
1. Alla ripresa dei lavori parlamentari la Camera dei Deputati dovrà esaminare il Disengno di legge n.1620 presentato il 18 dicembre 2023 contenente “norme per la Ratifica ed esecuzione del Protocollo tra il Governo della Repubblica italiana e il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria,
fatto a Roma il 6 novembre 2023, nonché norme di coordinamento con l’ordinamento interno”.
In un clima già fortemente compromesso dalla competizione tra i partiti in vista delle prossime elezioni europee, che si giocheranno sulla rincorsa delle destre verso norme sempre più repressive in materia di immigrazione ed asilo, mentre la Corte Costituzionale albanese ha imposto una sospensione delle procedure di ratifica, il Parlamento italiano si avvia ad approvare un provvedimento che appare in evidente contrasto con il quadro costituzionale, con l’ordinamento europeo ed con il diritto internazionale.
Di certo soltanto una piccola parte delle persone soccorse in acque internazionali potrà essere sbarcata in Albania. Non si comprende allora, in base al Protocollo ed alla legge di ratifica, quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- IRINI, ammesso che svolgano qualche volta attività di ricerca e salvataggio (SAR). Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in acque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale. Secondo quanto dichiarato dal ministro degli esteri Tajani in visita in Albania alla fine dello scorso anno ,”Qui a Shengjin attraccheranno le navi militari che porteranno i migranti soccorsi in acque internazionali. Verranno identificati prima a bordo, poi ci sarà un’altra identificazione albanese sul territorio”. Il ministro ha poi aggiunto :“L’Albania aiuterà l’Italia a raccogliere i migranti che dovranno poi essere riaccompagnati nei loro Paesi di origine, tutti Paesi sicuri. Qui verranno solo coloro che hanno origine in Paesi sicuri. Sarà rispettato il diritto delle persone, tanto è che i centri saranno vicini a un ospedale, quindi anche per quanto riguarda gli aspetti sanitari gli immigrati che arriveranno in Albania saranno tutti tutelati nel miglior modo possibile”. Non si vede come si possa stabilire già a bordo delle navi militari italiane che operano i soccorsi in acque internazionali la provenienza da un “paese terzo sicuro”, e neppure in base a quali criteri e con quali garanzie saranno svolte le identificazioni a terra da parte delle autorità albanesi.
L’identificazione delle persone migranti e dei potenziali richiedenti asilo deve essere svolta in base alle norme dell’Unione europea (Direttive 2013/32/UE sulle procedure di asilo e 2013/33/UE sull’accoglienza) e alla legislazione italiana che le attua) a terra, dopo lo sbarco, in centri di primo soccorso e accoglienza, in centri hotspot , in centri di permanenza per i rimpatri (CPR) o nelle Questure. Tutti i migranti, indipendentemente dal loro status e dalla loro nazionalità, anche se provengono da paesi terzi ritenuti “sicuri” hanno diritto di essere effettivamente informati dei loro diritti e doveri, inclusa la possibilità di presentare domanda di protezione internazionale, e nei centri di trattenimento hanno diritto di accedere organizzazioni nazionali e internazionali di tutela e avvocati per garantire informazione e diritto alla difesa. Tutti diritti inalienabili che a bordo di una nave militare non sarà certo possibile esercitare effettivamente. Per non parlare della impossibilità di fare emergere in prossimità dei soccorsi tutte le vulnerabilità e le vittime di tratta.
Il Protocollo Italia-Albania e il Disegno di legge di ratifica continuano a basarsi sulla totale discrezionalità del ministero dell’interno nell’assegnazione di un porto di sbarco, già manifesta nel caso delle navi del soccorso civile con il Decreto legge “Piantedosi” (legge n.15 del 2023) e con la prassi amministrativa dell’assegnazione di porti di destinazione sempre più lontani per le sole navi delle ONG (cd.porti vessatori). Con un carico inimmaginabile di sofferenze inflitte ai naufraghi e di costi insostenibili imposti alle Organizzazioni non governative. Adesso si moltiplicano gli impegni delle navi militari coinvolte nelle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement), se non si vuole parlare di ricerca e salvataggio (SAR) in acque internazionali, costrette a trasferimenti sempre più lunghi, riducendone ulteriormente la presenza nelle aree del Mediterraneo centrale nelle quali, dopo l’allontanamento delle navi del soccorso civile, è in gioco la vita umana per la carenza di mezzi di soccorso e di coordinamento tra gli Stati costieri. Esattamente l’opposto di quanto richiederebbero le Convenzioni internazionali di diritto del mare che impongono agli Stati l’organizzazione di un sistema di soccorso finalizzato prevalentemente alla salvaguardia della vita umana in mare con lo sbarco nel porto sicuro più vicino, e non ai respingimenti collettivi in alto mare o al rimbalzo delle competenze da uno Stato ad un altro. Le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare prevedono infatti che “ogni operazione e procedura, come l’identificazione e la definizione dello status delle persone soccorse, che vada oltre la fornitura di assistenza alle persone in pericolo, non dovrebbe essere consentita laddove ostacoli la fornitura di tale assistenza o ritardi oltremisura lo sbarco” (par. 6.20, Risoluzione MSC.167(78) adottata nel maggio 2004 dal Comitato Marittimo per la Sicurezza insieme agli emendamenti SAR e SOLAS).
Come si vedrà meglio analizzando le singole norme di “coordinamento” contenute nel Disegno di legge di ratifica, si viola il diritto delle persone di chiedere asilo in frontiera indipendentemente dalle circostanze nelle quali abbiano raggiunto il territorio dello Stato o siano state soccorse in acque internazionali, si aggira il divieto di respingimenti collettivi, ribadito nella sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo sul caso Hirsi (verificatosi nel 2009), e si prefiguramo trasferimenti forzati di persone in assenza di una valida base legale, che si possono definire come vere e proprie deportazioni, anche verso paesi terzi che non rispettano i diritti fondamentali della persona, al di là della loro eventuale inclusione in una lista di “paesi terzi sicuri”.

Allo scopo di dare maggiore effettività ai processi di esternalizzazione dei controlli di frontiera, già avviati da tempo con una serie di Memorandum d’intesa e di accordi bilaterali, si prefigurano procedure accelerate “in frontiera” che in Albania dovrebbero essere applicate al di fuori delle frontiere italiane ed europee, con una vera e propria finzione giuridica che dovrebbe assimilare le aree in territorio albanese concesse in uso alle autorità italiane ai centri di transito, di prima accoglienza ( e di trattenimento) ubicati alle fontiere italiane, all’interno delle quali dovrebbe esercitarsi soltanto la giurisdizione italiana, come se si trattasse di sedi diplomatiche italiane all’estero. Ma il contenuto del disegno di legge di ratifica e soprattutto i due allegati mettono in luce tutte le contraddizioni del Protocollo Italia-Albania che, al di là dei costi enormi che comporta, mette a rischio diritti fondamentali della persona anche se appare di dubbia, se non impossibile, realizzazione. Ma di sicuro effetto come arma di propaganda elettorale.
