di Marco Trotta
Il 17 aprile si terrà un referendum popolare. Si tratta di un referendum abrogativo, e cioè di uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che la Costituzione italiana prevede per richiedere la cancellazione, in tutto o in parte, di una legge dello Stato. E riguarderà le concessioni estrattive per le piattaforme entro le dodici miglia. Il referendum è stato proposto “da dieci Regioni italiane (Abruzzo, Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna,Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise; l’Abruzzo ha poi ritirato il suo sostegno ai quesiti)”. Purtroppo non è stato possibile accorparlo con le imminenti amministrative di giugno perché “È intervenuta invece una legge della Repubblica Italiana, approvata nel 2011, nella disputa riguardante la possibilità di un Election Day ovvero l’accorpamento delle votazioni amministrative con il quesito referendario. Proprio il citato “decreto 98/2011″ esclude l’ipotesi che le due consultazioni possano avvenire in concomitanza l’una con l’altra”. Tutto questo costerà circa 300 milioni di euro.
In questi giorni sta girando un utile Faq con domande e risposte sulla consultazione fatta dai comitati territoriali. La pubblichiamo qui in basso. Internazionale ha messo in rete una propria Faq dove si spiegano anche quali sono i siti interessati dal provvedimento. In rete c’è anche un video di Greenpeace e un altro autoprodotto. Mentre invece su Comune trovate diversi articoli nella Tag No Triv, a cominciare da Il referendum che spaventa l’Eni.
La Faq sono anticipate da questo intervento di Maria Rita D’Orsogna inviato a Comune per un’iniziativa promossa a Roma il 6 marzo. Ventinove minuti su: le tre vittorie contro i trivellatori in Abruzzo, i cinquant’anni di inferno di Gela, la Basilicata che doveva diventare il nuovo Texas, se applicassimo le leggi della California, la Norvegia e le sue ombre, le cozze inquinate e il prof Clò, la questione clima, le alternative e il caso Scozia. Buona visione
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Perché la proposta soggetta a referendum sia approvata occorre che vada a votare almeno il 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto e che la maggioranza dei votanti si esprima con un “Sì”.
Hanno diritto di votare al referendum tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto la maggiore età. Votando “Sì” i cittadini avranno la possibilità di cancellare la norma sottoposta a referendum.
Dove si voterà?
Si voterà in tutta Italia e non solo nelle Regioni che hanno promosso il referendum. Al referendum potranno votare anche gli italiani residenti all’estero.
Quando si voterà?
Sarà possibile votare per il referendum soltanto nella giornata di domenica 17 aprile.
Cosa si chiede esattamente con il referendum del 17 aprile 2016?
Con il referendum del 17 aprile si chiede agli elettori di fermare le trivellazioni in mare. In questo modo si riusciranno a tutelare definitivamente le acque territoriali italiane. Nello specifico si chiede di cancellare la norma che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Nonostante, infatti, le società petrolifere non possano più richiedere per il futuro nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia, le ricerche e le attività petrolifere già in corso non avrebbero più scadenza certa. Se si vuole mettere definitivamente al riparo i nostri mari dalle attività petrolifere occorre votare “Sì” al referendum. In questo modo, le attività petrolifere andranno progressivamente a cessare, secondo la scadenza “naturale” fissata al momento del rilascio delle concessioni.
Qual è il testo del quesito?
Il testo del quesito è il seguente: «Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?».
È possibile che qualora il referendum raggiunga la maggioranza dei “Sì” il risultato venga poi “tradito”?
A seguito di un eventuale esito positivo del referendum, il Parlamento o il Governo non potrebbero modificare il risultato ottenuto. La cancellazione della norma che al momento consente di estrarre gas e petrolio senza limiti di tempo sarebbe immediatamente operativa. L’obiettivo del referendum è chiaro e mira a far sì che il divieto di estrazione entro le dodici miglia marine sia assoluto. Come la Corte costituzionale ha più volte precisato, il Parlamento non può successivamente modificare il risultato che si è avuto con il referendum, altrimenti lederebbe la volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria. Qualora però non si raggiungesse il quorum previsto perché il referendum sia valido (50% più uno degli aventi diritto al voto), il Parlamento potrebbe fare ciò che vuole: anche prevedere che si torni a cercare ed estrarre gas e petrolio ovunque.
