Per vivere nel caos di quest’epoca di privilegiati e di sottomessi, di ipergarantiti e di sfruttati, di chi fa della rendita il suo stile di vita, mentre il mondo è pieno di working poor e incapienti, diventa fondamentale la misura del reddito. Il discorso intorno al reddito chiama in causa la distribuzione delle ricchezze e la divisione della società. Qui si guarda al reddito come perequazione attribuita a quelle persone che, per cause indipendenti dalla loro volontà, ma conseguenti a precise scelte politiche, sono fuori dal mondo del lavoro per incapacità dei sistemi produttivi; mancato incontro tra offerta e domanda di lavoro; assenza di remunerazione per le attività socialmente necessarie in un sistema capitalistico-patriarcale; disconoscimento del tempo e del valore speso on line e sulle piattaforme digitali. Quest’ultimo aspetto è la novità che ha caratterizzato il cambiamento paradigmatico dell’economia a partire dal finire del secolo scorso. Un cambiamento è necessario e possibile. Il reddito deve essere di esistenza e autodeterminazione, nella forma di una misura di base e incondizionata, o almeno in quella minima garantita a tutte le persone che cercano di emanciparsi economicamente e socialmente. Va sempre tenuto conto, tuttavia, che il riconoscimento all’interno di una comunità, la partecipazione attiva e una recuperata dignità come forme dell’inviolabilità dell’essere umano, passano dal rifiuto di ogni forma di vita alienata

Nelle ultime settimane si sta discutendo molto intorno al cosiddetto reddito di cittadinanza. Le voci dei detrattori sono sempre più forti, tanto che è alle porte una riforma in senso peggiorativo.
La comunicazione mainstream, funzionale alla permanenza del potere nelle mani dell’establishment, puntualmente si accanisce su questo strumento di dignità sociale, che in realtà, in partenza, ha dato luogo a non poche ambiguità, sia da un punto di vista semantico, che per quanto riguarda la sua operatività.
Infatti, il reddito non è riconosciuto al cittadino in quanto tale, ma contiene in nuce diverse condizionalità. E’ quindi una sorta di sussidio di povertà dato non a tutti i cittadini, ma solo a quelli che rispettano determinate caratteristiche, riguardanti l’appartenenza ad un nucleo familiare disagiato economicamente. Di misure di stampo familistico, l’Italia ha fatto esperienza in questi decenni. Sovente sono state misure insufficienti e a tempo (reddito minimo di inserimento, reddito di inclusione), le quali non hanno mai preso in considerazione la singola persona, con le sue esigenze e il suo bagaglio culturale e professionale. Nel caso del reddito targato 5 stelle si è tenuto unicamente in conto dell’appartenenza alla famiglia, negando quindi la possibilità che il coniuge o i figli potessero emanciparsi dal percettore di reddito da lavoro (quasi sempre il maschio capofamiglia).
Il discorso intorno al reddito chiama in causa la distribuzione delle ricchezze e la divisione della società.
Nel linguaggio economico il termine reddito designa la ricchezza di una impresa o di una persona in un dato periodo di tempo, derivante da un’attività, o consistente in beni e servizi. Alla ricchezza poi concorrono anche il patrimonio e le rendite. Nel nostro caso, è importante l’approccio che si ha verso la misura. Qui più che al reddito come effetto di una produzione diretta si guarda al reddito come perequazione attribuita a quelle persone che, per cause indipendenti dalla loro volontà, ma conseguenti a precise scelte politiche, sono fuori dal mondo del lavoro. Innanzitutto per :
– incapacità dei sistemi produttivi;
– mancato incontro tra offerta e domanda di lavoro;
– assenza di remunerazione per le attività socialmente necessarie (quel lavoro gratuito di cura e assistenza alla base della riproduzione sociale) in un sistema capitalistico-patriarcale;
– disconoscimento del tempo e del valore speso on line e sulle piattaforme digitali. Quest’ultimo aspetto è la novità che ha caratterizzato il cambiamento paradigmatico dell’economia a partire dal finire del secolo scorso. Internet è diventato il terreno illimitato del fare impresa e del business.

