Se davvero quello che deve cercare di fare un buon fotografo è provare a mettere sulla stessa linea di mira il cuore, la mente e l’occhio, come sosteneva il più autorevole dei pionieri del fotogiornalismo, Henri Cartier-Bresson, “Plaza de la Dignidad”, la mostra di Luca Profenna sulle rivolte popolari cominciate nello scorso autunno in Cile, ne è un gran bell’esempio. Non lo testimoniano solo gli scatti, la potenza dei contrasti e la profondità dello sguardo. Lo spiega, in modo dettagliato, anche questa ampia intervista che ci restituisce un quadro di straordinario interesse e piuttosto esaustivo su quel che è avvenuto – e avviene, malgrado la pandemia e la spietata repressione del governo di Sebastián Piñera – in un paese dove le istituzioni e ogni apparato dello Stato restano pesantemente avvinghiati alla cultura politica della macelleria di Pinochet. Quasi cinquant’anni dopo il bombardameno della Moneda e il golpe che diede vita al primo grande laboratorio del liberismo dei Chicago Boys, il popolo cileno è chiamato ad abrogare la costituzione nata nel tempo delle torture. Un passaggio storico essenziale, sebbene non possano certo essere i referendum a cambiare in profondità la società di un paese segnato da una tale polarizzazione e da vicende sanguinose e drammatiche come quelle che hanno segnato il Cile. Non a caso l’attuale governo, regolarmente eletto, affonda ancora profonde radici nella storia degli orrori passati. Nell’ottobre dello scorso anno, tuttavia, è venuta alla luce tra grandi rivolte di piazza una ribellione anticapitalista e antipatriarcale che ha già cominciato a costruire mondi nuovi, dalle centinaia di assemblee popolari dei quartieri cittadini fino alle zone desertiche del nord e al territorio patagonico dei Mapuche. È certamente lì che la speranza di far rivivere il sogno affogato nel sangue di Salvador Allende, quello di cambiare davvero, sta forse cominciando a germogliare
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Si è conclusa da poche settimane la prima parte del tour della mostra fotografica dedicata alle rivolte popolari in Cile: le foto di Luca Profenna hanno girato tutta l’Italia grazie all’esposizione “Plaza de la Dignidad” organizzata da Chile Despertó Italia a cura di Fabiola Vargas. Arrivato in Cile a gennaio, e bloccato in Bolivia per oltre due mesi dal lockdown, a maggio Luca è tornato in Italia con i suoi scatti e i suoi racconti. A un anno da quegli avvenimenti, e con il referendum costituzionale del 25 ottobre alle porte, ripercorriamo assieme a lui le storie, i volti, e l’affermazione della dignità di quei giorni.
“La Revolución está en la calle” si legge in un cartello che hai fotografato. La tua mostra ci permette di vivere quelle giornate di insurrezione anche qui. A un anno dal 18 ottobre, il giorno dell’inizio della rivolta, cosa è cambiato in Cile?
Mi viene da dire, in questo momento, che in Cile non sia cambiato nulla. La repressione dei mesi scorsi, nonostante la pandemia, è stata durissima. A causa delle diverse leggi del governo Piñera, in particolare per le restrizioni imposte con il coprifuoco nelle diverse città, manifestare dissenso per le strade è stato davvero difficile. Le violenze della polizia e dell’apparato statale non sono mai cessate.
Nei movimenti, invece, da ottobre a oggi, si è assistito a un grande avvicinamento da parte di quei pezzi di società che, in un primo momento, erano rimasti alla finestra. Proprio perché in questi mesi di pandemia il governo non ha fatto niente, queste persone si sono avvicinate alle vertenze dei movimenti.
Dai primi giorni di ottobre, il coprifuoco imposto in alcune città, Santiago, Antofagasta, Valparaíso, Temuco e altre, è terminato. La gente è tornata subito nelle piazze per organizzare iniziative come quella di pochi giorni fa, un presidio davanti al tribunale di Santiago per chiedere la scarcerazione di tutti i prigionieri politici. Oggi la partecipazione ai diversi cabildos è davvero enorme e il fronte del “Sí yo Apruebo“, in vista del referendum, è sempre più numeroso.
