Attraversare la Palestina, in primavera, è una straordinaria e terribile esperienza del cuore. I ricordi di passate stagioni di lotta, speranze tradite e dolore si accavallano disegnando, villaggio dopo villaggio, il ritratto insanguinato di una esistenza intollerabile. Eppure, ogni giorno, da un giardino fiorito, da una pietanza preparata con cura, da un bambino che gioca da solo o da uno sguardo che racconta la profondità di una resistenza impossibile la vita dei palestinesi riemerge. E racconta l’impossibilità di cancellarla dai cuori di mezzo mondo

Ogni viaggio in Palestina è un’esperienza che trasmette sofferenza, bellezza, allegria, voglia di saperne di più, interrogativi, contraddizioni. Succede ancor più quando si passa dal territorio israeliano a quello palestinese. Questo viaggio comincia dalla terra diventata israeliana nel 1948: Jaffa, quasi un sobborgo di Tel Aviv, una cittadina sul mare, che adesso è affascinante, un luogo di artisti.
Nabila
Il pescatore di Bassa, uno dei 540 villaggi distrutti nel 1948; il poeta di Birwa, il villaggio di origine di Mahmoud Darwish e il pittore di Saghara, il villaggio di Naji Al-Ali: sono i protagonisti di tre libri per bambini, con bellissimi disegni, scritti da Nabila Espanioly, una donna palestinese che vive a Nazareth, un’amica di lunga data. Ci incontriamo brevemente il 9 aprile, il giorno delle elezioni israeliane. Su una grande terrazza sulla collina, con un bel panorama di Nazareth davanti, è un ritrovarsi affettuoso, pieno di ricordi del tempo in cui ci siamo conosciute e abbiamo lavorato insieme. *
Era il tempo della prima Intifada, il tempo delle donne in nero, la protesta silenziosa che importammo da Israele in Italia e si diffuse poi in tutto il mondo. Ed era il tempo di time for peace, con la catena umana che abbracciò le mura di Gerusalemme, il tempo della lotta e della speranza. In trent’anni le cose sono molto cambiate, non per il meglio… Nabila è sempre molto attiva e piena di energia, mi racconta l’indefesso lavoro per le elezioni, su internet e whatsapp ma anche porta a porta, andando a cercare le persone conosciute fino all’ultimo minuto per convincerle a votare.
Il giorno del voto
Parla della difficilissima situazione politica, non ha molte speranze sui risultati, anche per la divisione del partito unitario di sinistra palestinesi /israeliani: una divisione causata da motivi più personalistici che politici. Adesso ci sono i nazionalisti, Balad, e Hadash-Ta’al. La divisione è un argomento in più per molti palestinesi, per non voler votare, anzi è stata fatta una campagna anti-voto. Il dubbio che non serva a niente avere rappresentanti nella Knesset, il Parlamento israeliano, è diventato sempre più forte dopo il varo della legge costituzionale sullo Stato nazione, che riconosce piena cittadinanza solo agli ebrei. D’altra parte, la sinistra “tradizionale” è praticamente inesistente: il Labour party e Meretz sono anch’essi di orientamento sionista. La parola “sinistra” è ormai quasi un insulto.“Pensa – mi dice – che qui considerano un’alternativa “moderata” a Netanyahou, il partito Blu e bianco di Gantz, un generale che in vista delle elezioni si è pubblicamente vantato degli oltre 1000 palestinesi uccisi a Gaza nel 2014”. Per screditarlo, certa stampa e certi politici hanno detto che se vincerà, farà il governo con gli arabi.
