose interessanti come mediatori di significati.
In questo ufficio del Comune, è stato elaborato il primo piano di sviluppo locale basato sulla promozione dell’economia sociale e solidale, uno strumento innovativo per programmare e pianificare un’economia trasformativa in città
Secondo la mia interpretazione, quando si è insediata la nuova giunta, nel 2015, c’è stata una spinta verso l’economia sociale e solidale, che ha prodotto uno dei primi tentativi, su grande scala urbana, di generazione di politiche pubbliche a sostegno dell’economia solidale. È stato molto interessante perché ha stabilito un precedente che ha permesso di moltiplicare in altri municipi più piccoli l’esperienza a una diversa scala, riuscendo così a radicare determinate esperienze che in seguito sono state adottate anche dalla Regione Catalana. Però resta comunque una politica pubblica relegata a un dipartimento e non trasversale in tutto il Comune. Questa è un po’ la sfida di sempre: favorire una politica che agisca in maniera trasversale ai vari poteri di un’amministrazione. Perché una trasformazione dell’economia urbana verso un modello di economia sociale e solidale richiede il coinvolgimento di diversi dipartimenti piuttosto che del solo ufficio incaricato.
Negli ultimi due anni si è realizzata in maniera partecipata “una strategia cittadina per l’economia sociale e solidale” costruita su una dimensione temporale un po’ più ampia della precedente. L’orizzonte stabilito è il 2030. Sono stati coinvolti diversi settori dell’amministrazione. Il nuovo “Piano di impulso dell’economia sociale e solidale per Barcellona” ha un orizzonte temporale di dieci anni ed è stato il risultato di un percorso che ha coinvolto diversi attori dell’economia alternativa e dell’amministrazione. Noi della rete XES ne siamo stati uno degli attori, insieme al terzo settore e al cooperativismo. È una strategia che prova a costruire con una maggiore ambizione un piano a lungo termine, anche se ancora non è totalmente trasversale a tutto il municipio, almeno amplia un po’ gli orizzonti e in teoria dovrebbe rimanere in piedi anche se cambiasse il colore politico del comune.
Quale metodologia è stata adottata per “mappare” l’economia trasformativa? E che tipo di proposta di cambiamento socioeconomico e vocazione alla trasformazione avete trovato a Barcellona?
Abbiamo fatto un primo brainstorming di tutti i concetti che ci venivano in mente, perché – ad esempio – io avevo già l’esperienza della rivista Opcions e il toccare diversi temi attraverso il consumo responsabile permette una panoramica ampia di tutti i movimenti che esistono. Dopodiché abbiamo identificato le esperienze rilevanti per la conoscenza del tessuto cittadino che avevamo e abbiamo intervistato persone con un ruolo significativo nel movimento. Con interviste e ricerche di documenti, in alcuni casi più facili e in altri meno, perché non c’erano moltissime informazioni disponibili, in generale abbiamo identificato: concetti chiave, percorso storico, presenza sociale nella città in relazione ad altri movimenti e casi studio. Con questa struttura abbiamo portato avanti interviste e ricerche. Alla fine è così che si articola il libro.
Entrando nella sua parte più politica che scientifica, secondo me ci sono quattro movimenti che generano quasi una quadruplice alleanza molto interessante per disegnare un progetto di trasformazione socio-economica.
Anzitutto c’è l’economia sociale e solidale che ha una tripla condizione – una base sociale molto ampia di progetti imprenditoriali e comunitari, degli spazi di articolazione forti, le federazioni di cooperative, e il carattere di un movimento sociale, non quello di una lobby con i propri interessi. Noi proponiamo azioni per la trasformazione sociale in generale e c’è gente che si mobilita. Inoltre ha anche un paradigma economico, quindi credo sia una connessione molto solida per fare proposte di politiche pubbliche o proporre cambiamenti.
A mio avviso, è più importante il ruolo dell’economia femminista e dell’economia ecologica della decrescita come complemento necessario all’economia solidale. Qui in Catalogna la base sociale storicamente impegnata nell’economia solidale non ha tenuto tanto integrato il vettore femminista o quello ecologista. Lo ha fatto con il vettore cooperativista di democrazia organizzativa. Penso però che in questi ultimi anni si sia andata sviluppando una confluenza tra il movimento ecologista e la visione femminista all’interno dell’economia solidale.
Infine c’è la visione dei beni comuni, tanto nel suo versante digitale di licenze libere, quanto nel versante dei progetti comunitari urbani e rurali. I commons naturali e urbani si sono molto sviluppati (per esempio, la rete di spazi di gestione comunitaria).
