Quello sigato tra Legambiente, Fai e Wwf sui “paesaggi rinnovabili” viene solennemente presentato come un accordo di rilevanza storica per una pianificazione accurata e partecipata. La logica, spiega Paolo Piacentini, è molto semplice, i paesaggi mutano nel tempo secondo il rapporto che l’umanità instaura con il territorio e allora perché non modificare quest’ultimo in modo sostenibile per evitare che a creare nefasti impatti ambientali siano i cambiamenti climatici sempre più drammatici? Sembra un accordo impeccabile e di buon senso che, in teoria, dà nuova centralità alla pianificazione legandola al valore del paesaggio. Ma è davvero così?
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Con una notizia gridata in prima pagina Repubblica saluta, in data 9 dicembre, lo “storico” accordo tra Legambiente, WWF e FAI per la pianificazione e lo sviluppo delle rinnovabili. L’accordo già nel titolo, “Paesaggi Rinnovabili”, ha ben chiaro l’approdo a cui si vuole giungere.
La logica è molto semplice, i paesaggi mutano nel tempo secondo il rapporto che l’umanità instaura con il territorio e allora perché non modificare quest’ultimo in modo sostenibile per evitare che ad impattare in modo drammatico siano i cambiamenti climatici sempre più drammatici? Sembra un accordo impeccabile e di buon senso che, in teoria, dà nuova centralità alla pianificazione legandola al valore del paesaggio. Ben venga una pianificazione accurata e partecipata, chiesta da tempo da tanti sovrintendenti che, ricordiamolo, hanno competenze su un ambito di grande importanza, non a caso tutelato dalla Costituzione. Per individuare le aree idonee si dovrebbero acquisire i dati ISPRA sul consumo di suolo, quelli della Strategia Nazionale sulla Biodiversità e dotarsi del Piano di Adattamento ai cambiamenti climatici ancora nei cassetti.
A proposito di inserimento nelle aree interne, mi chiedo se sono paesaggi rinnovabili anche i crinali ricchi di biodiversità e fragili del nostro Appennino o i panorami, unici al mondo che sono tra le motivazioni più importanti che spingono a numeri da record il turismo culturale in Italia?
Nel documento siglato da Legambiente, WWF e FAI, si evidenzia, tra le altre cose, la necessità di approfondire di più gli studi sulla presenza della fauna e allora perché non viene considerata la presenza delle aquile nel Giogo del Villore a ridosso del parco Nazionale delle Foreste Casentinesi ? A parte un generico riferimento agli studi d’impatto sulla fauna, la compatibilità con la biodiversità e con la fragilità geologica dei territori invece è un grande assente.
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Nonostante i punti critici del documento, rimettendo al centro la pianificazione ci potrebbe essere uno spiraglio per un confronto più aperto e meno polarizzante e sarebbe la strada più giusta da percorrere invece di continuare a dividersi su un problema a valenza strategica per il futuro del Paese.
Il problema, grosso come una casa, è su quali basi si potrebbe incardinare una seria pianificazione e partecipazione reale delle comunità locali. Provo a mettere in luce con un approccio molto laico ed aperto al confronto, alcune importanti criticità.
Ho letto con molta attenzione e senza nessun pregiudizio, il documento in 12 punti che, secondo i firmatari, dovrebbe rappresentare un punto di svolta sul tema dell’inserimento delle rinnovabili nel paesaggio e farò un ulteriore intenso approfondimento. La novità più grande è senz’altro il fatto che a Legambiente e WWF si sia aggiunto il FAI lasciando molti soci della stessa nobile associazione abbastanza perplessi. Nell’intervista rilasciata a Luca Fraioli, il presidente del FAI Marco Magnifico appare molto convinto di una firma quasi storica che sostanzialmente, tra le grandi associazioni ambientaliste, lascia fuori solo Italia Nostra e LIPU.