Il giorno dopo il voto, i risultati danno ragione al suo scetticismo.
Nella sede di Al-Tufula, l’associazione di Nabila che si occupa di bambini, in un un grande palazzo di quattro piani la trovo davanti al computer con i risultati. Conta tristemente l’avanzata della destra estrema, religiosa e non. Quelli con cui Netanyahou proverà ad allearsi per formare il nuovo governo.
Con il pieno appoggio di Trump, Netanyahou si è presentato in campagna elettorale prima con la legge sullo Stato nazione ebraica, poi con la dichiarazione di sovranità israeliana sulle Alture del Golan e infine con la promessa di annessione di parte della Cisgiordania, probabilmente la zona C, quella che sembra far parte dell’accordo del secolo (century deal) che Trump ha annunciato da tempo.
E’ una situazione apparentemente senza sbocco e sempre peggiore per la popolazione palestinese, sia in Israele che in Cisgiordania e a Gaza. A Gerusalemme, intanto, continuano gli espropri, le demolizioni e l’espulsione dalle case.
L’alleanza di Netanyahou con la destra estrema significherebbe un via libera ancora maggiore ai coloni, che vogliono in cambio l’annessione e qualche provvedimento legislativo che gli eviti la galera. Il Labour è crollato, ha perso 13 seggi. Il 50% degli arabi non ha votato. Ci sono 140.000 palestinesi di là dal muro: la questione demografica è essenziale. Per questo adesso la politica israeliana è il trasferimento forzato dei palestinesi, si chiederà probabilmente di annettere a Gerusalemme le colonie di Gush Ezion a sud, Maale Adumim ad est, Givat Zev a nord: 160.000 coloni, per formare la Greater Jerusalem. Gli israeliani, che già controllano l’87% della terra, delle case, del commercio e di moltissime altre cose, diventerebbero l’80% della popolazione, i palestinesi il 20.
Risultati elettorali
La tabella mostra i risultati come da statistiche ufficiali.
Partiti | Voti | Voti (%) | Seggi | Diff. |
Likud | 1 140 370 | 26,46 | 35 | +5 |
Blu e Bianco | 1 125 881 | 26,13 | 35 | – |
Shas | 258 275 | 5,99 | 8 | +1 |
Giudaismo Unito nella Torah | 249 049 | 5,78 | 8 | +2 |
Hadash-Ta’al | 193 442 | 4,49 | 6 | 0 |
Partito Laburista Israeliano | 190 870 | 4,43 | 6 | -13 |
Yisrael Beitenu | 173 004 | 4,01 | 5 | -1 |
Destra Unita | 159 468 | 3,70 | 5 | -3 |
Meretz | 156 473 | 3.63 | 4 | -1 |
Kulanu | 152 756 | 3,54 | 4 | -6 |
Lista Araba Unita-Balad | 143 666 | 3,33 | 4 | -3 |
Altri | – | 8,51 | – | – |
Voti invalidi o schede bianche | 30 764 | – | – | – |
Totale | 4 337 284 | 100,00 | 120 | – |
C’era una volta Lifta