Questi quattro movimenti, almeno qui in Catalogna, ora giocano un ruolo molto importante come motore di trasformazione socio-economica. Direi che chi è anche in condizioni di canalizzare tutte queste mobilitazioni è la XES, la rete di economia solidale, dove stiamo ibridando tutti questi discorsi e queste pratiche.
Per quel che riguarda la misura dell’impatto dell’economia trasformativa, quali indicatori potremmo definire?
Abbiamo lo strumento dell’audit sociale, ossia una forma di rendicontazione e misura di impatto, dove confluiscono tutti gli elementi e, anche nella pratica, tutta questa ibridazione di discorsi della narrazione e del lavoro tra i diversi movimenti e azioni, perché ci serve a valutare se un’entità o un’impresa stia applicando i criteri dell’economia sociale e solidale. In pratica è una piattaforma tecnologica che ci permette di valutare annualmente i progetti che fanno un resoconto online. È costruita in maniera intuitiva per facilitare la valutazione dei progetti ed è uno strumento condiviso, a livello nazionale, con tutte le reti di economia solidale.
Circa 500 soggetti fanno l’audit sociale ogni anno e riportano degli indicatori che hanno base comune. Sono organizzati sui criteri che ho descritto poco fa: democrazia interna, qualità occupazionale, prospettiva di genere, impegno ambientale e sociale, politica di profitto. Su questi criteri si basa la valutazione, che si articola in indicatori che le imprese devono completare. Lo strumento permette di creare una base che ogni entità riporta alla stessa maniera. In seguito ogni territorio può decidere un proprio itinerario. In Catalogna siamo stati noi a dare impulso alla piattaforma e abbiamo diversi itinerari: un audit sociale base, uno completo e uno comunitario per valutare progetti a gestione comunitaria.
C’è poi un codice etico delle associazioni, promosso dal consiglio di associazioni di Barcellona: è uno strumento che permette di mettere in atto diversi livelli di valutazione e tutti hanno in comune gli stessi indicatori definiti. La a cosa interessante in questo processo è che è vivo e dialettico. Ad esempio in Catalogna ci sono la commissione per l’ecologia, quella per le economie femministe e quella per i beni comuni; poi c’è Migres che è uno spazio che lavora su migrazioni ed economia solidale. Ogni anno revisioniamo gli indicatori in funzione di cosa ci dicono queste commissioni (per esempio: “Per gli indicatori dell’ecologia sarebbe meglio sapere questa cosa”, quindi la revisioniamo; “Sul tema dell’interculturalità sarebbe giusto aggiungere o puntualizzare quest’altra”, ecc.). Insomma, è uno strumento che si va arricchendo e aggiornando grazie ai dibattiti all’interno dei movimenti e ha diversi vantaggi: per le singole entità genera un sistema di autovalutazione, con una valutazione da 1 a 10. In più, trattandosi di dati standardizzati, ci permette un raggruppamento statistico annuale e un’analisi dello stato dei movimenti, quindi compie abbastanza funzioni per poter migliorare il funzionamento socio-imprenditoriale dei progetti.
L’ “audit sociale” ci sembra un elemento molto importante per valutare i percorsi trasformativi di queste realtà, come lo avete organizzato tecnicamente?
Una cosa è la piattaforma e un’altra sono gli itinerari all’interno di ogni piattaforma. La gestione tecnica della piattaforma la facciamo noi che l’abbiamo sviluppata, però – a seconda dell’itinerario – c’è un tipo di gestione o l’altro. Con tutte le reti gestiamo una campagna congiunta di comunicazione per invitare a raccogliere i dati, però ovviamente ogni referente territoriale gestisce la sua identità. Lo strumento ti permette di entrare come amministratore e gestire i tuoi enti, è una piattaforma multilivello: ci sono un livello di super-amministrazione che è più per la risoluzione di problemi tecnici, gestito da noi, uno di amministrazione settoriale o territoriale, dove ogni referente gestisce le sue organizzazioni e i suoi moduli, e questo permette molta versatilità (ad esempio, la rete basca Euskadi lavorerà sulle sue entità territoriali e definirà i suoi criteri di valutazione, Madrid i propri, Aragona i suoi, noi in Catalogna i nostri). Il criterio politico è del consiglio di associazioni Reas, che ci ha chiesto di poter introdurre il codice etico tra gli strumenti, quindi c’è in qualche modo la tutela tecnica da parte della XES e la gestione di ogni itinerario è variabile a seconda dell’esistenza di moduli condivisi o meno tra i vari attori. C’è insomma una complessità gestionale e tecnologica insieme.