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“Solo il popolo si prende cura del popolo”, è stato gridato. Quanto sono servite queste lotte a ricostruire legami sociali e di comunità tra le persone?
Quando sono arrivato in Cile ho visto molte assemblee, c’era sempre grande partecipazione. Le persone sono riuscite a costruire in breve tempo delle comunità solide, mettendo su qualcosa di simile a delle famiglie vere e proprie per riempire i tanti vuoti lasciati dallo stato. Tornato in Italia ho raccontato tutto questo ad alcune/i compagne/i cilene/i che non tornavano lì da diverso tempo. Ho visto in loro uno stupore sincero, non riuscivano a immaginare di poter trovare un Cile così unito. Ecco, la risposta è proprio qui.
A ottobre, quando tutto è iniziato, nella società cilena si è creata una sorta di comunità reale. Le persone hanno iniziato, pur con molte differenze, a dialogare, a guardarsi, a parlarsi, non soltanto nei cabildos, le assemblee nei barrios populares, ma anche nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nei posti più diversi. Tutto ciò ha segnato per il Cile un fatto storico, non esiste più “un” movimento.
Il popolo si è fatto davvero carico delle tematiche che prima erano prerogativa esclusiva dei movimenti. La sostenibilità ambientale, la lotta contro la repressione, il femminismo, i diritti, il welfare, la sicurezza sul lavoro: tutti hanno preso consapevolezza che il problema è il capitalismo, è uno Stato violento legato ancora al pinochettismo.
Nelle piazze non c’era persona che non ti chiamasse hermano. Finite le assemblee, comunque, si rimaneva tutti insieme. C’erano le mense autogestite, si dormiva assieme, insomma, c’erano delle pratiche di comunità che in Italia difficilmente riusciamo a vedere. Forse il confonto più veloce che si può fare è quello con la Val di Susa, ma anche qui il paragone non regge molto.
In Cile è il popolo che aiuta il popolo. Anche dopo l’esplosione della pandemia le persone hanno messo in piedi sempre più le ollas comunes, le mense popolari organizzate in strada, per distribuire gratuitamente il cibo a chi ne ha bisogno. “Noi stiamo qui e non ce ne andiamo”, dicevano. È proprio nella strada che si sono creati i veri meccanismi di autogestione, mutualismo e solidarietà.
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Come funzionano le forme di welfare alternativo?
Nel periodo tra aprile e maggio, a causa della pandemia e del disinteresse del governo, le persone hanno cominciato a chiedere all’AFP (sistema privato di microimprese di amministrazione dei fondi pensione) di poter prelevare i propri fondi pensionistici per far fronte alle difficili esigenze del momento. Dopo grandi tensioni con il governo, si è ottenuta la possibilità di poter ritirarne solamente il 10%. Parliamo dei risparmi della gente, non sono soldi dello Stato, quelli. Questo ci fa capire bene come sia oggi lo stato sociale in Cile.
D’altra parte, le persone si sono organizzate dal basso con queste mense popolari, ormai delle vere e proprie istituzioni sostitutive alle non politiche di welfare governative. Un’altra pratica legata al mutuo sostegno e a una sorta di ripresa collettiva dei mezzi di produzione sono gli espropri: pratiche di massa e/o non di massa, diffuse, radicali e radicate dentro tutte le realtà cittadine, da Antofagasta a Temuco, da Santiago a Valparaíso.
Queste azioni sono svolte quasi sempre in contesti pubblici, legate a appuntamenti di piazza e hanno come obiettivi le grandi multinazionali, le catene di grossi supermercati. Molta merce viene redistribuita gratuitamente all’interno dei barrios o, in alternativa, viene venduta a prezzi bassissimi. Gli espropri a cui ho assistito non sono altro che un tentativo, dal basso, di andare a colmare bisogni essenziali collettivi, laddove lo Stato cileno latita.