Una natura bellissima, i resti di una florida comunità palestinese, vicina a Gerusalemme, un tempo ricca di alberi da frutto, mandorli, olivi e viti, e di giardini pieni di piante medicinali e aromatiche. Lifta era uno dei 536 villaggi palestinesi invasi nel 1948 ed evacuati dalle milizie ebraiche (Haganah, Stern) poco prima del massacro avvenuto nel villaggio vicino di Deir Yassin. Pensare che ci sono ancora documenti che attestano la proprietà palestinese fin dal tempo dell’Impero Ottomano!
Oggi le poche case rimaste di Lifta, circondata da un lato dall’autostrada Tel Aviv-Gerusalemme e dall’altro dalla Begin Road, sono una delle memorie della Nakba, la catastrofe. In questo cammino emozionante, ci accompagna Zakaria Odeh, della Coalizione per Gerusalemme, lui stesso originario di Lifta. E’ una lunga camminata attraverso i resti di belle case in pietra, della moschea del paese, dei frantoi: grandi pietre ancora ben conservate. Fino ad arrivare a una fonte, dove ogni tanto qualche giovane israeliano va a farsi il bagno.
Zakaria
Zakaria racconta che anche i palestinesi vengono spesso in questo luogo, talvolta per le feste di matrimonio o per i picnic, altre volte gli insegnanti ci portano le classi, perché è molto importante conservare la memoria e trasmetterla alle nuove generazioni. E’ emozionante e commovente sentire la tristezza nelle sue parole quando ci mostra la casa della sua famiglia, spezzata a metà, diroccata. E si comprende la determinazione con cui la Coalizione per Gerusalemme lavora contro i progetti di gentrificazione dell’area. La coalizione è composta di 17 Ong, che fanno monitoraggio sui piani di Israele, promuovono incontri e dibattiti, fanno azioni legali per casi collettivi, pubblici. Non gliene fanno passare una: ogni tanto vincono, come ad esempio quando sono riusciti a impedire che ad est venisse installato un compound militare, che poi hanno invece piazzato ad ovest.
“Siamo molto deboli e molto divisi” – dice – “inoltre c’è una sempre più grave crisi dei finanziamenti, tagliati dagli Stati Uniti, come all’UNRWA (per i rifugiati) o agli ospedali di Gerusalemme, dato che USAID non li sostiene più. Tutto quello che possiamo fare è agire sul piano legale e su quello della “advocacy” internazionale”.
Anche Lifta è oggetto di una azione legale, e il nostro accompagnatore ne è molto orgoglioso. “Un gruppo di profughi che sfida Israele!”, dice. Gli israeliani hanno confiscato la terra e volevano costruirci un resort. Ma il tribunale, su richiesta argomentata della Coalizione per Gerusalemme, ha fermato il progetto chiedendo che venisse fatta una indagine e, in caso di ritrovamento di patrimonio storico, ci sarebbe l’obbligo di salvaguardarlo. L’indagine è stata condotta da una Commissione indipendente di esperti e archeologi, ma l’Autorità israeliana ha rifiutato e successivamente bloccato la conferenza stampa nella quale la Commissione intendeva rendere pubblici i risultati, ad esempio il ritrovamento sotto terra di antichi frantoi di pietra. La Coalizione, invitando all’Università di Nablus uno degli archeologi, ha fatto diventare pubblico il caso, ha creato uno scandalo. La questione è ancora aperta e – dice Zakaria – il nostro obiettivo, con questo minuzioso e indefesso lavoro, per ora è prendere tempo.