Qual è lo stato di salute del movimento dell’economia alternativa oggi in Spagna? Che ruolo ha avuto durante la pandemia, ci sono state azioni di mutualismo a livello territoriale, come è avvenuto in Italia?
Per me è difficile avere una visione d’insieme di quello che è successo in Spagna, però penso che una spinta nella diffusione di questo movimento sia avvenuta a partire dall’impulso generato da un nuova stagione politica iniziata con la regione della Catalogna, dal 2015 al 2019. Lì, grazie ai cambiamenti istituzionali e a una maggiore attenzione di diverse amministrazioni territoriali e municipali, si sono avviate significative esperienze di politica pubblica a sostegno dell’economia sociale e solidale.
Questo si è visto anche in altre regioni: in Galizia, in Andalusia, a Madrid, a Saragozza e in altre città, ma nel 2019 questa stagione si è interrotta perché c’è stato un cambio politico verso la destra. Questo ha portato ad una nuova fase, dove le reti e i movimenti locali sono passati a dover difendere le loro pratiche, attraverso forme di resistenza e autoprotezione.
In seguito, con il cambio del governo centrale, c’è stata una ripresa dell’impegno della politica pubblica statale verso nuove forme di sostegno all’economia sociale e solidale, anche grazie alla creazione di un “Ministero per il lavoro e dell’economia sociale”, di impronta progressista, che ha avviato azioni mirate al rafforzamento di queste esperienze.
In Catalogna il ciclo è molto più profondo e dura da diversi anni, perché anche la Regione ha dato impulso a iniziative di politica pubblica favorevoli all’economia sociale e solidale, insieme al comune di Barcellona. Stiamo elaborando un documento di base per fare una legge sull’economia solidale e sociale, è stato un lavoro realmente partecipato tra il movimento e il governo regionale.
La legge ci permetterà di consolidare alcuni elementi strutturali per mettere a sistema queste politiche pubbliche. Per ora c’è solo un documento di base su cui andrà ad articolare la legge, che poi dovrà passare in parlamento regionale, ma ci sono già alcune politiche pubbliche, come il sostegno agli atenei cooperativi che sono una sorta di poli territoriali per creare occupazione abbastanza consolidati. C’è una rete di municipi di economia sociale e solidale che conta più di quaranta municipalità, ci sono alcuni elementi che mostrano che il ciclo di cambiamenti di sinistra in Catalogna è più profondo e che anche il movimento è più forte. Senza un movimento più esteso, niente di tutto questo sarebbe stato possibile, e io credo che siamo dentro un ciclo in espansione.
La situazione, durante la pandemia, è stata abbastanza dura, gli effetti sulle nostre pratiche sono stati asimmetrici. Questo ci ha portato ad analizzare con indicatori mirati la situazione, orientando la raccolta dati dei nostri processi di “audit sociale” in parte su questo tema e producendo una diagnosi dell’impatto del Covid sul tessuto dell’economia sociale e solidale.
L’idea era provare ad approfondire qual era l’impatto della crisi sui diversi settori e quali potevano esser le vie d’uscita dalla crisi. L’intenzione era approfittare di questo spiraglio di cambio di opportunità per fare anche proposte politiche. I settori alimentare e tecnologico sono cresciuti con il Covid perché c’è stato anche un impulso alla commercializzazione agroecologica con le consegne a domicilio e c’era molta più necessità di fare incontri on line o di utilizzare piattaforme virtuali. Settori come l’educazione e la cultura stanno invece tuttora abbastanza male.
Le reti di muto aiuto sono cresciute molto. Con la nostra, di rete, in base anche a questa diagnosi, l’anno scorso abbiamo fatto un piano d’azione per definire linee di lavoro in tre ambiti: il primo, riguardo alla capacità di incidere sulla politica, serviva ad aprire dibattiti pubblici finora chiusi (si è iniziato a parlare dell’importanza del “pubblico”, della salute pubblica, della necessità di cambiare il modello, perché è probabile che sia stato il cambiamento climatico a generare la pandemia); il secondo sulla necessità di rafforzare il tessuto socio-economico e il terzo sul bisogno di generare empowerment comunitario come reti di muto aiuto.
In base a questi tre assi, abbiamo lavorato e ci sono progettualità che stanno avendo abbastanza seguito. Una strategia che abbiamo promosso, che sta risultando efficace ed è stata accolta con favore, èla creazione di incontri di inter-cooperazione. Si tratta di incontri settoriali per far incontrare le organizzazioni, così che possano mettere in comune servizi, risorse e lavorare insieme sull’aspetto socio-imprenditoriale.