Le donne e i movimenti femministi sono stati determinanti nell’organizzare le lotte?
I movimenti femministi in Cile sono maggioritari in termini non solo numerici, ma soprattutto nelle pratiche, nelle tesi, nel discorso pubblico. Non è un caso che proprio in Cile sia nata la performance femminista più riprodotta al mondo, realizzata dal collettivo Las Tesis, quattro attiviste di Valparaíso che hanno come obiettivo quello di portare le tesi femministe (da qui il nome LasTesis) in ambito artistico culturale. Non è un caso che in Cile nel 2020 la legge vieti ancora l’aborto e che, solo nel 2017, si siano registrati quasi 70 femminicidi (ogni mese in Cile 6 donne vengono ammazzate da un uomo). Dall’inizio della protesta a oggi, si sono verificati più di 3000 abusi da parte dei Carabiñeros a donne e ragazze.
I coordinamenti femministi sono tantissimi, dalla Coordinadora Feminista 8 de Marzo a Ni Una Menos Chile. Le compagne occupano spazi sociali e sono le donne a tenere le assemblee organizzative nelle università e nei cabildos. Anche per quel che riguarda le mobilitazioni, la Primera Línea è composta soprattutto da donne e ragazze.
Prima dell’ottobre 2019, i primi moti rivoluzionari ci furono nel 2015, organizzati dalle studentesse universitarie. Sono state le donne a farsi carico delle proteste, a portare contenuti, a scrivere appelli e a mettere in piedi coalizioni sociali dal basso. In Cile e nel mondo, il patriarcato è strettamente correlato al capitalismo, questo le compagne l’hanno ben capito. Non si può distruggere il capitalismo senza distruggere il patriarcato.
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Tra il 18 marzo e il 7 luglio sono state arrestate più di 90 mila persone, il doppio delle detenzioni registrate durante le rivolte di autunno. Quanto hanno favorito la repressione la pandemia e il confinamento?
Nel Sud America gli esempi più lampanti sono la Bolivia e il Cile. Qui i governi Áñez e Piñera, pur avendo una considerazione della pandemia in linea con la destra sovranista mondiale, hanno sfruttato l’occasione per attuare un vero e proprio esperimento sociale per controllare e stroncare le proteste. Non solo i toque de queda, le misure sul coprifuoco, imposti in tutte le città da aprile-maggio, ma qualsiasi forma di aggregazione, fisica e non, è stata repressa con il sangue e gli arresti. Da maggio a luglio, nonostante non ci siano state grosse manifestazioni nelle piazze, sono state arrestate circa 20.000 persone. Il 15 luglio duecento persone sono scese a protestare a Santiago, tutte e duecento sono state arrestate.
Interessante è che Piñera, durante i primi mesi di pandemia, non ha fatto nulla per contrastare la diffusione del coronavirus. Solamente i movimenti sociali, con l’emersione dei primi casi di contagio, hanno cominciato a organizzarsi e a distribuire mascherine e a disinfettare i luoghi pubblici. In poche parole, i movimenti femministi, la Primera linea e altri si sono sostituiti al governo e hanno sensibilizzato il popolo alle misure di prevenzione da mettere in atto per contrastare la diffusione del virus. Guarda caso a maggio, visto che le proteste non davano cenni di arresto, il governo ha deciso di mettere in atto le procedure di coprifuoco.
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“Quanto è Mapuche non è una razza, ma un modo di intendere la vita di tutti gli esseri e le cose”, abbiamo letto su un documento stilato nello scorso agosto a Curacautín. Cos’è cambiato oggi per il popolo Mapuche?
I Mapuche sono un popolo, tanto è vero che si definiscono come nazione. Non si identificano all’interno di uno Stato, né in Argentina né in Cile, dunque non credono certo ai ministeri e alle imposizioni del governo cileno. Sono totalmente avulsi da queste ottiche statali. É proprio questo star sempre fuori dalle dinamiche politiche cilene che rende questo anno particolare.
