In tutto il mondo gruppi di persone si sono organizzate per quartieri e strade per rendere meno difficile la vita a chi è più colpito dalla pandemia e dalle sue conseguenze. Ovunque si sono diffuse collaborazioni per sviluppare prototipi, liberi da brevetti e replicabili con stampanti 3D, di attrezzature fondamentali per far fronte all’espansione del Covid-19. In molti paesi europei si lotta anche per un reddito di base di emergenza. Non basta: questo per i movimenti è il momento per promuovere una campagna per un reddito di cura a lungo termine. Perché sono le attività di cura, spesso molto dure e sempre poco visibili, a garantire ogni giorno il benessere nostro e dell’intorno socio-ambientale in cui viviamo. È stato prima di tutto il pensiero femminista a svelare l’importanza che i tempi di cura e di riproduzione della vita hanno nel rendere possibile l’anelata vita che vale la gioia di essere sostenuta. Si tratta di mettere al centro la vita durante e dopo la pandemia per una società che va oltre il capitalismo
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Così come il coronavirus si riproduce esponenzialmente in Europa, uno slogan si è andato affermando: Io resto a casa. L’espressione l’ha usata per la prima volta il governo Italiano per rendere note le misure di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid19 su tutto il territorio nazionale. Poco dopo artisti, attori e influenti persone della cultura popolare hanno aderito alla campagna, il cui scopo era convincere gli italiani a minimizzare gli attraversamenti degli spazi pubblici. La campagna invita a ridurre al minimo il contatto sociale. Bisogna isolarsi e prendersi cura di sè, in modo da non contagiare coloro che sono i più deboli i quali, se attaccati dal virus, rischiano di far collassare i reparti ospedalieri di terapia intensiva e probabilmente, se sono anziani e/o soffrono di patologie croniche, morire. La stragrande maggioranza degli italiani ha acconsentito all’isolamento e i più lo hanno fatto non solo per la paura di ammalarsi ma anche per prendersi cura delle persone a loro più care. Restare a casa è diventato un rapido processo di coscientizzazione collettiva. È diventato senso comune l’idea che prendersi cura di sè implica prendersi cura della propria comunità, e in particolare dei più vulnerabili. Lo slogan è ad oggi lo stesso in tutto Europa, “me quedo en casa” in Spagna, “restez chez vous” in Francia, perfino in Inghilterra il primo ministro ha affermato dopo le prime titubanze: “You must stay at home“.
Non voglio proporre ingenuamente una lettura edulcorata delle scelte politiche che sono state fatte nei paesi occidentali in queste ultime settimane. Queste scelte dimostrano, prima di tutto, quanto sono impreparate le strutture socio-economiche moderne, anche le più avanzate tecnologicamente, dinanzi a una pandemia. Impreparate, malgrado i fenomeni pandemici sono considerati da alcuni rappresentanti delle elite mondiali il pericolo più preoccupante delle società contemporanee.
La maggior parte dei governi Europei hanno preferito, per volontà popolare potremmo dire, salvaguardare la vita all’economia. Resta vero che ci sono alcune e non irrilevanti eccezioni, come i primi tentativi del governo inglese di promuovere la strategia di immunità di gregge e le recrudescenze economiciste di politici repubblicani degli Stati Uniti che hanno chiesto ai vecchi statunitensi di immolarsi pur di non metter a rischio la crescita economica del paese. Resta anche tristemente vero che la narrativa, che invita a prendersi cura della collettività e dei più vulnerabili, ha nella pratica governativa delle falle di non poco conto. Stare a casa, è stato prima di tutto un invito rivolto al cittadino consumatore, agli studenti, ai commercianti e ai piccoli artigiani, ma non ai lavoratori delle attività produttive. In Italia, solo dopo aver di gran lunga superato in numeri di morti la Cina, il governo ha deciso di chiudere, seppur non tutte, le fabbriche. Eppure si sa e si sapeva che sono moltissime le categorie di lavoratori e lavoratici che sono a rischio di ammalarsi di Covid19. Questo problema lo avevano ben evidenziato quelle persone che in Spagna avevano, a pochi giorni dopo la dichiarazione dello stato di emergenza, esposto uno striscione che diceva: “la romantización de la cuarantena es privilegio de clase!” (La romanticizzazione de la quarantena è un privilegio di classe).
In secondo luogo agli anziani, i più vulnerabili al coronavirus, che vivono soli non si è dato prontamente il dovuto appoggio ed erano proprio loro a dover girare per le strade pur di procurarsi il minimo per sopravvivere nelle loro case, spesso solitarie. In Spagna alcuni anziani sono stati trovati abbandonati e morti nei letti delle residenze durante le disinfezioni per il coronavirus.
C’è poi il problema che la casa non è per tutti il focolare e un luogo ameno; anche per questo lo spazio privato senza uno spazio pubblico diventa facilmente una prigione. Forse non è un caso che gli unici che si sono ribellati ai decreti di isolamento sono stati i carcerati, i quali si sono visti cancellare il loro unico momento di incontro con chi li aspetta fuori, i loro cari.
Del resto che i luoghi dove viviamo non sono sempre gli spazi dove ci sentiamo a casa lo dimostrano le fughe notturne verso il sud d’Italia, qualche ora prima che un decreto ministeriale dichiarasse la Lombardia zona rossa, da cui non si sarebbe più potuto uscire fino a nuovo ordine. Per non parlare del fatto che restare a casa per molti può trasformarsi in un incubo, per troppi bambini e donne i luoghi domestici sono lo spazio della violenza e dell’abuso; o del fatto che molti una casa non ce l’hanno e sono costretti a fare ressa alle poche mense rimaste aperte ai tempi del coronavirus.