Il presidente del FAI sostiene che bisogna superare una difesa del paesaggio che rischia di essere arroccata su una posizione ideologica. Bisogna ammettere che il documento, come già detto, in linea teorica riposiziona il paesaggio al centro della pianificazione per l’inserimento delle rinnovabili nel territorio italiano. Il problema è capire fino a quanto si vuole spingere con la filosofia del paesaggio che cambia nel tempo per modificarlo senza distruggerlo. Il rischio è che con l’idea del paesaggio che si modifica e “rinnova”, anche altri impianti impattanti possano rientrano nella categoria del possibile a valle di un’attenta pianificazione.
Quali saranno i parametri insormontabili di una pianificazione che tiene insieme tutela e trasformazione alla luce di una crisi di sensibilità ecologica, più che ambientale, molto preoccupante ad ogni livello istituzionale? Questo è sicuramente uno dei primi elementi di criticità da evidenziare: dove si andrà a collocare il limite di una sana pianificazione?
Si parla di coinvolgere il Ministero della Cultura fin dall’inizio dell’iter procedurale anche nella redazione dei Piani Paesistici regionali e di una vasta cabina di Regia che metta in campo una pianificazione in cui la preservazione di un paesaggio armonico sia il punto da cui partire.
Si evidenzia la necessità di rafforzare la partecipazione delle comunità locali nel processo decisionale ma con uno snellimento burocratico (quando si parla di snellimento bisogna stare sempre attenti).
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Se davvero si vogliono ascoltare di più le comunità locali e si ammette che i territori vanno valutati caso per caso, non si capisce perché fino ad oggi qualsiasi voce dissonante sui grandi impianti è stata completamente messa da parte se non addirittura denigrata.
Si propone di inserire anche l’ISPRA nella vasta cabina di Regia interministeriale ma i dati dell’Ente di Ricerca collegato al Ministero dell’Ambiente sono molto chiari sul fatto che l’implemento delle rinnovabili non avrebbe bisogno di impattare sul paesaggio e su ulteriore consumo di suolo.
Il documento delle tre associazioni nazionali nella scala delle priorità d’installazione mette tutte le superfici che si posso utilizzare senza impattare, compresi i tetti nei centri storici (questi dopo un’accurata valutazione), prima di andare in aree ancora non antropizzate. Poi però si sottolinea, sia per il fotovoltaico che per l’eolico che l’utilizzo di tutte le superfici già costruite o degradate non basta e necessitano altri impianti industriali. Si torna quindi ad insistere sull’agrifotovoltaico, ottimizzazione ed ammodernamento dei “parchi” eolici con la previsione di meno pale ma più alte.
Cosa potrebbe scaturire da studi indipendenti con successiva pianificazione pubblica degli impianti eolici sui crinali o nelle vicinanze di importantissimi centri storici, come ad esempio quello di Orvieto in merito ad una altezza di circa 200 metri? Giusto per fare un esempio.
Altro elemento che nella pianificazione va inserito come centrale è quello del risparmio energetico ed efficientamento che andrebbero spinti ai massimi livelli, riducendo, se possibile, il contributo della produzione. D’altra parte gli obiettivi al 2030 prevedono un contributo fondamentale che deve arrivare da risparmio ed efficientamento, le due che hanno un valore di sostenibilità molto più alto rispetto alla produzione energetica.
Altro grande spazio nei 12 punti del documento si parla alle comunità energetiche da incentivare e su questo credo condividiamo tutti. Soprattutto nelle aree interne sarebbero un’ottima soluzione evitando i grandi impianti, visto che non sono ci sono siti industriali particolarmente energivori da servire.
Non credo che la preoccupazione debba essere quella di bloccare la delega al paesaggio al Sottosegretario Vittorio Sgarbi colpevole di chiedere alle sovrintendenze di bloccare i grandi impianti. Se il documento delle tre associazioni dovesse ricevere una qualche attenzione da parte delle istituzioni nazionali e regionali con la decisione ultima di attivare la tanta richiamata pianificazione, sarebbe giusta una moratoria per i pochi grandi impianti più impattanti giustificati in modo strumentale con l’attuale emergenza energetica.
Ricordiamoci che una pianificazione che guarda al futuro non può essere fatta con il ricatto dell’emergenza.
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