di Mario Spada*
Va dato atto a Renzo Piano che la sua autorità culturale ha fatto girare il suo “rammendiamo le periferie” tra giornali e trasmissioni radiotelevisive. “Rammendare” è un termine che ai profani suona come gergo di sartoria ma è calzante: se si guardano le mappe si vede come la città si sfrangia negli orli esattamente come un vestito lacerato, bordi frattali, incoerente affastellarsi di case e capannoni che si estende oltre i margini slabbrati della città. Se poi si va nei quartieri si scopre che il trasporto pubblico è come se non ci fosse, sono carenti i servizi primari, manca una piazza o un giardino dove passeggiare, è un intrigo di rotatorie che fanno intuire che anche il semplice acquisto del pane può farsi solo andando in automobile nel centro commerciale più vicino. Quando la periferia è anche quartiere di edilizia sociale le difficoltà aumentano perché vi si concentrano i mali che la crisi rende più acuti: lavoro precario, illegalità, insicurezza.
Sono quartieri distanti anche fisicamente dalla città consolidata, con la quale sarebbe necessario collegarli, saldarli, “ricucirli”, dove i giovani dicono ancora “ andiamo a Roma”. Non diversamente da“ Marco grosse scarpe poca carne”, cantato da Lucio Dalla, che con i suoi amici decide che “si va tutti in città”. Se avviciniamo l’obiettivo e proviamo a sezionare uno dei palazzi di otto o più piani di un “quartiere difficile”, vediamo un intreccio di onestà operaia ed impiegatizia, giovani dal lavoro precario , spacciatori di droghe pesanti e leggere, di tutte le età e genere, qualcuno agli arresti domiciliari, immigrati più o meno regolarizzati che si arrangiano al confine tra legalità ed illegalità. Quest’anno sono apparsi sugli schermi alcuni film di giovani registi che evocano una sorta di “nuovo neorealismo”: “Smetto quando voglio”, “Spaghetti story”. Il tema comune è una generazione precaria, spesso laureata, che affronta la vita quotidiana con vari espedienti tra i quali lo spaccio di droga. Di solito si concludono con una nota di ottimismo o di amaro ritorno alla realtà e restano nel filone della “commedia all’italiana” . Ma il mercato della droga emerge in tutta la sua pervasività.
“Ricucire le periferie” è in minima parte operazione urbanistica, è per lo più operazione sociale e culturale. Si devono “ricucire” le relazioni sociali e umane, ricostruire un tessuto di fiducia reciproca e di lavoro legale. Dietro la rivolta per l’uccisione di un giovane nero da parte della polizia americana o di un giovane napoletano per mano di un carabiniere c’è la denuncia collettiva di una condizione delle periferie urbane che diventa sempre più difficile e insostenibile.
Il convegno proposto da Smart City Exibition ha un un titolo ottimistico per quanto interrogativo : rivoluzione nelle periferie? Nelle periferie fioriscono cultura alternativa e rivoluzioni culturali: il jazz, il rock, le avanguardie musicali e letterarie è più facile che trovino spunto nella vita dura e vera delle periferie che non nel chiacchiericcio vanitoso e ipocrita delle conversazioni da salotto. Pasolini docet. Temo però che per ora prevalga “l’involuzione delle periferie” e che ci vorrà tempo e pazienza per far germogliare i semi positivi. La crisi avvita le periferie attorno ai suoi mali endemici, la globalizzazione dello scambio di uomini e merci ha reso contigue le periferie urbane e le periferie del mondo come non mai, la deindustrializzazione ha disgregato le tradizionali reti di comunità imperniate sul lavoro sicuro e sul Welfare. Il diverso, per etnia o sesso, è accolto e respinto allo stesso tempo. Ciò che avviene nelle periferie del mondo, tra sgozzamenti, guerre locali ed esodi biblici è avvertito come minaccia che incombe. Troppi, proprio nelle periferie, pensano che si debbano costruire muri a difesa della razza, della cultura, del precario benessere, che il nemico è vicino, può essere distante anche pochi chilometri, oltre la tangenziale.