C’è chi poi la casa rischia di perderla ogni giorno: non è un caso che, alle prime avvisaglie dell’espansione del coronavirus, i movimenti spagnoli per il diritto alla casa si sono mobilizzati contro il rischio sfratti durante la pandemia.
Infine, molti hanno giustamente fatto notare che centinaia di migliaia di persone in varie parti del mondo ed anche all’interno delle frontiere europee si trovano nei campi per rifugiati, luoghi in cui le persone ammassate e in condizioni indegne non possono certo praticare la distanza sociale che si promuove con le campagne: io resto a casa.
Questo elenco che prova a dare visibilità a chi, a ragione, all’ingiunzione “resta a casa” non ha reagito bene, non è comunque esaustivo, per questo rimando alle acute analisi intersezionali di alcune femministe. Eppure, anche avendo a mente e nel cuore che l’obbligo di stare a casa impatta sproporzionatamente gruppi specifici, ma non per questo irrilevanti, di persone, mi sono proposto, in questo scritto, di concentrarmi sul potenziale trasformatore del diffuso senso comune secondo cui stare a casa è in questo momento la migliore cosa da fare. Del resto in questo momento confinati in casa sembrano esserci 1,7 miliardi di persone in 50 paesi diversi.
Cogliere l’opportunità che lo stato di eccezione per coronavirus offre per trasformare la società iniqua, patriarcale, coloniale e insostenibile nella quale viviamo è la sfida dei tanti attivisti che si stanno organizzando nei multiformi spazi virtuali. Questo è un momento propizio anche per molti influenti intellettuali di spicco, tra i tanti mi limito a segnalare Klein e Žižek.
La mia ipotesi è che la cura di sè, della propria comunità e della interdipendente vulnerabilità che ci caratterizza ha assunto una centralità importante in questi giorni di pandemia da Covid19; una centralità che offre la possibilità di abbandonare l’idea che la crescita economica serve a risolvere i problemi dell’umanità e che mettere al centro la cura ci permette di discutere finalmente qual è la vita che vale l’allegria di essere sostenuta, durante e dopo la pandemia. Per cogliere questa opportunità trasformatrice ci sono tante strade, però credo che la principale sia tramutare la campagna europea per un reddito di base di emergenza durante il dispiegarsi della pandemia, in una campagna per un reddito di cura a lungo termine. Prima di definire le ragioni di questa campagna, provo a definire l’importanza delle attività di cura necessarie al benessere delle società contemporanee.
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I tempi di cura, prima, durante e dopo la pandemia da covid191
Le attività di cura sono l’insieme delle azioni giornaliere che realizziamo per garantire il benessere nostro e dell’intorno socio-ambientale in cui viviamo. Tutte le organizzazioni sociali dedicano un’enorme quantità di tempo al lavoro necessario al sostegno e alla cura delle relazioni umane e delle risorse naturali che servono per la propria riproduzione. Questo flusso invisibile di ore di lavoro non pagato è ingente anche nelle società industrializzate e digitali. A titolo di esempio si consideri che a ogni ora di lavoro remunerato in Catalogna, una delle regioni più industrializzate della Spagna, corrisponde un’ora di lavoro non pagato2. Ovvero i Catalani nel loro insieme, per mantenere il benessere della propria società, hanno bisogno di tanto lavoro remunerato quanto di lavoro non remunerato. Eppure, questo flusso di ore di cura, pur se contribuisce al benessere dei suoi abitanti3, non gode della stessa dignità assegnata al lavoro remunerato di mercato; anzi si potrebbe dire, senza paura di essere smentiti, che mai come nelle società moderne tale lavoro è stato screditato.
Le politiche economiche e l’ideologia di mercato su cui si fondano tale politiche contribuiscono all’oscuramento del tempo dedicato alla cura di sé, della propria prole, dei propri genitori, dei propri anziani, dei propri amici, della propria casa, del quartiere dove si vive, della città o dell’intorno rurale dove si vive. Ciononostante, i tempi e la qualità di cura che diamo e riceviamo possono incidere molto sulla felicità di cui il nostro sè fa esperienza. Tale felicità, infatti, è fortemente condizionata dal grado di soddisfacimento delle relazioni che abbiamo, del tempo che trascorriamo con le persone a cui vogliamo bene e dello sforzo che dedichiamo alle attività che danno senso alla nostra vita e a quella dei nostri cari4.
La mancanza di dignità attribuita al lavoro di cura si spiega anche, o forse soprattutto, perché sono principalmente le donne che organizzano, strutturano e realizzano questo flusso di tempo che sussidia in maniera invisibile l’economia di mercato5. Un dato confermato da tutte le dettagliate inchieste esistenti sull’uso del tempo6. Non sorprenderà di conseguenza che è stato soprattutto il pensiero radicale femminista7 a svelare l’importanza che, i tempi di cura e di riproduzione della vita, hanno nel rendere possibile l’anelata vita che vale la gioia di essere sostenuta. Un’analisi che è stata poi arricchita ed estesa dall’approccio eco-femminista8
Anche in questo caso credo sia giusto fare una precisazione. Non voglio riprodurre un’idea ingenua dell’attività di cura che l’associa semplicisticamente all’amore e ai buoni sentimenti, sarebbe un ragionamento pernicioso ai tempi di una pandemia. La cura è spesso un lavoro duro, di grande sacrificio; dare e ricevere cura può in molti casi essere odioso, triste, nauseante e deleterio. Per questo, rivendico un approccio alla cura che nasce dalla prassi e dall’esperienza quotidiana di prendersi cura, che riconosce e legittima la vita come esperienza d’interdipendenza e vulnerabilità, che considera la vita senza dolore e libera da ogni tipo di obbligazione e sacrificio una delle promesse inafferrabili del mondo capitalista moderno. Una vita quest’ultima che si da in rarissimi casi e al costo di uno sfruttamento, un’ineguaglianza e un inquinamento sistemico.
