Racconti da un corso di italiano per stranieri
di Lino Di Gianni*
Entra con un impermeabile beige, lungo fino ai piedi. Indossa un cappellaccio a larghe tese, dei guanti. Alto, col pizzo, africano appena arrivato in Italia, parla un po’ inglese. Sembra uscito da un film western anche per l’eleganza con cui si muove. Ho visto, nell’intervallo, smontare un bullo che voleva prenderlo in giro per il suo impermeabile, negandosi per due volte alla stretta di mano, tacitamente. Se io fossi un regista, farei un film con queste persone ricche di umanità e inventiva.
A volte, raramente, mi arrabbio. Qualcuno fa il furbo, mi porta una scheda copiata in pochi minuti, spacciandola per propria (ci sono disegni, richiedono parole bisillabe piane). Non si hanno invano quarantaquattro anni di insegnamento: li metto alla lavagna con la scheda bianca in mano, e lì aggiustiamo i conti.
Poi succede che spiego che questa non è una scuola dove si danno i voti, ma si viene per imparare per sé, per leggere e scrivere e parlare nella società in cui cercheranno un lavoro. Ascolto come si arrabbiano alcuni, con loro, parlando in Bambarà. Ma poi li vedo tornare a scuola il giorno dopo. E questo non è scontato, perché potrebbero andarsene verso Torino, col pullman, col treno. Invece scelgono di venire due ore a scuola, per mettersi alla prova.
A me non piace la lezione trasmissiva, che con loro non può esistere. Gioco a prenderli in giro: gli faccio vedere una sedia e dico che si chiama libro, ma ormai sono abituati e attenti e sorridono, dicendo il nome giusto.
Qualche giorno fa, in un campo di lavoro di raccolta delle arance, è morta una ragazza nigeriana, bruciata in un incendio delle baracche. Ragazze come quelle che vengono da noi, che aspettano il permesso, poi hanno il diniego, e diventano clandestine, e si aggiustano come possono: si trovano improvvisamente senza casa, senza lavoro e senza soldi. È giustizia, questa?
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