È vero che se vincesse il “Sì” si perderebbero moltissimi posti di lavoro?
Un’eventuale vittoria del “Sì” non farebbe perdere alcun posto di lavoro: neppure uno. Un esito positivo del referendum non farebbe cessare immediatamente, ma solo progressivamente, ogni attività petrolifera in corso. Prima che il Parlamento introducesse la norma sulla quale gli italiani sono chiamati alle urne il prossimo 17 aprile, le concessioni per estrarre avevano normalmente una durata di trenta anni (più altri venti, al massimo, di proroga). E questo ogni società petrolifera lo sapeva al momento del rilascio della concessione. Oggi non è più così: se una società petrolifera ha ottenuto una concessione nel 1996 può – in virtù di quella norma – estrarre fino a quando lo desideri.
Se, invece, al referendum vincerà il “Sì”, la società petrolifera che ha ottenuto una concessione nel 1996 potrà estrarre per dieci anni ancora e basta, e cioè fino al 2026. Dopodiché quello specifico tratto di mare interessato dall’estrazione sarà libero per sempre.
L’Italia dipende fortemente dalle importazioni di petrolio e gas dall’estero. Non sarebbe opportuno, al contrario, investire nella ricerca degli idrocarburi e incrementare l’estrazione di gas e petrolio?
L’aumento delle estrazioni di gas e petrolio nei nostri mari non è in alcun modo direttamente collegato al soddisfacimento del fabbisogno energetico nazionale. Gli idrocarburi presenti in Italia appartengono al patrimonio dello Stato, ma lo Stato dà in concessione a società private – per lo più straniere – la possibilità di sfruttare i giacimenti esistenti. Questo significa che le società private divengono proprietarie di ciò che viene estratto e possono disporne come meglio credano: portarlo via o magari rivendercelo. Allo Stato esse sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7 per cento del valore della quantità di petrolio estratto o al 10 per cento del valore della quantità di gas estratto. Non tutta la quantità di petrolio e gas estratto è però soggetta a royalty. Le società petrolifere non versano niente alle casse dello Stato per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas estratti ogni anno e godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo. Nell’ultimo anno dalle royalty provenienti da tutti gli idrocarburi estratti sono arrivati alle casse dello Stato solo 340 milioni di euro.
Il rilancio delle attività petrolifere non costituisce un’occasione di crescita per l’Italia?
Secondo le ultime stime del ministero dello Sviluppo Economico effettuate sulle riserve certe e a fronte dei consumi annui nel nostro Paese, anche qualora le estrazioni petrolifere e di gas fossero collegate al fabbisogno energetico nazionale, le risorse rinvenute sarebbero comunque esigue e del tutto insufficienti. Considerando tutto il petrolio presente sotto il mare italiano, questo sarebbe appena sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale di greggio per 8 settimane. La ricchezza dell’Italia è, in verità, un’altra: per esempio il turismo, che contribuisce ogni anno circa al 10% del PIL nazionale, dà lavoro a quasi 3 milioni di persone, per un fatturato di circa 160 miliardi di euro; la pesca, che si esercita lungo i 7.456 km di costa entro le 12 miglia marine, produce circa il 2,5% del PIL e dà lavoro a quasi 350.000 persone; il patrimonio culturale, che vale 5,4% del PIL e che dà lavoro a circa 1 milione e 400.000 persone, con un fatturato annuo di circa 40 miliardi di euro; il comparto agroalimentare, che vale l’8,7% del PIL, dà lavoro a 3 milioni e 300.000 persone con un fatturato annuo di 119 miliardi di euro e che nel solo 2014 ha conosciuto l’esportazione di prodotti per un fatturato di circa 34,4 miliardi di euro; e soprattutto la piccola e media impresa, che conta circa 4,2 milioni di piccole e medie “industrie” (e, cioè, il 99,8% del totale delle industrie italiane), e che costituisce il vero motore dell’intero sistema economico nazionale: tali imprese assorbono l’81,7% del totale dei lavoratori del nostro Paese, generano il 58,5% del valore delle esportazioni e contribuiscono al 70,8% del PIL. Il solo comparto manifatturiero, che conta circa 530.000 aziende, occupa circa 4,8 milioni di addetti, fattura 230 miliardi di euro l’anno, equivalente al 13% del PIL nazionale, e contribuisce al totale delle esportazioni del Made in Italy nella misura del 53,6%.