La pandemia da Covid19 e il confinamento ha reso visibile l’importanza del prendersi cura di sé e della propria collettività. Il virus ha in qualche modo magnificato il tempo delle attività di cura. Basti pensare a quanto si sono dilatati i tempi delle attività di riproduzione, le file lunghissime che si creano per acquistare il pane e rispettare la distanza di sicurezza, la ripetuta pulizia delle proprie mani, i lavaggi più frequenti degli indumenti che indossiamo e i processi di sanitizzazione di tutto ciò (telefoni, chiavi, occhiali etc…) che rischia di essere stato in contatto con il coronavirus nelle rare uscite realizzate per procurarsi cibo e medicine. La cura dei propri bambini, i quali confinanti in casa 24 ore al giorno necessitano di un estenuante sforzo emozionale e fisico. Sforzo spropositato vista anche la mancanza di attenzione data ai bambini nel disegnare le politiche di confinamento. Infatti, solo dopo settimane di confinamento in Italia si discute della possibilità di concedere ai piccoli brevi passeggiate nelle vicinanze della propria casa. In queste settimane i genitori hanno visto dilatare a dismisura i tempi di cura, dovendo occuparsi dell’organizzazione di attività scolari, educative, ricreative, fisiche ed emozionali dei loro bambini e bambine in isolamento. Ciò ha aumentato lo stress degli adulti, responsabili del benessere familiare, a livelli spesso non sopportabili. Stress paradossalmente generato anche dalla bulimica attività virtuale propostaci per tenere le famiglie occupate, per intrattenerci mentre restiamo a casa. Per non parlare delle condizioni di cura di chi resta in casa con persone con diversità funzionali e necessità speciali, che possono generare una gestione della vita confinata ancora più complessa. Cosi come di quelle di centinaia di migliaia di persone che convivono in questo momento con i positivi da coronavirus non ospedalizzati.
In alcuni casi il lavoro di cura a cui non siamo emozionalmente preparati bisogna conciliarlo con il telelavoro forzato. Le difficoltà di conciliazione non sono da meno per tutti i lavoratori dei servizi di salute e produttivi ancora operativi che sono costretti durante il giorno a realizzare le loro attività remunerate in condizioni psicologicamente provanti. Ogni giorno accompagnati dalla costante paura di essere contagiati e di conseguenza contagiare i propri cari che li aspettano a casa nei loro luoghi di confinamento e dai quali si tengono a distanza prima di essersi dovutamente sanitizzare una volta rientrati a casa.
Encomiabile lo sforzo che molti psicologi stanno facendo nell’offrire gratuitamente i loro servizi di aiuto a tutti coloro che riescono a trovare la forza e il tempo per farsi accompagnare in questi momenti difficili. Il rischio, infatti, è che la condizione di cura “forzata” che siamo costretti a vivere aumenti tra l’altro il numero delle violenze domestiche contro le donne e contro i bambini, anche in case considerate luoghi normalmente sicuri. Laddove questo rischio si riuscirà ad evitare, è chiaro però che questa conciliazione tra lavoro di cura magnificato dall’epidemia da Covid19 e il lavoro di mercato, che non pochi debbono comunque realizzare, rischia di incidere negativamente sulle donne. Donne che non a caso sono più impiegate nella maggior parte delle attività che sono necessarie alla riproduzione della società ai tempi della pandemia. Infatti, nella vendita alimentare al dettaglio, nelle attività di sicurezza sociale, negli ospedali il numero di donne impiegate supera spesso il 70 per cento del totale dei lavoratori9.
Restare a casa, obbligati dallo stato di emergenza per pandemia da Covid19, ha quindi questo duplice risultato: da un lato mostra l’importanza delle attività di cura di un sistema sociale che mette la vita al centro, dall’altro mostra che mettere la vita al centro, in un sistema di mercato che nel suo normale funzionamento non se ne cura, è per molti insostenibile. Si amplifica così quello stato di “crisi di cura”10 che il femminismo radicale ha denunciato in maniera sempre più insistente negli ultimi anni. La crisi della cura, o crisi della riproduzione11, è il risultato di una pressione che l’espansione dell’economia capitalista esercita sulle attività che permettono il sostentamento della persona e danno senso alla vita. In un’economia in continua necessità di espandersi il tempo di cura e riproduzione confligge con i tempi della produzione. I tempi di cura sono scanditi e dipendenti dai ritmi dei processi fisici e psichici del sonno, della fame, della crescita e invecchiamento, della gravidanza e della malattia12. Il tempo del produttivismo entra in contrasto con il tempo di cura in quanto è sia disincarnato dai cicli giornalieri del corpo e dal ciclo di vita, sia sradicato dai tempi ecologici delle stagioni, della rigenerazione, dalla ricostituzione degli ecosistemi, dall’esaurimento delle risorse, dal riciclo e dallo sfacelo tossico della contaminazione. Il tempo della riproduzione è il tempo della disponibilità e della dipendenza perché fortemente condizionato dalle necessità di nutrimento, di supporto emozionale e di cura in senso lato, nonché radicato nella dimensione locale13. Questo contrasto indissolubile tra la necessità dell’espansione capitalista e la riproduzione della vita è il motivo della sua invisibilizzazione durante il normale processo di crescita del capitalismo mondiale. Invisibilizzarlo serve anche al suo tacito sfruttamento grazie all’alleanza del patriarcato e del capitale14.