Un altro caso, che dura da 40 anni, è quello di alcune famiglie di Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme est, al confine con Gerusalemme ovest: nel 1948 vi arrivarono 28 famiglie, la Giordania che era lì cedette loro la terra, e l’UNRWA ci costruì case. Poi le famiglie sono diventate 65. Israele sta facendo di tutto per riuscire a cacciarle. Tra il 2008 e il 2009, 12 famiglie sono state sfrattate. Nel 1979, gruppi di coloni sostenevano che la terra apparteneva loro dall’impero ottomano, dal 1875, ma gli avvocati palestinesi che sono andati negli archivi di Istanbul e Ankara, non ne hanno trovata traccia. Le famiglie rifiutano di pagare l’affitto per non riconoscere la proprietà, e questo è diventato motivo di sfratto. Due mesi fa, poi, lo sfratto è arrivato per altre due famiglie e incontreremo un anziano che l’ha subito. Sabbagh Mohammed ci fa vedere tristemente anche la foto della loro vecchia casa a Jaffa, con il padre. La Nakba continua, ma almeno ogni venerdì anche gruppi israeliani, come Jesh Gvul, manifestano la loro solidarietà contro gli sfratti.
Nel grande freddo di Hebron , con Ahmad

Amico da molti anni, ci siamo trovati in quasi tutti i Forum sociali, Ahmad Jaradat lavora all’Alternative Information Center, forse l’unica associazione rimasta dove lavorano insieme palestinesi e israeliani. Almeno fino ad oggi. Adesso è in corso la separazione – non per motivi politici, continuiamo a lavorare insieme, ma per motivi burocratici, una questione di tasse.
È un colpo al cuore, un pezzetto di storia che se ne va. Per la prima volta lo sento, quasi disperato, chiedere con forza che anche la solidarietà internazionale cambi strada, aggiorni la sua analisi: “Qui la questione non è più solo quella dei diritti umani, è la scomparsa della Palestina, il cosiddetto century deal di Trump punta all’annullamento dei palestinesi. Instaura un vero apartheid, con l’annessione, dell’intera zona C (anche lui la pensa così, benché il testo del deal non sia ancora pubblico). L’Autorità palestinese non conta niente, a Gerusalemme è proibito ai cittadini palestinesi di votare, non siamo più alla questione “pace”, ma a una questione di civiltà”.
Temo che abbia ragione e sento tutta la nostra inadeguatezza e il cinismo dei silenzi della politica europea. Sono riflessioni molto amare, che lasciano un senso di impotenza. Un grande freddo nella testa e nel cuore. Girare nella strada fantasma Shuhada street, che lui come palestinese non può percorrere, aumenta questa sensazione. Il freddo, anche fisico, è implacabile, come questi soldati che controllano i documenti, che fanno aspettare al gelo i palestinesi ai tornelli dei check point, solo per dimostrare il loro “potere”.

Ad Hebron/Al Khalil, per la palestinian way, ovvero senza passare da Gerusalemme per il check point, si arriva in un’ora e mezzo per una bella strada in mezzo al verde di alte colline, una strada piena di curve e saliscendi. La grande città è bella e triste, sfigurata e tormentata da un’occupazione di coloni piena di odio, con una moschea divisa a metà: musulmana ed ebraica. Il freddo arriva al cuore. Sono frequenti gli scontri con gli arroganti coloni, ben protetti dai militari. La sera riusciamo a trovare un ristorante simpatico, molto moderno nel centro moderno della città: Hawana, dove si mescola tradizione e modernità europea. C’è una zona uomini separata, per abitudine non per regola del locale, dove tutti fumano la shisha, il narghilè. Nella zona più frequentata da famiglie si vedono pure ragazze, alcune da sole in piccoli gruppi, che fumano anche loro la shisha. Conosciamo un giovane cameriere che dice di essere venuto di recente a Roma per le iniziative di Open Shuhada streeet, è un volontario del movimento Youth against settlers e ci annuncia, molto contento, che il giorno dopo arriverà un folto gruppo di Assopace Palestina.

Al Khalil è anche la città del vetro soffiato. Vediamo al lavoro due soffiatori di vetro in una delle fabbriche più importanti, quella della famiglia Natshe. Di generazione in generazione, creano oggetti bellissimi, una loro specialità sono quelli di stile fenicio, con striature e trasparenze colorate. Quelle blu sembra che abbiano dentro il mare. E’ un lavoro molto faticoso, i soffiatori alle fornaci hanno vicino un ventilatore, bevono acqua e tè e fumano in continuazione. Producono anche ceramiche che esportano in molti paesi.
Il cuore si scalda un po’ tra i colori della fabbrica di Khufie dei fratelli Hirbawi, che ci riceve con quel rumore continuo dei telai meccanici, che si interrompe solo all’ora della preghiera, verso le 12,30. Ne escono 150 al giorno e hanno colori bellissimi. Questa impresa ha combattuto l’invasione della produzione cinese e indiana con questa diversificazione del prodotto, non più solo bianco e nero oppure bianco e rosso, che resta prevalentemente per l’esportazione in paesi europei.


Le sorprese di Nablus, la ribelle
Un lungo viaggio porta da Hebron a Nablus, grande città molto conservatrice, molto rigorosa, che ha sempre rifiutato la sottomissione. E’ caduta e si è rialzata molte volte, ancor prima di chiamarsi Neapolis, al tempo dei romani. La dura resistenza, anche armata, per i vicoli della meravigliosa città vecchia, è testimoniata dalla gran quantità di immagini di giovani armati appese ai muri: morti o tenuti in galera da anni. Di prigionieri nelle carceri israeliane ce ne sono oltre 4000, centinaia di loro sono ragazzini.