Secondo l’art. 6 del Protocollo tra Italia ed Albania firmato il 6 novembre 2023, “le competenti autorità della parte albanese assicurano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica nel perimetro esterno alle aree e durante i trasferimenti via terra, da e per le aree, che si svolgono nel territorio albanese. Le competenti autorità della parte italiana assicurano il mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno delle aree. Le competenti autorità della Parte albanese possono accedere nelle aree, previo espresso consenso del responsabile della struttura stessa. In via eccezionale le autorità della parte albanese possono accedere nelle strutture, informando il responsabile italiano della stessa, in caso di incendio o di altro grave e imminente pericolo che richiede un immediato intervento”.
Non si può trattare allora di una giurisdizione italiana esclusiva in territorio albanese, ma di giurisdizioni concorrenti, e dunque si configura il rischio di gravi violazioni dei diritti fondamentali a partire dal diritto di chiedere asilo e dalle garanzie di difesa della persona migrante, che sono previste a livello europeo con norme che non vincolano le autorità albanesi alle quali si trasferiscono rilevanti poteri in ordine ai trasferimenti dei migranti sbarcati dalle navi militari italiane ed al loro arresto in caso di fuga o di allontanamento dai centri di accoglienza/detenzione.
2. Al di là dei molteplici casi di violazione del diritto internazionale, europeo ed interno che vedremo appresso, le due aree individuate per il centro di transito ubicato nel sito portuale di Shengjin di competenza del Ministero dell’interno e comprendente i locali in cui dovrebbe essere sistemato l’Usmaf dipendente dal Ministero della salute, e per il centro di detenzione ubicato all’interno nel sito di Gjader (parte di competenza del Ministero dell’interno), secondo quanto emerge dalla “Relazione tecnica” allegata al Disegno di legge di ratifica, appaiono in condizioni tali che ben difficilmente potranno essere dotate, entro la prossima primavera, delle strutture e dei servizi necessari per garantire la sistemazione di 3.000 persone al mese, tante ne prevede il governo, nel rispetto degli standard europei ed internazionali, oltre che delle più elementarti norme di garanzia richiamate anche dalla Costituzione italiana a tutela della dignità e dei diritti fondamentali della persona. In particolare, con riferimento alla situazione attuale del sito previsto per il centro di detenzione di Gjader, dalla Relazione tecnica si apprende che l’area che attualmente presenta soltanto qualche edificio “fatiscente”, non è ancora dotata di sistema fognario e che per lo scarico delle acque nere è necessario realizzare un serbatoio di accumulo di idonea capacità da svuotare periodicamente con autospurgo o, in alternativa, è necessario realizzare un depuratore. Per l’avvio di questo nuovo centro di detenzione sotto giurisdizione italiana in territorio albanese, inoltre, “sarà necessario procedere ad opere di sbancamento con taglio di alberi e arbusti con rimozione di radici, ceppaie e simili, con la demolizione dei ruderi esistenti e livellamento, oltre alla realizzazione di pavimentazione e viabilità, sia di accesso all’area che interna alla stessa”. Un lavoro che richiederà anche le autorizzazioni delle competenti autorità albanesi, sempre che il Parlamento di Tirana non riesca a bloccare la ratifica del Protocollo firmato il 6 novembre 2023 da Giorgia Meloni e da Edi Rama. Una situazione di fatto che prefigura altri trattamenti inumani o degradanti ai danni delle persone tratenute dalle autorità italiane in territorio albanese, con elevata probabilità di ricorsi e di altre condanne da parte della Corte europea dei diritti del’Uomo.
Non meno problematica, e dai tempi incerti, rispetto alla concreta attuazione del Protocollo d’intesa tra Italia ed Albania, appare la costituzione di cinque nuove sezioni presso la Commissione territoriale di Roma esclusivamente dedicate all’esame delle domande di protezione internazionale dei richiedenti asilo trasferiti nei centri in Albania. Per i quali si prevedono quasi esclusivamente procedure telematiche a distanza, che soprattutto nel caso delle convalide del trattenimento affidate ai giudici di pace sono già problematiche in territorio italiano. Con riferimento agli Uffici del Giudice di Pace sono stati segnalati dagli stessi Presidenti dei Tribunali assenza di hardware all’interno degli uffici, mancata consegna ed adeguamento di portatili, assenza di schede CMG, formazione ancora insufficiente del personale del Giudice di Pace, Queste procedure che dovrebbero svolgersi quasi esclusivamente per via telematica tra Italia ed Albania appaiono ancora più disfunzionali nella prospettiva di una loro applicazione con riferimento a stranieri detenuti in centri di detenzione ancora da costruire ed attrezzare, ed ubicati al di fuori dell’Unione Europea. Ai quali comunque si dovrà applicare per intero la normativa di fonte unionale, anche per evitare la violazione del principio di non discriminazione sancito dall’art. 3 della Costituzione e da molteplici previsioni delle Direttive e dei Regolamenti europei vigenti in materia di immigrazione ed asilo.
3. Oltre agli aspetti logistici, che da soli possono comportare quelle violazioni dei diritti umani per le quali la Corte europea dei dirtti dell’Uomo continua ad adottare sentenze di condanna nei confronti dell’Italia, da ultimo per il trattenimento di migranti nel centro Hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa, deve preoccupare l’attacco complessivo al diritto di chiedere asilo, (art.10 Cost) ai diritti di difesa (art.24 Cost), alle garanzie costituzionali in materia di libertà personale e di accesso alla giustizia, che caratterizza l’intero Disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania. Colpisce soprattutto come già nella Relazione tecnica si ipotizzi il mancato riconoscimento di un qualsiasi status di protezione per la quasi totalità dele persone che saranno deportate in Albania, e quindi il trattenimento nell’ambito della procedura accelerata “in frontiera”, e come si preveda la istituzioni di apposite sezioni di detenzione per coloro che vengano accusati di avere commesso reati, all’interno della nuova struttura di Gjader. Che dovrebbe diventare così, almeno in parte, un vero e proprio carcere, oltre ad assolvere alla funzione di centro di trattenimento amministrativo per i richiedenti asilo provenienti da paesi terzi ritenuti “sicuri”, e di centro per i rimpatri (CPR) per le persone per cui si è respinta la domanda di protezione. Persone, non soltanto “migranti”, che in assenza di ricorso, o dopo l’esito negativo dello stesso, sono destinate ad essere rimpatriate nei paesi di origine, o, qualora ciò non fosse possibile, come si può prevedere, ad essere trasferite in Italia, sempre nei termini massimi previsti dal nostro ordinamento per la detenzione amministrativa nei CPR. Come saranno applicabili in Albania le nuove norme in materia di trattenimento amministrativo nei CPR adesso fino a 18 mesi? Nel 2022 all’aumento del tempo di trattenimento nei centri di permanenza dei rimpatri è corrisposto un calo del numero dei migranti rimandati nei loro Paesi d’origine. A fronte delle pesanti sanzioni penali introdotte nel 2023 con l’ennesimo decreto sicurezza per le persone migranti che si ribellano durante il trattenimento all’interno di un centro di detenzione, e persino dentro un centro di accoglienza, come verrà garantita la loro effettiva applicazione nei centri di trattenimento che si dovrebbero aprire in Albania, nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone detenute ?