La pandemia da Covid19 ha pero interrotto il normale processo di crescita dei mercati, ha rallentato il processo di sfruttamento e messo in scacco i tempi della produzione che appunto confliggono con le necessità della vita. I governi che hanno scelto, volente o nolente, di mettere al centro la vita hanno a poco a poco dovuto limitare le attività produttive per contenere l’espansione del coronavirus. In questi frangenti d’incertezza sul futuro socio-economico si è messo in moto un particolare tipo di solidarietà: la cura del comune e in comune ai tempi dell’isolamento. Si è cominciato cantando dai balconi, per esprimere la possibilità e la volontà di sentirsi insieme anche restando a casa. Un’azione che ha commosso milioni di persone nel mondo e ispirato cantanti di fama internazionale a cantare le lodi di questo primo atto di cura collettivo espresso dagli italiani. In Spagna, così come il coronavirus si estendeva esponenzialmente, i vicini si sono organizzati per quartieri e strade per rendere meno difficile la vita alle persone maggiormente a rischio e a quelle già contagiate. Da giorni si affacciano ai loro balconi ogni sera per esprime solidarietà e applaudire lo sforzo dei medici, delle infermiere e dei volontari del sistema sanitario. Internazionalmente si sono sviluppate collaborazioni di tecnici, ingegneri e professionisti per arrivare a sviluppare prototipi, liberi da brevetti e replicabili con stampanti 3D, di attrezzature fondamentali per far fronte all’espansione del covid19, in particolare si sono realizzati disegni e semplici schemi di produzione di maschere, visiere, sistemi di ventilazione e d’ossigenazione. Il risultato: si resta a casa ma ci si organizza in comune. Gli annunci delle multinazionali del commercio via internet, ciò che David Harvey ha definito l’economia netflix, ci sommergono ogni giorno con offerte di servizi semi-gratuiti. Annunci che sembrano emulare la locuzione resa famosa dai boss di gomorra: “sta’ senza pensiere”. Resta a casa, non preoccuparti di niente, goditi il nostro aiuto contro la noia, stai tranquillo che risolviamo noi la situazione. Il tentativo di approfittare dell’isolamento per individualizzarci ancora oltre e rilanciare presto la competizione capitalista è comprensibile. Per fortuna, però, non tutti si stanno abbandonando a questo invito all’indolenza; al contrario i più si sono trasformati in cittadini premurosi, stanno dando prova che la cura è sempre un processo di messa in comune e di agire in comune. Per questo una società che mette la cura al centro è una società che si ricostruisce a partire dai beni comuni.
Certo è che affinché queste attività di collaborazione e solidarietà prevalgano su interessi personalistici e spinte all’arricchimento personale di chi fa delle necessità altrui le proprie virtù economiche, bisogna che delle politiche che mettono al centro la vulnerabilità della vita si disegnino e si implementino quanto prima. Mettere al centro del sistema sociale la cura è una domanda che i collettivi femministi (e non solo) stanno articolando per attraversare la pandemia. L’obiettivo non è solo trovare strade per uscire dalla crisi; l’intenzione non è tornare alla normalità della crescita economica che rende invisibile e sfrutta le attività di cura e di riproduzione, ma di rendere visibile e praticare, per quanto possibile, durante la pandemia la società che si vuole realizzare una volta il rischio pandemico sia superato.
Si è capito fin da subito che mettere per davvero la cura al centro delle proprie preoccupazioni significa anche essere capaci di empatizzare e dare risposte a chi, oltre alla paura del contagio, inizia a soffrire la paura che genera la perdita del lavoro e quindi del salario; la paura di chi non avendo risparmi sa bene che presto non potrà far fronte alle spese di cibo, affitto, ipoteca, luce e gas e tutto ciò che può garantire la sopravvivenza. Sono molte le politiche che i movimenti sociali in Europa stanno promuovendo; in Spagna centinaia di collettivi e organizzazioni sociali hanno promosso il piano di shock sociale. Tra le tante misure previste c’è un reddito di quarantena universale e incondizionale. Un’ipotesi questa del reddito di base di emergenza che sta riscuotendo un diffuso sostegno anche al di là dei movimenti sociali che lo promuovono. Ed è di questo che ora passo a discutere tenendo a mente le questioni dei tempi di cura e riproduzione precedentemente discussi. Ci sono principalmente due processi in corso. Il primo si può semplificare attraverso l’ingiunzione: “resta a casa e consuma quello che puoi in isolamento mentre l’epidemia scompare e l’economia riparte”; il secondo si può declinare come: “resto a casa ma provo a rilanciare attività di solidarietà collettiva che si prendono cura della vita”. Se il processo di messa in comune della cura deve uscire vittorioso da questa pandemia, massima priorità bisognerà dare all’implementazione di un reddito base per tutte e tutti. Questo reddito di base però, per esprimere tutto il suo portato rivoluzionario, deve essere declinato come reddito di cura. Il reddito di cura è, infatti, il terreno comune su cui far convergere la miriadi di lotte sociali esistenti, lo strumento per ricomporre le parti che ora sono isolate.