Pertanto, vengono in considerazione il tempo e il valore.
Per i cattolici il tempo appartiene a Dio. Secondo i capitalisti il tempo viene regolato dai superiori interessi economici.
La grossa conquista del secolo scorso è stata quella di porre fine allo sfruttamento lavorativo: 8 ore per lavorare, 8 ore destinate al riposo, e 8 ore per lo svago. Nella pratica il tempo di non lavoro viene dedicato al consumo.
Oltre al consumo fisico, è quello dei contenuti che caratterizza l’epoca liquida. Il cittadino-lavoratore è un tutt’uno indistinto con il bisogno oggettivato. Abbiamo così la figura del consumatore bulimico.
Il valore. Chi è che predetermina il valore di un bene? La sua utilità e scambiabilità? Gli economisti classici sono partiti da M-D-M, valore d’uso e valore di scambio, sino ad arrivare alle aspettative e agli andamenti del mercato.
Il Novecento è stato contraddistinto, per lo più, da un capitalismo di tipo produttivistico, fondato sull’appropriazione del surplus (pluslavoro), e il cui fine era l’accumulazione infinita (la produzione per il consumo), che esacerbava le diseguaglianze, ma era comunque ancorato alla realtà.
Alla base dell’accumulazione vi era la ricerca di nuovi mercati, e quindi zone vergini da colonizzare, fino a che, ciclicamente le contraddizioni si palesevano, da qui la famosa definizione marxiana di “crisi di sovrapproduzione”.
La novità degli ultimi decenni è stata la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia. E’ venuto meno il ruolo regolatore dello Stato, ed a un capitalismo classico, si è affiancato un nuovo metodo di appropriazione indebita che chiamiamo capitalismo finanziario.
Capitali che investono su altri capitali, strumenti finanziari creati ad hoc, bolle speculative, titoli tossici, mercati secondari e non regolamentati…tutto ciò è stato alle origini delle crisi, del debito, e delle conseguenti politiche di austerity. I governi, esecutori della globalizzazione liberista, non hanno più sostenuto il welfare.
Da allora la povertà è cresciuta a dismisura in tutto il mondo. Se è vero che quella assoluta diminuita, oggi non basta più lavorare per vivere.
Sono aumentati i lavoratori sottopagati e i lavoratori poveri.
Il lavoro è sempre più discontinuo.La disoccupazione la fa da padrone. Governi e politici come il braccio armato del capitalismo.
La scelta è stata quella di accollarsi i debiti, aiutare imprese e banche e continuare con la socializzazione delle perdite.
Insomma, un sistema parassitario che concentra le ricchezze in poche mani, le cui propaggini sono cosi invadenti da determinare e condizionare le politiche pubbliche. Il valore del lavoro, in tutte le sue forme, viene annullato.
Nell’epoca del self-made man, dell’imprenditore di sé stesso, non contano le ore lavorate. La sussunzione riguarda non solo il lavoro tradizionale, ma soprattutto la conoscenza e le capacità intellettuali.
Affetti e relazioni sono diventati la nuova merce da cui trarre valore. I lavoratori della gig economy subiscono tempi e salari predeterminati dagli algoritmi
L’appropriazione dei saperi e dei diritti cognitivi, la condivisione dei contenuti, questa cooperazione da cui estrarre valore economico, sono i tratti salienti del capitalismo finanziario e della sorveglianza.
Per vivere nel caos di quest’epoca di privilegiati e di sottomessi, di ipergarantiti e di sfruttati, di chi fa della rendita il suo stile di vita, mentre il mondo è pieno di working poor e incapienti, diventa fondamentale la misura del reddito.
Il reddito deve essere di esistenza ed autodeterminazione, nella forma di una misura di base ed incondizionata, o almeno in quella minima garantita a tutte le persone che cercano di emanciparsi economicamente e socialmente.