Le risorse statali ed europee per il welfare sono poche e insufficienti. Si dovrà far conto sulle risorse endogene, cioè la comunità locale, il quartiere. La “Carta di Lipsia sulle città europee sostenibili”, firmata nel 2007 dai ministri europei per lo sviluppo urbano afferma
“Le misure per salvaguardare la stabilizzazione economica dei quartieri degradati deve anche sfruttare le forze economiche endogene ai quartieri stessi. In questo contesto, mercato del lavoro e politiche economiche su misura per le esigenze dei singoli quartieri saranno gli strumenti appropriati.”
Varie azioni di politiche integrate sono state promosse dai fondi strutturali europei: il programma Urban ,poi Urbact. In alcuni paesi europei sono stati demoliti ,almeno parzialmente, i complessi di edilizia pubblica edificati negli anni 60 e 70 che rispondevano all’unico criterio di dare un alloggio ma trascurarono la necessità di dare anche “città”. Ma i problemi stanno ancora lì, aggravati. Vale allora la pena di indagare sulle risorse endogene, che possiamo tradurre in ”tiriamoci su le maniche e vediamo di cooperare”. A Roma in un quartiere popolare decine di piccoli proprietari stano costruendo “l’albergo diffuso” che è come una sommatoria integrata di bed and breakfast. Ci sono giovani che inventano servizi di quartiere per le persone non autosufficienti come gli anziani sempre più numerosi, ahimè. A Torino in un ”quartiere difficile” un grande parco è mantenuto benissimo e non ha recinzioni. Com’è possibile? Un’associazione che assiste i disabili mentali ha avuto in concessione l’uso di un casale interno al parco dove esercitano l’ippoterapia, efficace con i disabili mentali, in cambio manutengono il parco. Non è vandalizzato perché il potenziale vandalo conosce il disabile che frequenta il centro e taglia l’erba , è il vicino di casa del sesto piano, quel ragazzo strano che lui saluta tutte le volte che lo incontra per le scale, perché fargli un torto? Due problemi diventano una soluzione. L’insieme di tante piccole cose configurano una sorta di “Welfare fai da te”.
Ma non possiamo tralasciare la droga e il contrasto alla microcriminalità. Un maresciallo dei carabinieri, Giovanni Sabatino, ha scritto un libro “ Intelligence da marciapiede”. L’analisi del maresciallo, investigatore di prima linea e laureato in sociologia, parte dalle periferie urbane: la massiccia disoccupazione di giovani costretti ad una forzata inattività, la promiscuità di gruppi di origine etnica diversa, il radicamento di reti illegali che spacciano stupefacenti, ricettano la refurtiva, sfruttano la prostituzione sono gli ingredienti di quell’impasto di illegalità che si chiama “quartiere difficile” nel quale si producono più facilmente i “sistemi chiusi ed autonomi” che non offrono alternative se non quella di aderire alle leggi della strada. Anche le testimonianze di detenuti contenute nel libro “Urla a bassa voce”di Francesca de Carolis rivelano che quasi tutti si considerano vittime del “sistema chiuso” nel quale sono cresciuti. Zigmunt Baumann sostiene che si sta consumando il passaggio da un modello di comunità inclusiva, basato sullo Stato sociale ad uno Stato giudiziario, penale, basato sul controllo della criminalità, ovvero uno Stato che esclude.