Il reddito di cura per una società che va oltre le pandemie (e oltre il capitalismo)
Parlare di reddito di base può generare molte incomprensioni. Quindi è importante definire ciò che si sta discutendo. A tal fine mi riferisco alla definizione data dalla rete mondiale per il reddito di base: il reddito di base è un trasferimento monetario incondizionato (quindi a tutti i residenti di una certa nazione), il cui uso dipende completamente dalle scelte di chi lo riceve o di chi ne ha la potestà, volto ad assicurare le condizioni materiali di esistenza minime per condurre una vita degna. Il reddito di base non va quindi confuso ad esempio, con il reddito di cittadinanza erogato in Italia attualmente; il quale è, al contrario, un reddito condizionato; ovvero rientra nella categoria dei sussidi statali che dipendono dal livello del reddito del percettore (es. aiuto per le mense scolastiche, sussidio di disoccupazione di lunga data, sussidi per la casa, sussidi per la formazione etc…). La condizionalità è comunemente giustificata per evitare i comportamenti parassitari; si crede infatti che l’incondizionalità incentiva a tutti indistintamente alla pigrizia, all’indolenza a scapito di chi si adopera per produrre valore. Senza voler negare completamente il valore di questo senso comune, secondo cui l’inoperosità non andrebbe mai incentivata, senso comune reso egemonico nel mondo contemporaneo da un’etica del lavoro funzionale al produttivismo e all’insostenibile crescita economica ma che affonda le proprie radici in esperienze popolari di vari angoli del mondo; mi pare giusto far notare che i grandi processi di accumulazione del valore nelle dinamiche del mercato contemporaneo si realizzano in maniera sempre più consistente grazie ad attività non remunerate e fuori dai meccanismi contrattuali capitale-lavoro15. Si pensi ad esempio al valore generato da whatsApp, da Airbnb. L’incondizionalità è, al contrario, giustificata perché evita lo stigma sociale di percepire un emolumento indebitamente (ad esempio sentirsi chiamare fannullone o parassita per percepire il reddito di base), i processi di burocratizzazione che tutte le condizionalità creano (ad esempio devi dimostrare di non aver trovato lavoro negli ultimi dodici mesi ma di averlo cercato attivamente), di penalizzare chi cerca di integrare il reddito di base con altre entrate (ad esempio se superi un certo reddito perdi il diritto a ricevere la somma).
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le discussioni che dibattono sulla necessità o meno di un reddito di base. C’è chi, infatti, difende il reddito di base perché crede che il mercato non garantisce più un salario degno alla maggior parte della popolazione, e/o che lo sviluppo dell’automazione e l’uso produttivo dell’intelligenza artificiale potrebbe segnare la fine del lavoro salariato di massa. Ad esempio Mark Zuckerberg, principale azionista e direttore esecutivo di Facebook, è un sostenitore del reddito di base. Lui che conosce bene i portenti dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, che sa come usare dati e informazioni generati durante le più quotidiane interazioni sui media sociali per accumulare valore monetario senza dover ricorrere al lavoro salariato.
Altre discussioni assumono un carattere più filosofico-politico e seppur non escludono motivazioni basate sulle contingenze economiche si focalizzano sulla giustezza o meno di un reddito universale di base. Gli approcci liberali, repubblicani e social-democratici che lo giustificano fanno appello al diritto sociale alla partecipazione della comunità politica a cui si appartiene, e/o al diritto a godere di un certo grado di libertà al fine di realizzare la vita che si vuole vivere e alla quale si attribuisce senso. Il reddito di base è sostenuto, quindi, da uno spettro socio-politico molto variegato; attraversa classi sociali e posizioni politiche anche molto distanti. I liberali più radicali, diciamo pure i liberisti, propongono il reddito di base come politica atta a debellare definitivamente il languente stato sociale. Le posizioni liberali più moderate, invece, aspirano a semplificare le erogazioni statali svincolandole dal livello di reddito di chi percepisce il sostegno di base, ma non hanno l’obiettivo esplicito di eliminare altri servizi pubblici offerti dalle agenzie statali. Infine, le posizioni repubblicane e social democratiche si centrano sulle necessità di eliminare le disparità di reddito e patrimoniali sempre più inique nelle società neoliberali contemporanee attraverso un reddito di base capace di garantire una redistribuzione della ricchezza più efficiente ed efficace.
Seppure questi approcci sono evidentemente differenti per tradizione politica e per obiettivi, mi pare importante far notare che le posizioni liberali moderate e quelle social-democratiche e repubblicane condividono un punto fondamentale: tutte, infatti, si basano su un diritto astratto al reddito di base. Il reddito di base permette di garantire il diritto a poter godere di una vita degna, il diritto a vedere realizzata la propria idea di libertà e di senso. Certo si può discutere delle diverse concezioni di libertà che sono in gioco e si può convenire che determinate visioni sono più apprezzabili di altre eticamente; ciò non toglie che la disquisizione, quando non entra nei dettagli della fattibilità contabile del reddito di base, rimane su un piano di legittimità astratta che mette a confronto polemico diverse idee di libertà.
L’astrattezza non significa però mancanza di pragmaticità. Se i pionieri e i militanti del reddito di base non fossero stati pragmatici, non sarebbero riusciti a far diventare il reddito di base universale una proposta politica degna di essere discussa nelle diverse arene politiche mondiali. Negli ultimi anni l’intensificarsi delle campagne e dell’implementazione di vari progetti pilota16 hanno contributo, senza dubbio, a rendere il reddito di base la proposta che più consenso riceve tra le tante politiche messe in campo per poter superare la crisi epidemiologica da covid19 e affrontare l’accelerazione della crisi economica che da più parti già si vedeva venire. Solo per fare alcuni esempi. In Italia il reddito di base di emergenza è il fulcro della discussione politica lanciata dall’approvazione del decreto Cura Italia, il cui obiettivo è rispondere alle esigenze della sanità, delle famiglie e delle imprese italiane messe in scacco dalla diffusione del virus. La campagna europea per un reddito di base di emergenza ha superato le 130.000 firme. Il senato federale del Brasile ha approvato un reddito di base di emergenza per aiutare le famiglie a basso reddito ad affrontare la crisi che il Covid19 sta amplificando. In Spagna, la necessità di promuovere un reddito di base è ampiamente condivisa nei movimenti sociali; in particolare, la rete spagnola per il reddito di base pubblica quasi quotidianamente articoli che spiegano le ragioni del perché, mai come ora, sia necessario e possibile decretare un reddito di base incondizionale seppur inizialmente solo per superare la quarantena. In un articolo dal tono di sfida al governo spagnolo, alcune delle personalità più influenti del movimento spagnolo per il reddito di base fanno notare che ciò che ci insegna questa pandemia è che nessuna società può prescindere, anche nei suoi momenti più difficili, dal lavoro di cura e che senza una chiaro intervento del governo, capace di promuovere un reddito di base incondizionale, saranno le donne a pagare lo scotto maggiore di questa crisi. In effetti, le legittime richieste di un reddito di base, promosse da politici e accademici dall’alto profilo internazionale, guadagnerebbero in forza e credibilità se, anziché far semplicemente appello alla compassione verso chi non ha una rete di protezione per affrontare la pandemia e la crisi economica che verrà, riuscisse ad incarnare la proposta di un reddito di base universale nel pensiero femminista.