Neta e Nizar
Ribelle è anche Neta, un’amica di vecchia data, israeliana, sposatasi (in Italia, al Castello di Gradara) con il palestinese Nizar. Lei è un’attivista indefessa, da un anno organizza un piccolo gruppo di israeliani che vanno a protestare contro l’assedio, al confine con Gaza. Si è fermata solo per qualche anno, “per la responsabilità verso le tre figlie”, due adolescenti e una bambina.
La famiglia vive in un antico palazzo nel cuore della città vecchia, con un terrazzo da cui si vede la cupola verde di una moschea. Nizar, sempre critico verso l’ANP, è uno dei tanti pre-pensionati “politici” dell’Autorità palestinese, contento di esserlo. E’ un creativo che si dedica a belle composizioni di vasi con piante grasse di tutti i tipi, di cui è pieno il terrazzo. E’ un lavoro fantastico, sta pensando di commercializzarlo tramite un sito. La grande casa dai soffitti dipinti è in grande disordine e confusione, ma, soprattutto le tre giovanissime figlie, sembrano vivere libere e in allegria. Con la piccola Selma, molto sveglia e simpatica, la sera ci mangiamo il musakhan, frutto di un incontro nella città vecchia con due sorelle, madre e cognata con bambina in braccio. Ci hanno fermato, erano sorridenti e contente di sapere che veniamo dall’Italia, qui molto amata, e hanno assolutamente voluto condividere una parte di questo ottimo piatto, fatto da loro, con pane ricoperto di cipolle mandorle e pezzi di pollo. Piatti della tradizione, come l’ottimo dolce kunafa, di cui Nablus è la patria.

Racconto della nostra visita al sito archeologico del monte Jerizim, sede di quel che resta della comunità samaritana, dove gli israeliani hanno piazzato un loro visitors center e ricevono la gente mostrando un video che racconta, credo in modo distorto, storie bibliche sul luogo e la presenza originaria degli ebrei. Ci sono gruppi di coloni in visita protetti dai militari. Un volontario israeliano ci racconta che i circa 30 mila profughi del campo di Balata, che si vede dall’alto del monte, hanno rifiutato l’offerta di case e lavoro da Israele per “mantenere i loro privilegi”.
Questa gestione israeliana del sito è una novità rispetto allo scorso anno. Fa parte dell’incessante lavorio di Israele di cui si vedono tracce in molti luoghi: la cancellazione della memoria palestinese, “Un altro boccone!” commenta tristemente Neta.

Al Balata Camp ci porterà un taxi, il cui giovane conducente, abitante del campo, con parecchi anni di prigione alle spalle, non vuole essere pagato per la corsa, dato che andiamo a visitare proprio il “suo” campo. Al Yafa cultural center, creato nel 1996, dove la maggior parte dei profughi proviene da Giaffa, Maryam, ce ne racconta la storia e il lavoro. I profughi hanno vissuto cinque anni nelle tende senza luce né elettricità né acqua, arrivata solo nel 1953. Dal 1978 provvede il Comune. “La prima Intifada, nel 1987, è stata una grande lotta ma non abbiamo ottenuto niente. Con la seconda, la situazione è stata terribile: le strade tra una casa e l’altra sono strettissime, i soldati israeliani aprivano buchi nei muri delle case per passare dall’una all’altra”.