Tutte le società hanno storicamente affrontato le povertà.
Gli aiuti venivano affidati agli enti religiosi e caritatevoli, cercando di non minare alla base quel sistema che persevera le diseguaglianze, che si chiami stato assoluto o monarchia, stato moderno borghese repubblicano o in forma presidenziale, ciò che non cambia è la differenza tra i pochi che stanno in alto e sono i detentori delle ricchezze mondiali, e i tanti che in basso subiscono le loro decisioni. Eppure tanti economisti nel tempo hanno posto il problema della distribuzione avanzando proposte.
Ad esempio Keynes nel 1930 affermò che lo stato delle conoscenze e dello sviluppo tecnologico avrebbe consentito in futuro di lavorare di meno, prospettando una settimana lavorativa di 15 ore.
Lo stesso presidente americano Nixon nel ’69 propose un reddito di base di 1600 dollari all’anno (gli attuali 10.000 dollari) per tutte le famiglie, ma i suoi consiglieri economici gli fecero cambiare idea, perché un tale progetto avrebbe minato le fondamenta del capitalismo, che fa proprio delle diseguaglianze la sua ragione d’essere.1
Tante sono state le sperimentazioni di reddito minimo o di base.
Dalla città di Washington, al Canada,fino a forme di reddito minimo garantito in Francia, Germania, Belgio, Olanda e Regno Unito.
Emblematico il caso dell’Alaska. Sin dal 1982 tutti i residenti (700.000 abitanti) ricevono un’erogazione incondizionata derivante dalla ricchezza generata dall’estrazione del petrolio. Questa varia ogni anno in ragione del rendimento (in media circa 2000 dollari l’anno2).
Per fare solo un paragone con la piccola Basilicata (circa 600.000 abitanti), dove esiste il giacimento di petrolio su terraferma più grande d’Europa, i suoi vari governatori han pensato bene di mettersi al servizio delle compagnie petrolifere, accontentandosi di royalties basse, invece di pensare ad una forma strutturale di finanziamento per i suoi cittadini.
Ricordiamo, che sino a pochi anni fa, l’Italia vantava un altro triste primato, essendo, insieme a Grecia ed Ungheria gli unici paesei europei privi di una forma di sostegno al reddito.
Eppure già nel ’96 la Commissione europea presieduta da Jacques Delors invitava i singoli paesi di dotarsi di tale strumento.
Numerose sono poi le risoluzioni UE al riguardo.
Ad esempio quella del 2000 che sollecitava il contrasto all’esclusione sociale attraverso il reddito minimo o quella del 2010 che ne indicava un importo corrispondente al 60% del reddito mediano.
Sempre nel 2010 è considerata povera una famiglia di due persone che vive con un reddito di poco inferiore ai 1000 euro al mese.
Per fare solo l’esempio della Francia, questo paese sa cosa vuol dire metter su famiglia (altro che l’ipocrisia nazional-familistica all’italiana).
Infatti, già dal 1988 è stato finanziato un reddito di inserimento che guarda i singoli al di sotto di una certa soglia, con ulteriori somme per l’affitto, cibo e vestiti,il riscaldamento e le cure, i trasporti3.
Familismo italico
In Italia sembra di vivere in un paese a conduzione familiare.
Infatti, non siamo andati oltre i bonus propagandistici a fini elettorali. Interventi finanziari per i quali sono stati spesi miliardi di soldi pubblici, ma mancanti di una visione d’insieme, e senza nessuno sguardo sulle condizioni sociali. Pensiamo agli 80 euro di Renzi, al bonus bebè, alle varie forme di tentato ricollocamento lavorativo (Naspi-reddito di inclusione).
La politica ha pensato bene di sussidiare le imprese.
La retorica è sempre la stessa: “il lavoro lo creano le imprese”, quasi a voler giustificare l’abbandono delle politiche sociali da parte dei poteri pubblici. Da questo punto di vista, sarebbe necessario un maggior intervento dello Stato, anche per far rispettare l’art. 41 Cost. :”L’iniziativa economica privata è libera ma non può svolgersi in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.La legge determina i programmi e i controlli opportuni perchè l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali), e le tante vertenze in atto, riguardanti crisi aziendali, delocalizzazioni ed elusioni fiscali sono lì a dimostrarlo..