Le norme di “coordinamento” che si vorrebbero fare approvare al Parlamento per la ratifica del Protocollo tra Italia ed Albania non rispettano effettivamente la riserva di legge imposta dalla Costituzione per le misure limitatve della libertà personale, in quanto non vietano trattenimenti informali, che anzi in qualche modo presuppongono, e lasciano affidata all’autorità di polizia la totale discrezionalità nella selezione delle persone che dovrebbero essere sbarcate nel porto di Shengjin e poi detenute nel centro di Gjader, senza alcuna garanzia per i minori e per i soggetti vulnerabili, e senza alcuna definizione dello “stato giuridico” di coloro che saranno consegnati alla polizia albanese per i trasferimenti verso i centri “sotto giurisdizione italiana” e da un centro all’altro, e poi ancora per il trasferimento definitivo verso il paese di origine o verso l’Italia. Per quanto nel disegno di legge di ratifica si tenti di fornire previsioni specifiche sulla natura giuridica dei centri ubicati in Albania sotto giurisdizione italiana, la loro concreta organizzazione rimane affidata alla discrezionalità degli organi di polizia e del resposabile italiano del centro, individuato dal Ministero dell’interno tra i propri dipendenti a cui il Protocollo conferisce specifiche funzioni nel rapporto con le competenti autorità albanesi. Si prevede poi che per l’attuazione del Protocollo il Capo della Polizia istituisca un nucleo di coordinamento e raccordo alle dipendenze della Questura di Roma. E saranno esclusivamente i responsabili italiani dei centri di detenzione ubicati in Albania a gestire le comunicazioni dirette allo straniero detenuto o a ricevere le sue istanze, inclusa la trasmissione delle nomine dei difensori e gli atti di ricorso.
Viene violata anche la riserva di giurisdizione (art. 13 della Costituzione) perchè il controllo delle misure limitative della libertà personale, attuato quasi esclusivamente con il ricorso a modalità telematiche da esperire in tempi brevissimi, anche tenendo conto delle nuove unità di personale, previste come componenti delle sezioni specializzate e nuovi giudici onorari e di ruolo, rischia di diventare un mero adempimento burocratico privo di effettività, in violazione dell’art. 24 della Costituzione italiana e degli articoli 5 e 6 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Si profila dunque, malgrado il tentativo di fornire una base legale ai trasferimenti forzati in Albania, una ennesima violazione dei principi affermati dalla Corte Costituzionale già con la sentenza n.105 del 2001, secondo la quale, “Si determina dunque nel caso del trattenimento, anche quando questo non sia disgiunto da una finalità di assistenza, quella mortificazione della dignità dell’uomo che si verifica in ogni evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che è indice sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della libertà personale. Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’art. 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso art. 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’art. 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere ogni effetto. Si tratta di principi ormai consolidati che devono avere la stessa valenza in territorio albanese, nei centri sotto “giurisdizione italiana”, come nei centri di trattenimento ubicati in Italia.
Le norme “di coordinamento” contenute nel disegno di legge di ratifica del Protocollo tra Italia ed Albania svuotano di qualunque effettività la riserva di giurisdizione prevista dalla Costituzione in materia di libertà personale. La durata massima effettiva del trattenimento nei centri che dovrebbero essere istituiti in Albania “sotto giurisdizione italiana” non è affatto prevedibile o certa, ma dipende dalle modalità di selezione e di trasferimento dei migranti decise dalle autorità amministrative. Come rimane affidata alle sole autorità amministrative la definizione di “paese terzo sicuro”, e la selezione dei naufraghi in base a questo criterio, che sembrerebbe applicabile già a bordo delle navi militari italiane, prima dello sbarco in Albania.
Il ricorso alla categoria di “paese terzo sicuro”, pure prevista dalla Direttiva Procedure (Direttiva 2013/32/UE), e quindi dalla vigente legislazione italiana, viene qui distorto per una discriminazione del tutto impropria che consente di “selezionare” i naufraghi soccorsi in acque internazionali, se non in alto mare, una volta che sono stati già trasferiti in un paese esterno rispetto all’Unione Europea. Nelle procedure accelerate in frontiera, “deterritorializzate” nei centri ubicati in Albania, a fronte dei tempi assai ristretti e della impossibilità di acquisire elelenti probatori in ordine a gravi motivi individuali che richiedano il passaggio ad una procedura ordinaria, si può prevedere una raffica di dinieghi sulla base della mera provenienza da un paese terzo ritenuto “sicuro”. Si deve ricordare a tale proposito la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo del 21 novembre 2019, Ilias and Ahmed c. Ungheria, che ha accertato la violazione dell’art. 3 della CEDU da parte dell’Ungheria, le cui autorità avevano rigettato la domanda di protezione di due cittadini bengalesi espulsi verso la Serbia, sul semplice presupposto che tale Stato era stato incluso in un elenco governativo di Paesi sicuri, senza compiere una valutazione seria e approfondita del caso specifico e senza preoccuparsi degli effetti di un respingimento a catena verso altri Stati. L’intero impianto del disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania sembra orientato verso il diniego della quasi totalità delle domande di protezione internazionale, verso la detenzione amministrativa prolungata secondo le regole dei Centri per i rimpatri (CPR), e verso il rimpatrio con accompagnamento forzato di quanti si vedranno respinta la richiesta di asilo. Rimane sullo sfondo quello che sarà lo scenario più probabile, la impossibilità del rimpatrio forzato, e il trasferimento in Italia di coloro che non si riuscirà ad espellere o a respingere direttamente dai centri albanesi.