Abbiamo fatto incontri anche nell’ambito della cultura, dell’educazione, della comunicazione, e altri incontri settoriali che stanno seguendo un percorso coordinato. Per la possibilità di incidere sulla politica, abbiamo fatto un piano di sviluppo dell’economia sociale e solidale che consisteva nell’individuare delle misure di politica pubblica da presentare alle amministrazioni. Ora abbiamo sviluppato ulteriormente queste proposte, che sono in una fase operativa avanzata, in maniera che possano andare avanti anche se cambierà il governo.
Abbiamo anche proposto misure di democratizzazione economica per la transizione eco-sociale. Rappresentano un passo in avanti perché non parliamo solo di economia sociale e solidale ma iniziamo a parlare di trasformazione ecosistemica. Stiamo dando forma a una proposta di lavoro insieme ad altri movimenti. Recentemente abbiamo approvato in assemblea Xes, un documento di 14 pagine con 13 azioni di transizione eco-sociale che porteremo avanti insieme ai movimenti per il clima generando forum locali di dibattito.
Il movimento per il clima di Girona ha proposto un piano di transizione eco-sociale cittadino, perché il Comune sembra disposto a collaborare. Credo che si siano aperte delle strade di coesione tra movimenti sulla giustizia climatica e sociale per prepararci alle crisi che verranno e aprire un dibattito più ampio sul modello economico, con alleanze che sembrano sempre più necessarie.
Tornando al tema delle politiche pubbliche, nella tua esperienza quanto è realmente importante il sostegno di una politica pubblica per rafforzare e stimolare l’economia trasformativa a livello territoriale?
In generale penso che per potenziare l’economia sociale e solidale sia meglio avere una politica pubblica favorevole. Come per ogni cosa ci sono dei rischi, credo però che avere una certa legittimazione rispetto alle proposte avanzate dai movimenti, porti l’istituzione a svolgere un ruolo di mediazione davanti all’opinione pubblica e ai singoli gruppi municipali o partiti. Inoltre mostra come l’economia sociale e solidale può esser un importante attore per lo sviluppo locale alternativo in opposizione al modello tradizionale che cerca di attirare investimenti stranieri per costruire poligoni commerciali o supermercati (spesso la logica di sviluppo locale significa solo questo per molte municipalità).
Dobbiamo provare a fare sviluppo locale con modalità alternative, creando cooperative, attraverso gli acquisti pubblici responsabili, con il coordinamento delle imprese pubbliche con il tessuto sociale. Credo che la profondità dei cambiamenti sia il terreno giusto per aprire un confronto.
C’è un livello della politica pubblica relativamente facile, sono i servizi per l’occupazione. Attuiamo un programma di creazione di lavoro, di appoggio alla creazione di cooperative, un punto di informazioni. Questo è facile ma se resta circoscritto alla parte degli uffici di promozione economica non è sufficiente. Se vuoi andare a fondo nello sviluppo locale, la mia valutazione soggettiva dice che c’è una parte di politiche pubbliche municipali che sono rimaste ferme e su cui elaborare percorsi di innovazione sociale.
La legge sull’ESS sarebbe un bel passo in avanti: se si approvasse, alcune cose cambierebbero. La Regione potrebbe occuparsi anche di appalti pubblici responsabili o di altri elementi che possano fare da traino allo sviluppo locale, perché la creazione di cooperative e le cooperative stesse non hanno un mercato dove realizzarsi. Così lo sviluppo si ferma a metà strada.
Molte risorse pubbliche sono state spese anche in sovvenzioni dirette a diversi livelli, le due politiche hanno punti di fragilità se non hanno un complemento. La dipendenza dalle sovvenzioni, per un progetto imprenditoriale, non è l’ideale. Non serve per l’autonomia e per l’autogestione né per la propria attività auto-imprenditoriale e, secondo me, oggi c’è un livello più alto di dipendenza dalle sovvenzioni rispetto a prima. Questo ha prodotto sicuramente più posti di lavoro ma senza sviluppare la creazione di nuove forme di cooperative capaci di assicurare un ampliamento del mercato sociale canalizzando le risorse pubbliche in iniziative di contrattazione o conciliando servizi pubblici al tessuto sociale, cosa che avrebbe favorito anche la generazione di spazi di intercooperazione. Sui progetti congiunti si potrebbe fare molto di più. Sono comunque ottimista, stiamo provando a realizzare un salto di scala quantitativo e qualitativo ma ci sono ancora elementi di fragilità. Ad esempio ci sono molte micro cooperative con lavoro precario, con una situazione economica fragile. Dovendo comunque realizzare i progetti imprenditoriali all’interno del mercato capitalista, fanno molta difficoltà a sostenersi.