Si tace sui miliardi regalati alle imprese, sugli incentivi e le detassazioni. Che impatto hanno avuto sul mercato del lavoro?
Anche in situazioni di pre crisi, abbiamo assistito al travaso di ricchezza dal lavoro al capitale.
Provvedimenti pro impresa sono stati la riduzione delle aliquote fiscali ed un insieme di legislazioni che, ad iniziare dal pacchetto Treu nel ’97, passando per la cd. riforma Biagi del 2003, fino al jobs act del 2014, hanno creato flessibilità e precarizzazione. Lavori poveri e atipici, la cui copertura salariale e durata, non sono in grado di garantire continuità lavorativa e contributiva, e quindi discontinuità di reddito. E poi sono arrivate le crisi: quella economico-finanziaria e la recente sindemica.

Soldi alle banche e aiuti alle imprese
Negli U.S.A nel 2008 il governo ha stanziato 700 miliardi di dollari per salvare le banche, diventati 5000 mila nel 2015.4
Le ripercussioni della crisi economica in Europa ha prodotto lo stesso tipo di scelte (747 miliardi di euro tra il 2008 e il 2016), con politiche di austerity ed interventi per fronteggiare debiti ed insolvenze.
Un vero è proprio sussidistan ha privilegiato il mondo delle imprese. La stessa Confindustria parla di 40 miliardi ricevuti nel 2018 (di cui 26 di aiuti alla produzione e 14 di contributi agli investimenti).5
Altri 20 miliardi nel 2019 e al reddito di cittadinanza solo 7.
Soldi che non sono serviti ad affrontare le tanti crisi industriali (dall’Alitalia alla Whirlpool).
Durante il lockdown pandemico, dei 112 miliardi stanziati, 53 sono andati alle imprese.6
Nonostante l’ausilio del reddito di cittadinanza (che nel frattempo è involontariamente diventato una sorta di reddito minimo, a causa dell’impossibilità di muoversi e cercare un lavoro), e di altri strumenti come il reddito di emergenza, e i bonus per determinate categorie, tantissime persone sono rimaste fuori da questi aiuti, perchè non rientranti in nessuna casistica o semplicemente perché lavoravano nel sommerso. Lavoratori irregolari e in nero.
E poi, finte partite iva, part-time involontari, prestazioni occasionali, lavori in somministrazione…tutte forme volte a celare rapporti di lavoro subordinato, e che per il fatto stesso di non essere corrispondenti al lavoro effettivamente svolto, hanno goduto solo di pochi spiccioli e per poco tempo da parte dei governi. La giungla degli ammortizzatori sociali non arriva dappertutto.
Ad oggi si parla di una lieve ripresa ma circa 6 milioni di persone (quasi il 10% della popolazione!) versano in situazioni di povertà assoluta e relativa. I lavori principali, nel secondo trimestre di quest’anno, parlano di un terzo con durata inferiore ad un mese, e gli altri due terzi inferiore ad un anno.
Per lo più sono lavori a tempo o irregolari: l’unico settore che non conosce crisi. Da controlli fatti durante i mesi estivi da parte di ispettorari del lavoro, NAS e Guardia di Finanza, su un campione di circa 8000 aziende ispezionate, sono state rilevate violazioni nell’85% dei casi.
Esse riguardavano, per lo più, violazioni in tema di sicurezza sul lavoro, mancato rispetto delle normative anticovid e violazione in tema di contratti di assunzione, inesistenti o non corrispondenti al monte ore di lavoro o alla tipologia professionale.7
Un vizio italico che non muore mai (ci ricordiamo dell’abuso dei famosi voucher?). E’ urgente un cambiamento.
Un cambiamento è possibile
La riduzione e distribuzione del lavoro come primo passo.