Cosa è cambiato? Da ottobre del 2019 il popolo Mapuche è tornato in qualche modo protagonista anche delle vertenze nazionali. Questo popolo negli anni ha subito tutte le violenze che il popolo cileno sta subendo ora, da circa trenta – quarant’anni. Il popolo Mapuche subisce violenze dalla polizia sistematicamente da secoli, è stuprato e violentato dalle compagnie private, perde ogni anno diritti e terreni. Sempre più sono perseguitati e incarcerati. Se non si conosce il passato è difficile spiegare questo, ma per la prima volta nel 2019 i Mapuche sono diventati un simbolo di lotta per i movimenti cileni e sono parte integrante delle rivolte.
I Mapuche hanno un concetto di città che non è come quello che intendiamo noi, loro vivono nelle comunità. Questo crea un cortocircuito con il contesto capitalista. Da secoli le grosse multinazionali vogliono acquistare i lotti di proprietà di queste comunità. Ma qual è il problema? I documenti che attestano la proprietà dei terreni si tramandano da secoli tra le generazioni, ma dal punto di vista formale hanno un valore pari a zero. È il capitalismo più sfrenato a servizio dello Stato.
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La nomina di Victor Perez a ministro degli interni ha aperto le porte alle organizzazioni suprematiste bianche di estrema destra come l’APRA (Associazione di Pace e Riconciliazione dell’Araucanía). Quanto sono state lasciate libere di agire dalle forze dell’ordine cilene?
Viktor Perez è stato l’alcalde della Los Angeles cilena quando Pinochet era al governo. Era visto un po’ come il suo delfino. È figlio della politica fatta dai paramilitari e dagli apparati legati alla destra pinochettista. Guarda caso, il secondo giorno dall’entrata in carica come ministro dell’interno, Perez decide di andar a far visita a Temuco, nel cuore della terra dei Mapuche. La stessa notte, delle brigate paramilitari di estrema destra iniziano ad aggredire le comunità lì presenti. Non è un caso, è un preciso attacco politico.
Tutte le grandi ribellioni recenti possono essere intese come l’avvio di un processo di trasformazione strutturale?
Il 25 ottobre in Cile si andrà a votare. Questa votazione è solo una concessione da parte del governo che va letta come un tentativo di arresto a questi mesi di rivolte. Inizialmente il referendum avrebbe dovuto limitarsi alla scelta di cambiare o meno la costituzione di Pinochet ma non si diceva chi avrebbe dovuto farlo. Per questo i movimenti hanno voluto un secondo quesito referendario sulla composizione dell’organo che deve cambiare il testo.
È la prima volta che il popolo ha la possibilità di eleggere i rappresentati di un’assemblea costituente. Non saranno partiti o politici di professione, nel caso vinca il doppio Sì, a cambiare il paese, lo farà la gente. In questo periodo si è cominciato a parlare, come negli Stati Uniti con il movimento Black lives matter, di decostruzione dell’apparato dei carabineros. Lo si vuole smantellare completamente. Uno dei problemi più gravi in Cile sono le radici ancora ben piantate nel pinochettismo. I carabineros sono l’unica élite per cui quello che è privato per tutti, per loro è pubblico. La sfida per i movimenti sarà quella di portare il modello dei cabildos nello Stato centrale.
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Ma il 25 ottobre può davvero cambiare l’ordine delle cose?
Per i movimenti cileni la risposta è ovviamente no. Tutti i movimenti andranno a votare “Sì, yo apruebo” due volte, alcuni facendo anche la campagna referendaria, ma nessuno crede ai cambiamenti che potrebbero apportare questo governo e i referendum in generale. Il referendum è solo un processo. Dal giorno dopo, le persone saranno nuovamente nelle piazze. La fiducia negli apparati statali è pari a zero.
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