Un femminismo radicale che mette al centro la cura e la riproduzione della vita non può non rivendicare un reddito di base su un piano decisamente materialista. I movimenti: “per un salario per il lavoro domestico” e “per lo sciopero mondiale delle donne” sono insiemi di reti di femminismo di base che hanno deciso di lanciare una campagna per il reddito di cura. Una campagna che vuole essere una risposta sovversiva alla crisi dell’attuale sistema economico peggiorata dallo sviluppo della pandemia da covid19. La campagna per il reddito di cura parte, infatti, da un dato incontrovertibile: esiste un’enorme quantità di lavoro riproduttivo e di cura che contribuisce in maniera sostanziale al benessere delle persone in tutte le comunità politiche e qualsiasi siano le forme organizzative sociali che esse instaurano. Questo lavoro di riproduzione e di cura femminizzato è, nell’attuale sistema di mercato capitalista, il presupposto invisibile delle attività produttive. Il reddito di cura serve a riconoscere la centralità di tale lavoro e compensare coloro che questo sforzo materiale e psicologico ogni giorno, volente o nolente, fanno. Il reddito di cura, seppure si presenta come un reddito di base universale, non si basa quindi su un astratto diritto alla libertà di condurre una vita degna, non rivendica parte della ricchezza prodotta per poter partecipare in maniera libera al gioco sociale proposto dall’economia di mercato. A differenza degli altri approcci (liberali, repubblicani o social democratici), l’approccio femminista radicale non chiede un reddito in base a un diritto astratto a realizzare liberamente la vita che si ritiene degna di essere vissuta. Seppur non nega la legittimità di questo diritto, non rivendica un reddito per esplorare ciò che potenzialmente si può fare una volta il soddisfacimento delle condizioni materiali di esistenza è stato garantito, ma rivendica un reddito di cura per ciò che quotidianamente fa. Il problema dello stigma è completamente rovesciato, non chiedo un reddito pur non avendo contribuito alla produzione del valore sociale ma rivendico quella parte di valore sociale che generalmente è reso invisibile per essere più facilmente appropriato. I parassiti sono coloro che si appropriano indebitamente del valore che le attività di cura e riproduzione producono. Non è quindi una questione semplicemente nominalistica, è per visibilizzare la materialità degli atti di cura e riproduzione e la sua iniqua distribuzione tra i generi che è più corretto parlare di un reddito di cura più che di reddito di base.
Questo approccio si radica nelle lotte dei movimenti del femminismo che lanciarono la campagna del salario per il lavoro domestico nei primi anni Settana. Una campagna che prese forma a Padova nel contesto dell’operaismo italiano, ma che ben presto diventò uno movimento internazionale capace di visibilizzare il ruolo fondamentale del lavoro di cura che le donne relegate in casa erano costrette a fare per mantenere alta la produttività del lavoratore maschio delle fabbriche. Le protagoniste di quella campagna rifiutavano: la naturalizzazione delle attività domestiche e di cura del lavoratore maschio produttivo come attività prettamente femminile, la concezione secondo la quale quelle attività non erano da considerarsi lavoro, ovvero come attività produttiva di valore e benessere per la società17. Al contrario quel movimento di donne lottava per dimostrare che, il cuore pulsante e vivo della fabbrica sociale e dello sfruttamento che ne derivava, era la cucina18,19. Chiedere un salario per il lavoro domestico era chiedere al capitale di pagare un costo che non poteva pagare vista la mole di ore di lavoro che la riproduzione e la cura umana richiede. Riuscire a dimostrare l’inconciliabilità delle attività di cura con l’espansione dell’accumulazione capitalista e della mercificazione della vita. Si provò a mettere in crisi il capitale mentre, invece, l’emancipazione della donna, attraverso la partecipazione nel mercato del lavoro senza una redistribuzione più equa tra i generi delle attività di riproduzione e di cura e a fronte di un’espansione senza precedenti del capitalismo, ha generato quella “crisi di cura” che tanto preoccupa giustamente il femminismo contemporaneo.