Il centro è particolarmente pensato per giovani e donne, sensibilizza e informa sulla storia del campo, dei profughi, delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Dispone di un media center, di una banda di scout e guide, di un teatro che vedremo affollatissimo, e di cinema. Nel 2010 sono stati creati: una unità psicosociale (i disturbi mentali crescono), che lavora con psicologi e genitori; un giardino per bambini, un centro computer, una biblioteca per bambini. Formazione e conoscenza della storia hanno molta importanza.
Le difficoltà della vita materiale sono tante, a cominciare dal sovraffollamento: creato tra il 1950 e il 1952 per 6 mila persone, oggi ne accoglie quasi 30 mila. Inoltre l’UNRWA, in seguito al taglio di fondi fatto dagli Stati Uniti, ha ridotto le sue prestazioni. La popolazione, come in altri campi, è sottoposta a pressioni e intimidazioni, con raid notturni dei militari e incursioni da parte di coloni. L’occasione è data dalla loro visita settimanale, protetta dalla polizia israeliana, alla cosiddetta “tomba di Giuseppe”, non luogo santo, ma tomba di un benefattore. Anche questo è un modo per affermare la propria presenza su questo pezzetto di terra. E un mese fa due ragazzi sono stati uccisi dai coloni.
Sabastia e Nisf Jubeil
Nei tre giorni di feste pasquali precedenti – ci raccontano gli abitanti di Sabastia – sono arrivati gruppi di coloni in visita al sito, scortati da militari. Il paese si è riempito di autoblindo e ai palestinesi è stato chiuso l’accesso. Stesso racconto a Nisf Jubeil, nella famiglia di Omar e Dalal Suleiman, amici palestinesi/napoletani in Italia, un piccolo villaggio a tre chilometri.
Quattro sorelle e due fratelli, una madre sorridente, con grandi occhi azzurri, che cucina ottimamente, mentre il padre “sfoglia” il timo, base dello zaatar, in grande quantità. C’è anche il piccolo Omar, di poco più di un anno, cicciotello e molto socievole, in vacanza con la mamma dall’Arabia Saudita. La giornata trascorre allietata, oltre che da questa bella famiglia, da una ricca prima colazione con formaggetti cotti e crudi, olive, timo fresco, zaatar e olio, grandi pani arabi, tè. A pranzo arriva una trionfante maqluba (= capovolta), che la mamma, esperta cuoca, cucina anche nella grande cucina “sociale” in paese, dove si preparano cibi per i visitatori. Una bella idea accogliente che evita locali e trattorie. La casa si apre su un bel giardino con un intenso profumo di zagare, alberi di limone, nespoli. Sono giorni di festa: pasqua ebraica, cattolica, la pasqua ortodossa, che quest’anno per la prima volta verrà celebrata anche dalla popolazione palestinese.

La passeggiata prima del pranzo in campagna, con le sorelle e il piccolo Omar, ci porta ad un bel negozio/ laboratorio di ceramiche dove una di loro ha lavorato per due anni. Verso mezzogiorno si sparge per il paese la preghiera del venerdì, la voce che la recita sembra irritata. Da che cosa? Dalle troppe feste – mi dice una delle sorelle – perché non aiutano lo sviluppo del paese. Preghiera inaspettata! A giorni, il 6 maggio, comincerà il mese del Ramadan.
Il pomeriggio è molto caldo sulla via del ritorno a piedi a Sabastia, ma la fatica è ripagata da una bella natura, dal silenzio, dalla quiete: una delle atmosfere magiche che questa terra offre.
A Sabastia, splendido sito archeologico, per una cooperazione Italia-Palestina, lavora anche l’archeologa italiana Carla Benelli, insieme all’architetto palestinese Osama Hamdan, che ha seguito anche la ristrutturazione della bella Locanda dei Mosaici, un posto speciale. La natura è davvero magnifica in questa stagione: il verde degli ulivi, il giallo delle margherite, il viola dei fiori di cardo. Dappertutto bambini e bambine allegri, curiosi e amichevoli. Uno corre a prendere un grande limone e me lo per regala. Questa è la Palestina: luoghi e persone indimenticabili.

* Come Nabila ipotizzava, per Netanyahou è molto difficile formare il Governo con la destra religiosa. Non perché chiedono l’annessione della Cisgiordania, ma perché il suo avversario Liebermann (Likud) si rifiuta di accettare che continui l’esonero dal servizio militare degli ortodossi, la destra religiosa appunto. Non potendo formare il Governo, è notizia di questi giorni, ci saranno nuove elezioni il 17 settembre.

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