In ogni caso, sulla legittimità del trattenimento amministrativo generalizzato di tutti i richiedenti asilo provenienti da “paesi terzi sicuri” dovrà pronunciarsi a fine febbraio la Corte di Cassazione a Sezioni unite, su ricorso del governo contro le decisioni di non convalida del trattenimento adottate dal Tribunale di Catania a settembre ed a ottobre del 2023. E’ indubbio che l’articolo 8 c.2 della direttiva 2013/33 secondo cui il trattenimento amministrativo può “avere luogo soltanto ove necessario, sulla base di una valutazione caso per caso, salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive” (Corte giustizia UE grande sezione – 14/05/2020, n. 924) non può essere cancellato in base ad un Protocollo d’intesa concluso da uno Stato membro con un paese terzo. In base all’art. 9 c.2 della stessa Direttiva, “Il trattenimento dei richiedenti è disposto per iscritto dall’autorità giurisdizionale o amministrativa. Il provvedimento di trattenimento precisa le motivazioni di fatto e di diritto sulle quasi si basa”. Inoltre si dve escludere qualsiasi automatismo ed il richiedente asilo proveniente da un paese terzo sicuro deve essere messo nella condizione di provare “gravi motivi” che comunque possano giustificare il riconoscimento di uno status di protezione. In ogni caso, anche con riferimento ai migranti trattenuti nei centri di detenzione in Albania, per i quali si dovrà fare richiamo anche alle norme unionali, nella fase delle convalide dei trattenimenti, secondo la corte di Giustizia dell’Unione europea,” il giudice nazionale (italiano) ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale” (CGUE, 9 marzo 1978, 106/77, Simmenthal, punto 24. Cfr. anche CGUE, 21 maggio 1987, 249/85, Albako/BALM, punto 13 e ss.; CGUR, 5 marzo 1998, C-347/96, Solred, punto 30; CGUR, 27 febbraio 2003, C-327/00, Santex, punti 62-65; CGUE, 18 settembre 2003, C-125/01, Pflücke, punto 48). Comunque decida la Corte di Cassazione a Sezioni unite, che non potranno ignorare la giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia UE, sarà una sentenza che produrrà effetti rilevanti nella attuazione del Protocollo Italia-Albania, che si basa proprio sul trattenimento amministrativo di persone provenienti da “paesi terzi sicuri” nei nuovi centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana” da istituire in territorio albanese.
Per la la Commissaria del Consiglio d’Europa per i diritti umani, Dunja Mijatović, il Protocollo d’Intesa Italia-Albania “solleva diverse diverse preoccupazioni in materia di diritti umani e si aggiunge a una preoccupante tendenza europea verso l’esternalizzazione delle responsabilità in materia di asilo”. Secondo la Commissaria, “il protocollo d’intesa solleva una serie di importanti questioni sull’impatto che la sua attuazione avrebbe sui diritti umani dei rifugiati, dei richiedenti asilo e dei migranti. Questi riguardano, tra gli altri, lo sbarco tempestivo, l’impatto sulle operazioni di ricerca e salvataggio, l’equità delle procedure di asilo, l’identificazione delle persone vulnerabili, la possibilità di detenzione automatica senza un adeguato controllo giurisdizionale, le condizioni di detenzione, l’accesso all’assistenza legale e rimedi efficaci. Il protocollo d’intesa crea un regime di asilo extraterritoriale ad hoc caratterizzato da numerose ambiguità giuridiche. In pratica, la mancanza di certezza giuridica probabilmente minerà le fondamentali garanzie di tutela dei diritti umani e la responsabilità per le violazioni, con conseguente differenza di trattamento tra coloro le cui domande di asilo saranno esaminate in Albania e coloro per i quali ciò avverrà in Italia”.
Secondo le posizioni contenute nei documenti dell’’UNHCR , che valgono per tutti i potenziali richiedenti asilo, “la detenzione di richiedenti asilo non dovrebbe essere utilizzata in maniera automatica o obbligatoria per tutti, piuttosto dovrebbe rappresentare l’eccezione. Brevi periodi di trattenimento sono ammissibili nella fase iniziale di verifica dell’identità e durante i controlli di sicurezza quando l’identità è incerta o controversa o emergono elementi indicativi di rischi per la sicurezza. Quando una misura di detenzione è applicata per un fine legittimo, essa deve essere prevista dalla legge, deve fondarsi su di una decisione individuale, e deve risultare strettamente necessaria e proporzionale, avere un durata prestabilita ed essere sottoposta a revisione periodica . La detenzione non dev’essere applicata ai minori”.
Secondo la Nota tecnica dell’UNHCR sulle disposizioni in materia di asilo contenute nella Legge 5 maggio 2023 n. 50, “le procedure accelerate collegate alla provenienza da un Paese di origine sicuro dovranno essere applicate soltanto ai richiedenti che non abbiano invocato, fin dalla presentazione della propria domanda o nelle fasi successive della procedura, gravi motivi per ritenere che, nelle loro specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro (ciò anche in base ad una lettura congiunta degli art. 31.8(b) e 36 della Direttiva procedure). In caso di allegazione di un motivo individuale di rischio, l’esame della domanda dovrà proseguire al di fuori della procedura di frontiera, o di altre procedure accelerate“. Per l’UNHCR, “il trattenimento – escluso in ogni caso per i minori e per le persone vulnerabili, con specifiche esigenze procedurali – potrà ritenersi giustificato soltanto: (i) per il tempo strettamente necessario a verificare l’identità; (ii) per accertati motivi di sicurezza; (iii) e/o per assicurare un’adeguata determinazione della procedura più appropriata tramite attività di screening e triaging. Appare, quindi, ingiustificato, collegare i presupposti per un trattenimento di quattro settimane, volto a completare l’esame della domanda di protezione, nell’ambito della procedura di frontiera, a criteri quali la mancanza di documenti o di mezzi finanziari, combinati con la provenienza da un Paese di origine designato come sicuro, senza alcuna
valutazione preliminare sulla fondatezza o meno della domanda.”
4. In linea con l’orientamento politico del governo, l’intero Disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania generalizza il trattenimento amministrativo per i richiedenti asilo soccorsi in acque internazionali e sbarcati in territorio albanese, alla sola condizione che provengano da “paesi terzi sicuri”, e tende a considerare come “irregolari” tutti i naufraghi soccorsi in acque internazionali da navi militari itaiane, come se avessero cercato di sotttrarsi ai controlli di frontiera. Mentre invece per la giurisprudenza “soggetti che sono stati soccorsi in acque internazionali e legittimamente trasportati sul territorio nazionale per necessità di pubblico soccorso non possono, dunque, essere considerati migranti entrati illegalmente nel territorio dello Stato per fatto proprio e l’ipotesi contravvenzionale non consente di configurare il tentativo di ingresso illegale.” (Cass. sez. un. pen., 29 settembre 2016, n. 40517). Sotto questo profilo va ribadito che le navi militari battenti bandiera italiana costituiscono già territorio nazionale, infatti, in base all’articolo 4 del Codice della navigazione, “le navi italiane in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o spazio non oggetto alla sovranità di alcuno Stato sono considerati come territorio italiano”. Qualunque “consegna”, seppure temporanea, di persone comunque imbarcate su navi militari battenti bandiera italiana, ad autorità nazionali diverse, ad esempio alla polizia albanese, come si ipotizza possa avvenire allo sbarco dei naufraghi prima del loro trasferimento nei centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”, costituisce una forma di respingimento collettivo illegale in violazione dell’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU e dell’art.19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Non si riscontrano infatti, prima della consegna alle autorità albanesi allo sbarco provvedimenti individuali che definiscano la condizione giuridica dei naufraghi o ne stabiliscano il trasferimento verso i centri ubicati in Albania.