Però gli italiani utilizzano sempre di più la macchina per spostarsi. Non è un controsenso?
Ciò che si estrae in Italia non è necessariamente destinato alla produzione del carburante per le autovetture ed ancor meno per quelle in circolazione nel nostro Paese. Ad ogni modo, gli italiani si trovano spesso costretti ad utilizzare l’auto di proprietà. A fronte di un sistema di trasporti pubblici gravemente lacunoso non hanno praticamente scelta. In alcuni Paesi del Nord Europa l’utilizzo dell’auto privata è spesso avvertito come un “peso” e ritenuto economicamente non vantaggioso. Le cose andrebbero diversamente se si perseguisse una seria politica dei trasporti pubblici. Secondo l’Unione europea, rispetto agli altri Stati membri, l’Italia è al riguardo agli ultimi posti.
Cosa ci si attende?
Il voto referendario è uno dei pochi strumenti di democrazia a disposizione dei cittadini italiani ed è giusto che i cittadini abbiano la possibilità di esprimersi anche sul futuro energetico del nostro Paese. Nel dicembre del 2015 l’Italia ha partecipato alla Conferenza ONU sui cambiamenti climatici tenutasi a Parigi, impegnandosi, assieme ad altri 185 Paesi, a contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi e a seguire la strada della decarbonizzazione. Fermare le trivellazioni in mare è in linea con gli impegni presi a Parigi e contribuirà al raggiungimento di quell’obiettivo. È necessario, nel frattempo, affrontare il problema della transizione energetica, puntando anche sul risparmio e sull’efficienza energetica e investendo da subito nel settore delle energie rinnovabili, che potrà generare progressivamente migliaia di nuovi posti di lavoro. Il tempo delle fonti fossili è scaduto: è ora di aprire ad un modello economico alternativo.
Perché questo referendum?
Per tutelare i mari italiani, anzitutto. Il mare ricopre il 71 per cento della superficie del Pianeta e svolge un ruolo fondamentale per la vita dell’uomo sulla terra. Con la sua enorme moltitudine di esseri viventi vegetali e animali – dal fitoplancton alle grandi balene – produce, se in buona salute, il 50 per cento dell’ossigeno che respiriamo e assorbe fino ad 1/3 delle emissioni di anidride carbonica prodotta dalle attività antropiche. La ricerca e l’estrazione di idrocarburi ha un notevole impatto sulla vita del mare: la ricerca del gas e del petrolio attraverso la tecnica dell’airgun incide, in particolar modo, sulla fauna marina: le emissioni acustiche dovute all’utilizzo di tale tecnica può elevare il livello di stress dei mammiferi marini, può modificare il loro comportamento e indebolire il loro sistema immunitario.Ricerca e trivellazioni offshore costituiscono un rischio anche per la pesca. Le attività di prospezione sismica e le esplosioni provocate dall’uso dell’airgun possono provocare danni diretti a un’ampia gamma di organismi marini – cetacei, tartarughe, pesci, molluschi e crostacei – e alterare la catena trofica. Senza considerare che i mari italiani sono mari “chiusi” e un incidente anche di piccole dimensioni potrebbe mettere a repentaglio tutto questo. Un eventuale incidente – nei pozzi petroliferi offshore e/o durante il trasporto di petrolio – sarebbe fonte di danni incalcolabili con effetti immediati e a lungo termine sull’ambiente, la qualità della vita e con gravi ripercussioni gravissime sull’economia turistica e della pesca.
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