Sarebbe meglio fare un ulteriore passo verso la costruzione di un mercato sociale in cui le amministrazioni possano agire, solo che è anche più difficile perché in materia di contratti pubblici si entra in disputa direttamente con le grandi multinazionali ed è qui che si vede quando si saltano gli ostacoli o quando non si saltano. La valutazione generale resta comunque positiva, meglio questo tipo di politica che avere a che fare con la destra o con l’ultradestra.
Veniamo alla dimensione internazionale del movimento. L’anno scorso c’è stato un Forum sociale mondiale di economie trasformative che doveva tenersi a Barcellona, si è potuto fare sono on line a causa del Covid. L’idea centrale era invitare i movimenti internazionali a confrontare pratiche e confluire in strategie comuni da proporre nei propri territori. Pensi che si sono fatti passi in avanti su questo?
È stato un peccato che non si sia potuto fare in presenza, avrebbe potuto generare una narrazione comune sul cambiare modello economico di portata internazionale, cosa che credo ci si proponesse. Non ho molta esperienza in campo internazionale ma credo che una delle cose più importanti sia confluire in base a necessità concrete, se lo si riesce a fare in un contesto internazionale, potrà servire a rafforzare soprattutto i movimenti locali.
Però spesso avviene che in un contesto più ampio, in un forum internazionale, i movimenti locali si sentano meno coinvolti perché non vedono un interesse immediato per le loro pratiche locali. Se però si costruiscono occasioni per alimentare e delineare azioni comuni che aiutino i movimenti ad affrontare le loro necessità e a focalizzare le strategie più efficaci per i propri territori, tutti si sentiranno più coinvolti.
Noi abbiamo sempre avuto una parte del movimento abbastanza internazionalista, ma da qualche anno le dinamiche territoriali ci hanno richiesto più attenzione: abbiamo generato molte reti locali di economie trasformative, a oggi ne abbiamo almeno 15 in Spagna. Abbiamo strumenti comuni da sviluppare, ci è difficile condividere l’esperienza in maniera proattiva e crediamo che possa essere utile ad altri territori sia l’esperienza che gli strumenti che abbiamo utilizzato (come lo stesso bilancio sociale).
Manca la proattività perché mancano il tempo e le risorse. È un bene che ci siano questi scenari internazionali che ci permettono di uscire dal quotidiano e ci connettono con altri progetti e altre realtà per aiutarci o arricchirci a vicenda. Con il forum si sono certo generate nuove connessioni ed è una cosa molto interessante. L’informazione, la capacità di far fluire informazioni da chi ha qualcosa in più per migliorare le nostre esperienze, è fondamentale. Ben venga, in questo senso, questa dimensione di confronto internazionale.
L’ultima domanda è più che altro un invito e un auspicio. Sai che due anni fa si è costituita in Italia una Rete nazionale di economia solidale (Ries). Ora si sta riorganizzando in maniera più strutturata una lunga storia di relazioni solidali. Come pensi si possano costruire forme di collaborazione e confronto tra questo tipo di articolazioni nazionali?
Stavo pensando che una cosa sono le reti come confederazioni di reti regionali e un’altra cosa è quello che facciamo qui con le reti locali, che hanno molta autonomia: alcune si dedicano alla politica, altre alla vita cooperativa, altre a creare cooperative, c’è abbastanza diversità. Il confronto dovrebbe avvenire anche a seconda della dimensione territoriali della rete.
Un esempio per una possibile occasione di confronto, potrebbe essere il lavoro che abbiamo realizzato per la costruzione partecipata della mappa delle economie sociali e solidali di Barcellona (Pamapam). Ci ha permesso di attivare persone del territorio che volevano conoscere iniziative di economia alternativa e, in base a quell’attivazione, di generare una certa coesione, di avere degli “agenti della dinamica territoriale” e una cassetta degli attrezzi abbastanza aperta per avviare pratiche simili in altri territori .
Quindi sì, sarebbe bello, ad esempio, se voleste confrontarvi su quest’esperienza un giorno. Soprattutto con i nostri “dinamizzatori” territoriali e con alcune reti, perché avere questa impostazione locale può essere molto interessante, tanto per canalizzare istanze politiche che per analizzare la dialettica tra la rete nazionale e le reti territoriali.
Sarebbe interessante confrontarci su un lavoro di identificazione delle economie comunitarie che stiamo portando avanti attraverso una metodologia partecipata con i territori.
*Trascrizione e traduzione Leonora Marzullo
Intervista integrale
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