Rileviamo purtroppo come negli ultimi tempi la giurisprudenza italiana tenda a considerare meno rilevante l’inizio effettivo del trattenimento amministrativo, o il momento in cui le persone manifestano la loro volontà di chiedere asilo, attribuendo maggior rilievo alla data dei provvedimenti formali adottati dalle autorità amministrative, e consentendo tempi sempre più lunghi di “detenzione de facto“ in assenza di convalida giurisdizionale. Ma la giustizia internazionale e la vigente normativa europea pongono limiti invalicabili. il richiedente protezione internazionale è tale non soltanto nel momento in cui viene formalizzata la richiesta, ma già nel momento in cui manifesta la volontà di chiedere protezione (ai sensi dell’art. 20, comma 2, del Regolamento UE 604/13).
La Corte europea dei diritti dell’Uomo, che ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respingimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, con sentenze più recenti ha condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo.
5. Non è facile isolare singole previsioni che andrebbero emendate in sede di approvazione di un disegno di legge di ratifica che dàrebe attuazione ad un accordo internazionale che nel suo complesso risulta palesemente in contrasto con il diritto internazionale, con il vigente diritto dell’Unione Europea e con le attuali normative italiane in materia di immigrazione ed asilo, normative coperte da garanzia costituzionale, soprattutto in base agli articoli 10 e 117 della nostra Carta fondamentale.
Gli articoli 1 e 2 del disegno di legge recano rispettivamente l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione del Protocollo tra il Consiglio dei ministri della Repubblica di Albania e il Governo della Repubblica italiana per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria fatto a Roma il 6 novembre 2023. L’articolo 3 del disegno di legge reca “norme di coordinamento finalizzate alla corretta attuazione del Protocollo”. Norme di coordinamento con “l’ordinamento interno”, come si richiama nel titolo del Disegno di legge di ratifica del Protocollo, ma nel testo contenuto nel medesimo disegno di legge il richiamo all’ordinamento interno è evidentemente saltato, anche perchè in realtà in diversi punti le previsioni del Protocollo andranno coordinate non solo con la normativa nazionale ma anche con la normativa unionale, che il Parlamento italiano non potrà certo modificare unilateralmente.
All’art.3 comma 2 del Disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania si prevede che “ai fini dell’esecuzione del Protocollo, le aree (…) sono equiparate alle zone di frontiera o di transito individuate dal decreto ministeriale adottato ai sensi dell’art. 28 bis co. 4 d.lgs. 25/2008” E ancora, “Nelle aree di cui all’articolo 1, paragrafo 1, lettera c), del Protocollo possono essere condotte esclusivamente persone imbarcate su mezzi delle autorità italiane all’esterno del mare territoriale della Repubblica o di altri Stati membri dell’Unione europea, anche a seguito di operazioni di soccorso”. Da parte del ministero dell’interno la distinzione tra gli “eventi di migrazione irregolare” (law enforcement) ed “eventi di socorso” è stata rimessa da tempo alla più totale discrezionalità delle autorità centrali di coordinamento. Andrebbe pertanto cassato il riferimento alle “operazioni di soccorso”, a seguito delle quali andrebbe eliminata qualunque sfera di discrezionalità e riconosciuto ai naufraghi il diritto di fare direttamente ingresso in territorio italiano nel porto sicuro più vicino. Il mantenimento dell’attuale testo comporterebbe una grave discriminazione, legata a scelte puramente discrezionali delle autorità amministrative, riconducibili in linea gerarchica al ministero dell’interno, anche a seconda dei luoghi nei quali avvengono i soccorsi e dei diversi porti di sbarco assegnati dalle medesime autorità.
La Direttiva 2013/33/UE, contenente norme relative all’”accoglienza” dei richiedenti asilo, all’articolo 7 paragrafo 1, vieta di applicare misure di limitazione della libertà personale nei confronti dei richiedenti asilo “per il solo fatto di essere un richiedente” e prevede che il trattenimento venga disposto solo in casi molto limitati e “salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive” (articolo 8, paragrafo 2), misure che in base al Protocollo Italia-Albania non appaiono neppure lontanamente realizzabili al di fuori del territorio italiano.
Appare quindi particolarmente censurabile, già nel Protocollo d’intesa Italia-Albania e poi nel Disegno di legge di attuazione, il ricorso alla categoria di “migranti” definiti all’articolo 1, paragrafo 1, lettera c), del Protocollo come “cittadini di paesi terzi ed apolidi per i quali deve essere accertata la sussistenza, o è stata accertata l’insussistenza dei requisiti per l’ingresso, il soggiorno o la residenza nel territorio della Repubblica italiana”. Mentre nel Disegno di legge di ratifica si fa riferimento soltanto ad un indeterminato“soggetto trattenuto”, senza alcun riferimento specifico alle vulnerabilità, alla minore età, al genere o ad altre condizioni personali. Sembra in sostanza che, a discrezione delle autorità amministrative, si voglia replicare anche in Albania la procedura (sbarchi selettivi) di sbarcare nei porti italiani soltanto una parte delle persone soccorse in acque internazionali – cioè quelle in condizioni più fragili come minori, donne incinte e persone in condizioni di salute precarie – e portare altrove tutte le altre. Con una evidente discriminazione anche tra quelle provenienti da “paesi terzi sicuri”, una parte che sarebbe sbarcata in Albania, e un’altra parte, anche a seconda dei mezzi militari o civili che operano i soccorsi, che sarebbe invece sbarcata in un porto italiano. In sostanza altri “sbarchi selettivi” rimessi ai poteri discrezionali delle autorità amministrative e del ministero dell’interno, al vertice come responsabilità politica, ed a livello operativo, della Centrale di coordinamento interforze (NCC) istituita presso il Viminale.
A febbraio del 2023 il Tribunale amministrativo di Catania ha dichiarato illegittimo un decreto del ministro dell’interno Piantedosi che prevedeva lo sbarco nel porto di Catania soltanto delle persone più fragili ed il respingimento collettivo di tutte le altre. A bordo della SOS Humanity 1, agli inizi di novembre del 2022, erano rimaste bloccate 35 persone, tutti uomini, considerate in buona salute: il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi le definiva allora “carico residuale” e si parlava di uno “sbarco selettivo”. Quella volta, prima ancora che arrivasse la decisione del Tribunale, tutte le persone ancora a bordo della nave venivano fatte sbarcare, a fronte di una generale situazione di sofferenza psico-fisica generata dal lungo periodo trascorso in Libia e dalla traversata in mare, prima dei soccorsi. Oggi avremo ancora altri “carichi residuali” che saranno sbarcati in Albania, e consegnati ad un destino di deportazione a tappe successive, verso paesi terzi non sicuri ma anche con la riconduzione forzata in Italia, qualora non riuscissero ad ottenere il riconoscimento di uno status di protezione. Come potrebbe avvenire, secondo la Relazione tecnica allegata al Disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania, nel 90 per cento dei casi.