Ci sono paesi (Islanda, Nuova Zelanda) e realtà aziendali (nel Regno Unito, Francia, Spagna, i paesi nordici) che hanno sperimentato la giornata corta lavorativa (ad es. 3- 4 ore giornaliere), o la settimana corta.
Gli effetti migliorativi sulla produttività del lavoratore e per l’azienda sono stati conseguenti. A beneficiarne è stato soprattutto lo stato di salute psico-fisica. Nel 2019 in base ai dati dell’OCSE, l’Italia risulta essere il paese dose si lavora di più durante la settimana: 3 ore in più rispetto alla media UE di 30 ore (in Francia in media le ore settimanali sono 29, in Germania 26).8
All’opposto di questa visione, che richiede di lavorare meglio e distribuire il lavoro (“lavorare meno, lavorare tutti”) vi è l’eccesso di lavoro nei paesi asiatici o del Sud del mondo.
In Cina, sono documentati tassi di suicidio in aumento a causa del troppo lavoro. Sono poi noti quei meccanismi che creano subappalti a catena per le multinazionali di ogni settore – dall’abbigliamento, al lusso, fino al settore farmaceutico – nelle baraccopoli del sud globale. Al riguardo le tristi cronache raccontano di incidenti, spesso dovuti al mancato rispetto delle normative in materia di sicurezza, insalubrità degli ambienti e durata del lavoro. Con paghe da fame si perpetua lo stato di supremazia dell’Occidente ricco, che proprio sullo sfruttamento ha storicamente basato i suoi privilegi.
In piena pandemia è stato autorizzato il telelavoro.
Lo smart working, in diverse situazioni, invece di rendere più agile il lavoro, e farlo conciliare con le esigenze domestiche, è servito unicamente a ridurre i costi aziendali (i costi per gli uffici, gli affitti, le utenze aziendali), rendendo di fatto, continuamente reperibile il lavoratore, a causa dell’iperconnessione e tracciabilità, impossessandosi, dunque, del tempo libero.
Un impegno urgente delle istituzioni dovrebbe essere quello di far riconquistare una dimensione etica al lavoro.
Un salario adeguato al costo della vita.
E come conseguenza di scelte politiche sbagliate, ma anche della scomparsa dei lavori classici a causa del progresso tecnologico, la garanzia del reddito. Il reddito in forma garantita è lo scopo principale per attuare politiche redistributive delle ricchezza.
E’ ora di finirla con la retorica dei fannulloni e di gente che preferisce stare sul divano invece di cercarsi un lavoro qualunque.
Quando si parla di meritocrazia, in una società fortemente competitiva come quella attuale, andrebbe evidenziato, che se le condizioni sociali di partenza non sono le stesse, come si fa a rimuovere le diseguaglianze al fine di valutare effettivamente il merito?
Il nostro Paese è permeato da pregiudizi e da differenze territoriali e di status. Ad esempio la disparità dei redditi tra Nord e Sud.
Viviamo in una società atavica che preclude alle donne l’accesso a lavori dignitosi, corrispondenti alle proprie capacità, relegandole, secondo una visione patriarcale, al ruolo di custodi del focolare domestico.
L’assistenza e la cura sono appannaggio esclusivo delle donne.
Quando una donna ha la fortuna di lavorare i salari sono nettamente inferiori a quelli dei maschi.
I tassi di occupazione femminile dell’Italia sono tra i più bassi fra quelli dei paesi ricchi.
In alcuni casi, per farsi apprezzare le donne inseguono i modelli comportamentali dell’uomo al comando, imitandone le prerogative, in una sorta di mascolinizzazione del potere femminile.
Il reddito va inteso anche come forma di risarcimento, in quanto determinati principi costituzionali (art.1 il diritto al lavoro; art.4; art.35; art.36 una retribuzione adeguata e sufficiente a mantenere sé e la propria famiglia; art.37…) sono stati disattesi. Il welfare attuale è insufficiente a padroneggiare tutte le diverse situazioni. Appare sempre più frammentato, discontinuo e disomogeneo.