La crisi di cura diventa evidente ai tempi della pandemia. La salute dei più vulnerabili e la riproduzione sociale diventa inconciliabile con la produzione e la crescita economica. Questa inconciliabilità la pagherà di nuovo il 99 per cento della popolazione se la risposta a questa crisi sarà la stessa data dopo la “crisi finanziaria” del 2007/2008. Se restiamo a casa partecipando acriticamente all’espansione dell’economia di netflix che ci porta a casa mascherine, guanti, cibo, film, educazione per i nostri figli, attività culturali, teatro e attività fisiche, ci ritroveremo alla fine di questa pandemia in un mondo ancora più iniquo e più insicuro. Se invece restiamo a casa ma partecipiamo nella costruzione di attività collettive che si prendono cura del proprio intorno e delle persone più vulnerabili senza farli sentire passivi, ci ritroveremo in un mondo più forte capace di far proliferare i beni comuni. Ora, che siamo immersi nelle nostre attività quotidiane di riproduzione, possiamo affinare le nostre capacità di cooperare, di prenderci cura di noi stessi e dei nostri cari per accompagnare i bambini, gli anziani e i malati nella riappropriazione della ricchezza sociale che gli appartiene. Per riuscire in questo obiettivo dobbiamo lottare perché il 99 per cento della popolazione non tema che alla fine dell’epidemia perderà la casa, il lavoro; dobbiamo riuscire a far si che tutti possano pagare le spese per cibo, affitto, scuola, luce e gas; dobbiamo ricordarci che ci sarà lavoro enorme di appoggio psicologico e materiale da fare per chi ha stretto i denti e ha continuato a lavorare in prima linea, per chi ha perso i propri cari e con i quali non ha potuto scambiarsi un ultimo saluto, per chi pur essendo guarito avrà delle conseguenze a lungo termine sulla propria salute. Per fare tutto ciò restiamo a casa e pretendiamo che si istituisca un reddito di cura. Questo è una grande processo di redistribuzione in cui chi necessità prenderà e chi può metterà.
Note
1. Ampi stralci qui riportati sono presi da un vecchio testo che scrissi nel 2012 insieme al mio amico e collega Federico Demaria per la rivista: Quaderni di Sabbia. Anno II, Numero 2.
2. D’Alisa G., Cattaneo C. (2012) Household work and energy consumption: a degrowth perspective. Catalonia’s case study. Journal of Cleaner Production Vol. 38,pp. 71-79.
3. Easterlin, R., The economics of happiness, 2004, Edward Elgar.
4. Kahneman, D., L’enigma dell’esperienza contro la memoria, 2010, in:
5. Jochimsen, M. e Knobloch, U., Making the hidden visible: the importance of caring activities and their principles for an economy, 1997, «Ecological Economics»: 20, p. 107-112.
6. Picchio, A., Decrescita, rendere visibili i costi per le donne. Pubblicato nel 2012 sul giornale dell’Università degli Studi di Padova.
7. Federici S. (2013). Revolución en punto cero. Trabajo domestico, reproducción y luchas feministas. Mapas, traficantes de sueños.
8. Salleh A. (2017) Ecofeminism as politics. Nature, Marx and the postmodern. Zed books. Gregoratti C. and Rphael R. 2020. The historical roots of a feminist “Degrowth”. Maria Mies’s and Marilyn Waring’s critique of growth. In Chertkovskaya E. Paulsson A. and Barca S. Towards a Political Economy of Degrowth. Rowman &Littlefield.
9. Ringrazio Nora Räthzel, Socilologa all’Università di Umeå in Svezia, per avermi segnalato questi dati.
10. Fraser, N. (2017). Crisis of care? On the social-reproductive contradictions of capitalism. In Social Reproduction Theory. Remapping Class, Recentering Oppression, edited by Tithi Bhattacharya, London: Pluto Press
11, Federici S. (2019). Social reproduction theory. History, issues and present challenges. Radical Philosophy 2.04. Disponibile online here (Ultimo accesso: 30 March 2020).
12. Mellor, M., Women, nature and the social construction of “economic man”, 1997, «Ecological Economics»: 20, p. 129-140.
13. Mellor, M., Relazione presentata alla 3ª conferenza internazionale della decrescita, sostenibilità ecologica e equità sociale, tenutasi a Venezia dal 19 al 23 del Settembre 2012. La sua presentazione è disponibile on line: http://www.sherwood.it/articolo/2016/video-3-conferenza-internazionale-sulla-decrescita
14. Dalla Costa M. and James S. (1971) Women and the subversion of the community. Disponibile online here (Ultimo accesso: 30 March 2020).
15. Chicchi F. and Leonardi E. in stampa. Rethinking Basic Income. Radical Philosophy.
16. Standing G., (2017) . Basic Income: and how we can make it happen. Penguin books.
17. Federici S. (2013) Revolución en punto cero. Trabajo doméstico, reproducción y luchas feministas. Traficantes de sueños.
18. Cox N. and Federici S. (1975) Counter-Planning from the Kitchen. Disponibile online qui.
19. Le riflessioni successive e i contributi dell’ecofemminsmo hanno dimostrato come i luoghi invisibilizzati del lavoro non pagato si estendono agli spazi dell’agricoultura di sussistenza, agli ecosistemi dei territori delle colonie e delle popolazioni indigene. Vedi Federici S. (2013) op. cit.
Giacomo D’Alisa è ricercatore “FCT postdoc” al Centro per gli studi sociali dell’ Università di Coimbra in Portogallo.
Sul concetto di basic income si è scritto molto. Si è dibattuto sulle matrici filosofiche e politiche.
Ma spesso ci si dimentica di sottolineare quell’aspetto che consente una definizione unica e precisa di reddito di base, ovvero di essere “reddito primario”, strumento di remunerazione di una vita oggi messa a valore (per il capitale) ma non riconosciuta socialmente e non strumento di mera assistenza. Ne consegue che il reddito di base deve essere per forza incondizionato e prescindere da qualsiasi attività svolta e dal qualsiasi ruolo sociale. Il Bin-Italia ha raccolto migliaia di firme per chiedere l’estensione dell’attuale reddito di cittadinanza condizionato e con accesso vincolato verso la totale incondizionalità e possibilità di accesso. Tutte le persone di buon senso dovrebber muovesi in questa direzione.