6. Secondo l’art. 3 comma 4 del Disegno di legge di ratifica, “ Le strutture indicate alle lettere A) e B) dell’allegato 1 al Protocollo (dunque sia il centro ubicato nel sito portuale di Shengjin che il centro di trattenimento all’interno nel sito di Gjader) sono equiparate a quelle previste dall’articolo 10-ter, comma 1, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286″. La norma di ratifica comporta una equiparazione di stato giuridico di luoghi che non sono assolutamente parificabili sul piano di fatto ed in base alle normative europee, che non prevedono ad oggi centri Hotspot al di fuori dei confini degli Stati dell’Unione Europea. Secondo l’art.10 ter comma 1 bis del medesimo Testo Unico,”“Per l’ottimale svolgimento degli adempimenti di cui al presente articolo, gli stranieri ospitati presso i punti di crisi di cui al comma 1 possono essere trasferiti in strutture analoghe sul territorio nazionale, per l’espletamento delle attività di cui al medesimo comma. Al fine di assicurare la coordinata attuazione degli adempimenti di rispettiva competenza, l’individuazione delle strutture di cui al presente comma destinate alle procedure di frontiera con trattenimento e della loro capienza è effettuata d’intesa con il Ministero della giustizia”. Si deve trattare dunque di strutture di accoglienza/transito/detenzione, anche al di fuori dei centri Hotspot, ma comunque ubicate nel territorio nazionale. Quando sono previsti trasferimenti forzati da un paese all’altro non si può ritenere che le persone rimangano sotto la giurisdizione esclusiva di un unico Stato, e questa circostanza incide profondamente sul riconoscimento effettivo dei loro diritti fondamentali.
L‘art. 3 comma 4 del Disegno di legge di ratifica, poi, stabilisce che “La struttura per il rimpatrio indicata alla lettera B) dell’allegato 1 al Protocollo (il centro di detenzione ubicato all’interno nel sito di Gjader) è equiparata ai centri previsti ai sensi dell’articolo 14, comma 1, del citato testo unico di cui al decreto legislativo n. 286 del 1998″. In questo caso si prevede un centro di detenzione amministrativa al di fuori dell’Unione Europea, in contrasto con le previsioni tuttora vigenti della Direttiva sui rimpatri n.2008/115/CE che non prevede che gli Stati membri possano ricorrere alla istituzione di centri di detenzione amministrativa in paesi terzi. La Direttiva 2008/115/CE, stabilisce “norme e procedure comuni da applicarsi negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nel rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto comunitario e del diritto nternazionale, compresi gli obblighi in materia di protezione dei rifugiati e di diritti dell’uomo” (art. 1).
7. Secondo l’art. 4 comma 1 del Disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania, “Ai migranti di cui all’articolo 1, paragrafo 1, lettera d), del Protocollo si applicano, in quanto compatibili, il testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, il decreto legislativo 28 gen- naio 2008, n. 25, il decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142, e la disciplina italiana ed europea concernente i requisiti e le procedure relativi all’ammissione e alla permanenza degli stranieri nel territorio nazionale. Per le procedure previste dalle disposizioni indicate al primo periodo sussiste la giurisdizione italiana e sono territorialmente competenti, in via esclusiva, la
sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea del tribunale di Roma e l’ufficio del giudice di pace di Roma. Nei casi di cui al presente comma si applica la legge italiana”.
L’affermazione di una giurisdizione italiana in un paese extra-UE, che comunque richiamerebbe immediatamente anche l’applicabilità del diritto dell’Unione europea, come emerge in diversi punti del Disegno di legge di ratifica del Protocollo, sembra tuttavia in contrasto con quanto affermato dalla Commissaria UE agli Affari interni Ylva Johansson secondo cui “l’accordo Italia-Albania non viola il diritto comunitario perché ne è al di fuori”. la Commissaria europea aggiungeva però che, “data l’appartenenza dell’Italia all’Unione e l’adozione obbligatoria di una legislazione comune, le regole che si applicheranno all’interno dei centri albanesi saranno effettivamente di natura europea e imiteranno il quadro che si applica sul suolo italiano”. Per la Johansson, “Se vengono applicate le leggi italiane, le persone dovrebbero essere esaminate secondo la legge italiana dalle autorità italiane e, dopo una decisione (positiva) sull’asilo, essere portate in Italia o, in caso contrario, riportate nel paese di origine e, se non è possibile, riportate indietro. in Italia”. Per la Commissaria agli interni UE, “L’Italia sta rispettando il diritto dell’UE, quindi ciò significa che si tratta delle stesse regole. Ma giuridicamente parlando, non è il diritto dell’UE ma è la legge italiana (che) segue il diritto dell’UE.”. Come se le norme italiane corrispondessero in pieno alle norme dell’Unione europea, senza i punti di contrasto che si sono rilevati in precedenza. Un contrasto sui rapporti tra giurisdizione italiana e normative europee che la legge di ratifica non risolve.
Non si riesce davvero a trovare nel Diritto dell’Unione europea attualmente vigente, e nel diritto italiano, una sola norma che autorizzi i trasferimenti forzati al di fuori dell’Unione europea di persone soccorse in acque internazionali da autorità statali europee ed il regime di trattenimento amministrativo “differenziato” in Albania, oggetto dell’intesa tra la Meloni e il premier albanese, ed adesso al centro della legge di ratifica che dovrebnbe essere approvata dal Parlamento. Di certo non potranno venire a supporto della ratifica del Protocollo tra Italia ed Albania atti politici recentemente adottati a livello europeo, ma ancora privi di un riscontro legislativo con il voto concorde del Parlamento e del Consiglio, come quel Patto sulle migrazioni in 10 punti che dal 2023 costituisce il punto di arrivo del fallimentare Piano sulle migrazioni e l’asilo del 2020, che imprimeva una svolta verso una esternalizzazione più marcata delle politiche europee sulle frontiere esterne e sul contrasto delle migrazioni irregolari. Neppure una parola sulla presenza di interpreti e di mediatori culturali o sulle possibilità di comunicazione con l’esterno, verso l’Italia o altri paesi.
Secondo la Corte di Cassazione (Sez. I, sent. del 20 novembre 2023, n. 32010), ai sensi dell’art. 10-ter del d.lgs. n. 286 del 1998, a tutti gli stranieri tratenuti presso i punti di crisi (c.d. “hotspot”), va garantita una informativa completa ed effettiva sulla procedura di protezione internazionale, anche nel caso in cui lo straniero non abbia manifestato l’esigenza di chiedere la protezione internazionale, perchè il silenzio non può assumere alcun rilievo se non viene fornita la prova che la persona è stata adeguatamente informata con l’ausilio di un interprete. Rimane da vedere come sarà regolata in Albania la prassi di compilare un “foglio notizie” su ciascun migrante, una prassi di polizia che negli hotspot ubicati in Italia ha dato luogo a numerosi abusi, restringendo l’accesso effettivo alla procedura di asilo, come rilevato in diverse sentenze della Corte di Cassazione.