Sabatino conclude che ci si dovrebbe concentrare sul quartiere, ipotizza una sorta di “quartiere impresa” in grado di sviluppare le risorse economiche ed umane per una più equa redistribuzione della ricchezza. La ricetta di Sabatino, analoga a quella dei ministri europei, è confortata da una breve autobiografia di Carmelo Musumeci, ergastolano condannato al “fine pena mai”, cioè a morire in carcere perché, già membro della criminalità organizzata, non è stato collaboratore di giustizia. Marcello Dell’Anna, un altro ergastolano, come Musumeci, è entrato a ventitré anni in carcere, vi risiede da venticinque. Entrato con scarse nozioni scolastiche, si è laureato in legge ed ha coordinato con l’avvocato Monica Murru un corso della scuola forense di Nuoro (va detto per inciso che il “fine pena mai” , o ergastolo ostativo, è stato condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che l’ha equiparato alla tortura) . Dell’Anna scrive” Le mura di cinta segnano il termine del mondo, cosi come si è sempre conosciuto. Catapultati in una dimensione cui si è estranei, in cui il fluire d’istanti successivi che fa da sfondo all’evolversi si arresta; per poi cominciare ad assumere una cadenza indefinita e illimitata.
L’intorpidimento del corpo è il passo successivo. Rinchiuso. Tutto ciò è demotivazione, smarrimento, laddove si ha la sensazione che il proprio operato sia stato ed è fine a se stesso: perché la mancanza di riconoscimento degli sforzi è un fattore che penalizza, dove ci sarebbe bisogno di alimentare la volontà a fare sempre meglio. Un motivo in più per credere che l’uomo, posto nelle condizioni ideali, maturi il desiderio di cambiare e tornare a consolidare il patto con la società”. Non si è “cattivi per sempre” dichiara il prof. Veronesi nell’introduzione al libro di Sabatino. Dell’Anna sarebbe l’uomo più felice della terra se gli si desse l’opportunità di mettersi al servizio della società. E’ utopico pensare che il maresciallo Sabatino e il detenuto Dell’Anna siano sodali di un’attività che cerchi di vitalizzare le risorse endogene, di contrastare la microcriminalità di quartiere, di indirizzare i giovani verso la legalità magari descrivendo il carcere e la perdita della nozione del tempo?
Il carcere è l’estrema appendice delle periferie urbane. Se Regina Coeli fu costruita alle spalle del popoloso quartiere di Trastevere come monito della pena, ora i carceri sono costruiti all’ estrema periferia, perché la società moderna, come insegna Foucault, uccide l’anima e preserva il corpo, lontano da occhi indiscreti. Maestri dell’ Architettura come Michelucci e Canella hanno lanciato parecchi anni fa un messaggio: il carcere è parte della città , un capitolo importante del patto sociale che è alla base della costruzione della città. Speriamo che il messaggio sia ripreso.
Se facciamo l’equazione : periferie= marginalità sociale= illegalità= carcere, indichiamo il percorso di tanti giovani delle periferie urbane. Che fare? Forum PA è il Forum della Pubblica Amministrazione. Smart City Exibition illustra politiche per una città più intelligente. Una cosa intelligente che si potrebbe suggerire alle Pubbliche Amministrazioni è di tentare di sperimentare sulle periferie quello che si predica ma non si realizza: lavorare per obiettivi e non per competenze. Ad esempio un Comune con tutti i suoi dipartimenti, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, la Benemerita Arma, l’Università, provino a lavorare sperimentalmente su un obiettivo: un piano strategico di quartiere. Un quartiere di quelli cattivi. Come si conviene a un piano strategico dovranno invitare i cosiddetti stakeholder locali, tra i quali alcuni eroici insegnanti di trincea.
Non sarebbe una conferenza di servizi dove prevale il compito di dare autorizzazioni e ciascun ente sembra che stia lì per negare il pensiero dell’altro con l’unico scopo di proteggere la propria corporazione. Ci si metta attorno ad uno o più tavoli, immedesimandosi nei problemi degli altri, creando le condizioni di un reciproco apprendimento, camminando sui marciapiedi con il maresciallo Sabatino, apprendendo dalle parole di Dell’Anna come si potrebbe creare un originale start up giovanile, liberando le energie sopite di tanti cittadini onesti. E capire se e come si può ricostruire la fiducia reciproca per un modello di vita un po’ diverso e più equo.
*Coordinatore della Biennale dello spazio pubblico
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