Tutti questi elementi concorrono a reclamare un reddito per l’esistenza. Il reddito da assegnare ai beneficiari, affinchè possano affrancarsi dalle schiavitù psicologiche e di fatto, deve assolvere molteplici funzioni. Quale strumento idoneo al superamento di ogni forma di ricatto deve possedere le seguenti caratteristiche:
– deve essere individuale;
– incondizioniato;
– deve avere il carattere della continuità;
– deve essere legato alla residenza;
Il criterio individuale, guarda la persona in sé, a prescindere dal fatto che faccia parte di una famiglia;
L’incondizionabilità vuol dire che non dovrebbe essere richiesto nulla in cambio, nessun obbligo per il fatto di percepire il reddito.
La continuità, implica che deve essere erogato senza limiti temporali, proprio perchè di base, al fine di servire all’essenzialità della vita.
Quanto alla residenza, viene intesa come ampliamento della semplice cittadinanza. Il fatto stesso di esistere e risiedere su territorio è requisito fondamentale per ricevere una somma di denaro, beni e servizi necessari per vivere.
Certo, assicurare un reddito di questo tipo comporta un notevole sforzo monetario. Questi punti, sono stati più volte evidenziati dai sostenitori della misura. A tal fine, le varie voci che concorrono ai sussidi, verrebbero unificate in un ammortizzatore sociale universale.
Quanto ai costi per finanziarlo le scelte possono essere molteplici: intervenire sulla fiscalità generale aumentando la progressività; adottare un sistema di tassazione congruo e adeguato ai grossi patrimoni e alle rendite; colpire le transazioni finanziare; introdurre una vera web tax (e non quella ridicola proposta del 15%), che freni, in qualche modo, lo strapotere dei giganti del web;inasprire le sanzioni per tutte quelle attività che devastano l’ambiente e mettono a repentaglio la salute. Un sistema di tassazione equo può fungere da volano per dare vita ad un percorso virtuoso, che mettendo al centro la distribuzione delle risorse possa coinvolgere i commons e in definitva riqualificare gli stili di vita e la società tutta. Solo una misura che guardi alla singola persona può venire incontro alle sue diverse esigenze,liberandola dall’assillo di sopravvivere alle dipendenze altrui. Anzi, allo stesso tempo, proprio la certezza di un minimo vitale, servirebbe a contrattare verso l’alto i salari, migliorando l’offerta lavorativa nel suo complesso. Il reddito minimo garantito si differenzia da quello universale incondizionato, per il fatto di restringere la platea dei beneficiari.
Infatti, verrebbe garantito non a tutti, ma solo a coloro che non dispongono di mezzi sufficienti per vivere, attestandosi su una cifra simbolica superiore alla soglia di povertà, ad es. il 20% in più.
Anche tale misura, non dovrebbe essere soggetta a determinate condizioni, perché dovrebbe traghettare incapienti e working poor verso la scelta di un lavoro soddisfacente ed adeguatamente remunerato.
In questo modo nessuno si riterrebbe più escluso od emarginato.
Il riconoscimento all’interno di una comunità, la partecipazione attiva, ed una recuperata dignità come forme dell’inviolabilità dell’essere umano, passano dal rifiuto di ogni forma di vita alienata.
Note
1Internazionale 20 agosto 2016
2S.Gobetti/L.Santini – Reddito di base – Tutto il mondo ne parla – 2018
3S.Gobetti/L.Santini – Reddito di base – Tutto il mondo ne parla – 2018
4F.Chicci/E.Leonardi – Manifesto per il reddito di base – 2018
5“Quanto ci costa Confindustria” – Left – 9 ottobre 2020
6“Quanto ci costa Confindustria” – Left – 9 ottobre 2020
7Il Manifesto – 20 luglio 2021
8www.tpi.it/opinioni/settimana lavorativa corta successo ovunque ma in Italia non attecchisce- 20-07-2021
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