Al di fuori del generico richiamo alla normativa nazionale ed unionale in materia di asilo e rimpatri nel disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania non si prevede alcuna specifica informazione da fornire alle persone trasferite in Albania all’interno dei centri di accoglienza/detenzione, né sembra garantito un facile reperimento di un difensore di fiducia. Come saranno individuati gli avvocati che dovranno necessariamente assistere le persone richiedenti asilo dopo il diniego o tutti coloro che saranno sottoposte a misure di trattenimento e di respingimento o di espulsione ? L’art. 4 comma 2 del Disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia Albania prevede soltanto che ” Lo straniero sottoposto alle procedure di cui al comma 1 rilascia la procura speciale al difensore mediante sottoscrizione apposta su documento analogico. La procura speciale è trasmessa con strumenti di comunicazione elettronica, anche in copia informatica per immagine, unitamente a copia del documento identificativo attribuito ai sensi dell’articolo 3, comma 5, e all’attestazione, rilasciata da un operatore della Polizia di Stato, dell’avvenuta apposizione della firma da parte dello straniero. Ci saranno soltanto difensori nominati d’ufficio, e con quali criteri saranno selezionati ? In ogni caso, con i tempi e le formalità del processo telematico, quale effettività potrà avere il diritto di difesa ancora riconosciuto alle persone trattenute nei centri ubicati in Albania ? In base all’art.4 comma 3 del Disegno di legge di ratifica si prevede che “il responsabile del centro adotta le misure necessarie a garantire il tempestivo e pieno esercizio del diritto di difesadello straniero“, e che “è assicurato, mediante collegamento da remoto tra il luogo dove si trova lo straniero e quello dove si trova il difensore, il diritto di conferire riservatamente con quest’ultimo con modalità audiovisive”. L’esercizio effettivo del diritto di difesa delle persone trattenute nei centri in Albania rimane così rimesso ai tempi ed alle scelte discrezionali di una figura nominata dal ministero dell’interno con una evidente violazione del principio di uguaglianza (art.3 Cost.) e del diritto costituzionale alla difesa (art.24 Cost.) rispetto a quanto previsto per le persone trattenute nei centri di detenzione, negli Hotspot o nei CPR, ubicati in Italia.
Secondo la Nota tecnica dell’UNHCR citata in precedenza, “tutte le strutture individuate come possibili luoghi di trattenimento ai fini della procedura di frontiera, dovranno essere disciplinate in conformità con quanto previsto dalla Direttiva accoglienza (art. 10), quanto alle condizioni per il trattenimento dei richiedenti asilo, quali la disponibilità di spazi aperti, la possibilità di comunicare e ricevere visite (da parte di personale UNHCR, familiari, avvocati, consulenti legali e rappresentanti di organizzazioni non governative) e il diritto di essere informati delle norme vigenti nel centro”.
8. L’art. 4 comma 3 del Protocollo d’intesa Italia-Albania prevede “che i migranti possano entrare nel territorio albanese al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana e che le autorità italiane debbano trasferirli al di fuori del territorio albanese nel caso in cui venga meno il titolo della permanenza nelle strutture”. Su questo punto il Disegno di legge di ratifica appare particolarmente lacunoso, soprattutto con riferimento ai casi, che saranno i più frequenti, nei quali al termine delle procedure previste per il riconsocimento dello status di protezione, o del trattenimento amministrativo in Albania previsto in caso di diniego, i rimpatri non si possano effettuare e le persone debbano essere riportate in Italia. Fin dal giorno della firma del Protocollo il premier Edi Rama ha ribadito che“chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. Inutile ricordare in questa sede come a livello europeo, ed anche italiano, soltanto una minima parte delle decisioni di rimpatrio trova effettiva attuazione, per la mancata collaborazione dei paesi di origine, e per la impossibilità di deportazioni, perchè di questo si tratterebbe, verso i paesi di transito. Anche se le cancellerie europee sono impegnate tutte in questa direzione, con l’avallo esplicito di Bruxelles, non sembra davvero un obiettivo alla portata di governi ormai assillati dalle prossime scadenze elettorali. Il Memorandum d’intesa UE-Tunisia, sotto questo profilo, ha largamente deluso le aspettative di chi si attendeva un grosso incremento delle espulsioni con acompagnamento forzato effettivamente eseguite. Non si vede in base a quali condizioni queste espulsioni potrebbero essere più efficaci dall’Albania, piuttosto che dal territorio italiano.
Si rileva l’impossibilità che le navi della Marina militare o della Guardia costiera possano garantire, in caso di mancata esecuzione delle misure di allontanamento forzato, un numero tanto elevato di ritrasferimenti via mare, dall’Albania verso l’Italia, senza essere distolte dai loro compiti istituzionali. La previsione di successivi trasferimenti dall’Albania verso l’Italia non viene specificata nel disegno di legge di ratifica, ma come emerge dalla relazione tecnica, comporta la previsione di “noli di navi” evidentemente private, come si è fatto durante l’emergenza COVID, per una spesa di euro 15 milioni per l’anno 2024 ed euro 20 milioni per ciascuno degli anni dal 2025 al 2028 (parte corrente). Si tratta di una prassi da cancellare, a fronte dell’esperienza negativa maturata dal 2020 al 2022 sulle cd. navi quarantena e delle reiterate violazioni dei diritti fondamentali delle persone migranti denunciate a bordo di quelle navi, a partire dalla illegittimità delle misure di trattenimento amministrativo informale surettiziamente applicato in quelle occasioni. Si vuole forse fare ricorso a traghetti ormeggiati in acque albanesi per supplire alla carenza di mezzi per i ritrasferimenti verso l’Italia o al mancato avvio delle strutture di accoglienza/detenzione previste in territorio albanese?
9. Secondo l’art. 4 comma 11 del Disegno di legge di ratifica del Protocollo si prevede, in caso di reati commessi dalle persone migranti trattenute nei centri di detenzione in Albania “sotto giurisdizione italiana” una peculiare ipotesi di “giurisdizione penale”. Nell’area del sito di Gjader estinata anche a CPR (Centro per i rimpatri) è infatti prevista una vera e popria struttura penitenziaria. In particolare,“Quando, ai sensi dell’articolo 391, comma 5, del codice di procedura penale, il giudice applica la misura cautelare della custodia in carcere, l’indagato è immedia- tamente posto a disposizione dell’autorità giudiziaria procedente mediante trasferimento presso idonee strutture ubicate nelle aree di cui all’articolo 1, paragrafo 1, let- tera c), del Protocollo. Quando il giudice dispone una misura diversa dalla custodia cautelare in carcere o l’immediata liberazione dell’arrestato o del fermato, l’indagato resta sottoposto al trattenimento, laddove disposto, in corso di esecuzione al momento della commissione del reato“. Le stesse aree sotto giurisdizione italiana concesse dall’Albania all’Italia, dovrebbero quindi essere suddivise in parti diverse, ed al loro interno una sezione apposita dovrebbe funzionare come un carcere vero e proprio, senza però quelle garanzie di fatto e di diritto che nella legislazione italiana, e in territorio italiano, caratterizzano lo statuto delle persone detenute, sottposte alla normativa dell’Ordinamento penitenziario, che nei centri ubicati in Albania appare applicabile solo in base alla discrezionalità delle autorità amministrative preposte alla sorveglianza. Ancora più a rischio in queste ipotesi l’esercizio effettivo dei diritti di difesa e pressochè nulli gli spazi ed i termini per le indagini difensive.