Se continuiamo a parlare di vari tipi di reddito (e ogni giorno si aggiunge una nuova denominazione), si fa solo confuzione. Reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, reddito di quarantena, reddito di cura…. No! Solo un reddito di base incondizionato, in grado di omnicomprendere tutte le forme della vita. Altrimenti, il nostro desiderio di avere non solo il pane ma anche le rose è subordinato alla ruolizzazione che ci da la gerarchia sociale, come fa anche giustamente notare, da un punto di vista femminista, Cristina Morini nel suo recente articolo su Il Manifesto
Caro Andrea,
effettivamente si è scritto molto sul reddito di base. Nelle varie letture fatte ho però dovuto notare che la posizione politico-filosofica di fondo che domina “rimane su un piano di legittimità astratta che mette a confronto polemico diverse idee di libertà.” Ovvero si rischia un consenso su di una proposta che fa ancor più attecchire l’egemonia (neo)liberale. Per questo mi è sembrato importante argomentare da un punto di vista materialista e femminista il perchè di un reddito incondizionale ed universale. La materialità della riproduzione e della cura ai tempi del Covid19 mi sembrava aiutasse a muoversi verso posizioni argomentative antagoniste. Parlare di attività di riproduzione e di cura no ha l’obiettivo di svalorizzare queste attività e non certo rinforzare la gerachia sociale patriarcale. Quest’ultima, infatti, tende a invisibilizzare queste attività; non è un caso che nelle società industrializzate e digitali questi lavori sono screditati, e considerati di livello inferiore. Il reddito universale di cura rivendica un reddito per il lavoro non pagato “che quotidianamente si fa”. La visibilizzazione e la dignità che quest’azione di redistribuzione monetaria realizza aprirebbe al contrario un dibattito politico-sociale su come si può realizzare una “redistribuzione più equa tra i generi (e le classi) delle attività di riproduzione e di cura”. Il reddito di cura per come lo propongo nel mio scritto è quindi un reddito primario nel senso da te descritto, in quanto è un riconoscimento di “un salario sociale legato ad una contribuzione produttiva oggi non remunerata e non riconosciuta”. Certo si rifersice esplictamente “solo” ad un pezzo della contribuzione produttiva sociale realizzata fuori dagli orari ufficiali di lavoro contrattuale. Ma, permettimi di dire, ad un pezzo quantitativamente e qualitativamente importante. Del resto seguendo ragionamenti a te cari e citando Chicchi e Leonardi ho fatto notare che “i grandi processi di accumulazione del valore nelle dinamiche del mercato contemporaneo si realizzano in maniera sempre più consistente grazie ad attività non remunerate e fuori dai meccanismi contrattuali capitale-lavoro”. Ti ringrazio quindi per il tuo commento, mi permette di evidenziare meglio quanto siamo vicini. Solo un cognitivismo materialista (lasciami passare per ora ciò che a prima vista sembra un ossimoro), infatti, ci permetterà una declinazione del reddito universale (di riproduzione e cura) capace di evitare le derive liberiste.
Riflessioni urgenti e necessarie più che mai. Un articolo da condividere subito.
Grazie Alberto
Le definizioni restringono e non aprono i concetti, l’intento del pezzo di D’Alisa è certo meritorio e interessante, ma penso – come Fumagalli – che reddito di base incondizionato sia più che sufficiente e chiaro, usiamo la creatività per ambiti più importanti che non il “nominare”
Caro Maomao comune,
mi dispiace che in fin dei conti trovi che il mio testo si crogiola in una pratica cara a molti di creare nuovi nomi per parlare della stessa cosa. Non era mia intenzione. Sapevo che rischiavo di cadere nel calderone dell’inflazione terminologica, infatti ricopio qui ciò che avevo scritto nel testo al fine di evitare tale giudizio: “Non è quindi una questione semplicemente nominalistica, è per visibilizzare la materialità degli atti di cura e riproduzione e la sua iniqua distribuzione tra i generi (e le classi) che è più corretto parlare di un reddito di cura più che (semplicemente) di reddito di base”.
Se hai la pazienza di leggere anche la risposta che ho scritto ad Andrea capirai che la mia intenzione non era solo nominare o evocare una nuova locuzione ,ma sostenere una campagna per il reddito universale di riproduzione e cura capace di non creare consenso intorno a narrazioni neoliberali del reddito di base che stanno (nostro malgrado) prendendo il sopravvento.
Una bella riflessione.
A mio avviso l’unico modo per evitare la deriva liberista a cui il reddito di base universale (o di cura se così lo vogliamo chiamare) rischia di andare incontro è che questo sia solo un complemento della disponibilità (gratuita ed incondizionata) di “servizi di base” che evitino, tanto per cominciare che
“il 99 per cento della popolazione non tema che alla fine dell’epidemia perderà la casa, il lavoro; dobbiamo riuscire a far si che tutti possano pagare le spese per cibo, affitto, scuola, luce e gas; ”
La soluzione infatti sta nel rendere effettivamente gratuita in modo incondizionato la disponibilità di quantità vitali di acqua, gas, luce…. ma anche di mobilità, telecomunicazioni, ecc….
E questo si può ottenere subito “caricando” sulle quantità eccedenti quelle vitali il costo di quelle vitali (che così rimane a carico di chi quelle quantità se le può permettere perchè “ricco”) ed in prospettiva e/o per quelle per le quali questo approccio non sia perseguibile, tramite una sostanziale demercificazione della produzione di questi servizi, facendoli rientrare nell’ambito del “lavoro di cura” (ovviamente messo a disposizione gratuitamente) di tutti e di ciascuno.
Il discorso è ovviamente più ampio e complesso, ma credo che l’idea di fondo sia chiara: la soluzione stà nel ridurre la centralità del lavoro retribuito (in tutte le sue forme) e del reddito che da esso deriva. Spezzare cioè la relazione DO UT DES che è alla base del pensiero dominante.