Non ci soffermeremo oltre in questa sede sui profili penalistici e processual-penalistici del disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania, già affrontati da altri, che hanno evidenziato la possibile violazione dell’art. 3 della Costituzione e la introduzione di norme di diritto penale prive del carattere della generalità e della astrattezza, ma centrate sulla figura dell’autore del reato.
Sembrano in ogni caso assai ridotti i poteri ispettivi di organi di controllo indipendenti e viene reso praticamente impossibile l’accesso ai centri ubicati in Albania, per il monitoraggio da parte di associazioni che tutelano i diritti umani. Anche se all’ultimo comma (19) dell’articolo 4 si prevede che “ Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale svolge i compiti previsti dall’articolo 14, comma 2-bis, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, anche nell’ambito delle aree di cui all’articolo 1, paragrafo 1, lettera c), del Protocollo, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Ma le attività dell’Ufficio del Garante non dovrebbero comportare costi aggiuntivi, e dunque l’attività ispettiva di questo organismo già limitata in Italia, appare destinata ad essere ancora più rara in territorio albanese.
10. Prescindendo dalle disposizioni organizzative (art.6) e finanziarie (art.7) che completano il disegno di legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania, che pure dimostrano costi esorbitanti e obiettivi irraggiungibili, come considerazione finale che si può fare, al di là della certezza che il governo non consentirà alcuna modifica al testo presentato alle Camere, a costo di ricorrere all’ennesimo voto di fiducia, si deve osservare che singoli emendamenti comunque non attribuirebbero validità all’intero accordo, sotto il profilo del contrasto incolmabile con la Costituzione (per la violazione degli articoli 10,13, 24, 32 e 117 del testo costituzionale), con la normativa europea (in particolare con le Direttive su procedure (n.2013/32/UE) ed accoglienza (n.2013/33/UE) dei richiedenti asilo, con la Direttiva europea sui rimpatri (n. 2008/115/CE) oltre che con il diritto internazionale dei rifugiati (Convenzione di Ginevra, in particolare articolo 33) e la Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo (in particolare con gli articoli 3, 5, 6, 13).
Amnesty International ha messo bene in evidenza come il protocollo sia “illegale ed impraticabile” e potrebbe entrare in conflitto con il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, articolo 78, paragrafo 1, e con la Carta europea dei diritti fondamentali (articoli 18 e 19) che garantisce il diritto di chiedere asilo nell’Unione Europea e vieta i respingimenti collettivi. Si potrebbe anche configurare, come si è osservato, “una violazione dell’articolo 3(2) del TFUE. Tale accordo sarebbe suscettibile di alterare l’ambito di applicazione delle norme comuni dell’UE e, in particolare, del sistema europeo comune di asilo”.
Anche derogando il diritto dell’Unione europea con una nuova legge nazionale di ratifica del Protocollo Italia-Albania non si potranno comunque superare i limiti imposti dal diritto internazionale che vieta i respingimenti collettivi ed impone garanzie per i casi di trattenimento amministrativo. Secondo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, titolato “Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)”, è comunque nullo qualsiasi Trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale”. Ed è inutile che il governo giochi con la forma degli accordi, definendoli Memorandum o Protocolli d’intesa, perchè se hanno contenuto politico ed implicano oneri di spesa, sono comunque accordi internazionali parificati dal punto di vista della Convenzione di Vienna ai Trattati. E infatti, dopo l’iniziale tentativo di elusione della verifica parlamentare da parte del governo, il Protocollo Italia-Albania dovrà essere ratificato dalle Camere in base all’art. 80 della Costituzione.
Non sarà certo la presenza dell’OIM e dell’UNHCR, nei nuovi centri che si dovrebbero aprire in Albania, una presenza annunciata dal governo italiano ma ancora non confermata, sempre ammesso che queste procedure in frontiera si realizzno in un paese terzo non appartenente all’Unione europea, che potrà scardinare le norme di garanzia a favore dei richiedenti asilo negli Hotspot e delle persone sottoposte a procedure di rimpatrio nei centri qualificati come CPR. Sarebbe piuttosto auspicabile che queste organizzazioni chiariscano una volta per tutte la loro posizione sulla esternalizzazione delle “procedure in frontiera”, e rifiutino di venire utilizzate come una giustificazione per trasferimenti forzati e forme di detenzione amministrativa che sono e rimarranno privi di basi legali.
Per chi sarà deportato in Albania, perchè di deportazione si tratta, per la grave lesione dei diritti fondamentali che ne deriva, si prevede una condizione giuridica “speciale” di extra-territorialità a fasi alterne, perchè non sarebbe soggetto al diritto albanese, se non, forse, nel transito dai porti di sbarco al centro di detenzione e da qui verso l’aeroporto albanese, in caso di rimpatrio, o in caso di fuga dai centri, ma neppure potrebbe avvalersi effettivamente di tutte le tutele, a partire dalle garanzie costituzionali, e dalla legislazione italiana ed europea, stabilite per chi si trova sotto giurisdizione italiana nel nostro territorio.
Come scrivevamo subito dopo la firma del Protocollo Italia-Albania, difficile pensare che in tempi brevi la politica basata sugli annunci e sulla propaganda contro gi stranieri possa cessare. Conviene ancora troppo sul piano elettorale. Per questa politica della paura concludere accordi bilaterali contro le migrazioni “irregolari”ha una valenza enorme anche se poi questi accordi si rivelano inapplicabili o in contrasto con i diritti umani, cancellando del tutto la residua portata del diritto di asilo.
Dentro e fuori i confini dell’Unione europea, e non solo sulle questioni che riguardano le migrazioni, assistiamo ad un continuo attentato al principio di uguaglianza, ai diritti umani ed alla democrazia. In Italia la “dittatura della maggioranza” sembra non trovare ostacoli e la legge di ratifica del Protocollo Italia-Albania, che passerà indenne in Parlamento, darà lo spunto per altre violazioni dei diritti fondamentali della persona migrante, oltre ad avere un costo economico esorbitante. La prospettiva dei nuovi equilibri che si potranno determinare dopo le prossime elezioni europee deve costituire motivo di un grave allarme democratico. Continueranno a prevalere l’indifferenza verso chi richiede protezione, e la paura verso gli stranieri. Si consolideranno le alleanze della destra globale. Potrebbe tramontere definitivamente lo Stato di diritto (rule of law) su cui si basavano le grandi democrazie europee e sembra destinata a prevalere, in attuazione di scelte politiche ed amministrative di esecutivi sempre più forti, la dimensione informale delle attività di polizia, sottratte nella sostanza ad un effettivo controllo giurisdizionale, Quando gli europei, e gli italiani in particolare, si sveglieranno da questo sonno delle coscienze (oltre che della ragione) potrebbe davvero essere troppo tardi.
fonte: Adif
Lascia un commento