Il lavoro di cura e il lavoro domestico, confusi con l’amore, con l’altruismo materno, con l’ambigua collocazione dell’essere femminile, sospeso tra sacralità e determinismo biologico, non riescono ancora oggi a essere visti e riconosciuti per quello che sono sempre stati: sostegno materiale e affettivo al potere e al privilegio di un sesso, ma, per estensione, anche di una classe, di una razza. L’unico lavoro riconosciuto come tale, lo dimostrano anche i mesi della pandemia, è ancora quello produttivo, scrive Lea Melandri
Tratta da unsplash.com
Un sesso non riconosciuto come tale – ha scritto Luce Irigaray – può contare solo “come non sesso”, “negativo, inverso, rovescio dell’unico sesso visibile e morfologicamente designabile”. Se sulla sessualità femminile, cancellata e riscritta in base a parametri maschili, il femminismo ha riflettuto a lungo, producendo cambiamenti significativi nella vita di molti, donne e uomini, non si può dire altrettanto per quel lavoro non pagato che resta in gran parte sepolto nelle case, nelle relazioni private, nella resa inconsapevole delle donne a una consegna ritenuta ‘naturale’.
Il lavoro di cura e il lavoro domestico, confusi con l’amore, con l’altruismo materno, con l’ambigua collocazione dell’essere femminile, sospeso tra sacralità e determinismo biologico, non riescono ancora oggi a essere visti e riconosciuti per quello che sono sempre stati: sostegno materiale e affettivo al potere e al privilegio di un sesso – ma, per estensione, anche di una classe, di una razza – che ha potuto perciò pensarsi autonomo, solo perché sciolto dai vincoli della sopravvivenza, razionale perché alleggerito dal peso del corpo, forte per aver svalutato debolezza, dipendenza, bisogni primari della vita umana, e asservito coloro che sono chiamati a soddisfarli.
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L’unico lavoro riconosciuto come tale, sia da chi ne esalta le potenzialità illimitate, sia da chi vorrebbe temprarlo secondo principi di giustizia e uguaglianza, è il lavoro produttivo, associato a ricchezza, potere, successo, sviluppo, proliferazione e consumo di merci. Espressione della supremazia maschile, prima ancora che di un privilegio di classe, la divisione sessuale del lavoro ha attraversato, senza cambiamenti sostanziali, sistemi economici diversi, dal capitalismo al socialismo, dal fordismo al postfordismo, dalle economie locali alla globalizzazione. Nonostante l’intensificarsi di ricerche e inchieste, che riescono a scandagliare il lavoro non pagato in tutta la sua quotidiana, complessa articolazione, e nonostante i risultati sorprendenti che ne dimostrano la rilevanza quantitativa, in termini di tempo e denaro, l’ordine delle priorità non sembra possa esserne toccato: la cura, componente essenziale della vita umana, continua a macinare energie, intelligenza, saperi, destinati a restare screditati, o riconosciuti per la loro importanza solo da chi ne è protagonista, invisibile e inascoltato. La verità del rovesciamento di parti, che ha permesso ai deboli di farla da padroni, agli sfruttati in fabbrica di farsi sfruttatori in casa, riportata più volte nel cuore dell’analisi politica da alcune componenti del femminismo, già a partire dagli anni Settanta, continua a rimbalzare in un vuoto di interlocuzione che, a questo punto, interroga uomini e donne.
“Non sono solo le pratiche i simboli del sistema patriarcale che ci opprimono – scrive Antonella Picchio -, ma la nostra assunzione di responsabilità rispetto alla qualità della vita di uomini compagni e dei nostri figli. Noi abbiamo un delirio di onnipotenza e loro hanno delle profonde debolezze nascoste e coperte da noi”.
Se è vero che la “riproduzione sociale della popolazione” non è una “questione femminile”, che si possa risolvere nel privato, bensì il presupposto imprescindibile della “produzione di merci”, perché è stato così difficile, per non dire impossibile, negli anni in cui si è affermato un diffuso movimento anticapitalista, trovare i nessi tra femminismo e lotta di classe, o, quanto meno, da parte delle donne, “agire un conflitto profondo”, mettendo al centro le condizioni di vita, il corpo, la cultura, le relazioni e tutto ciò che erano venute scoprendo attraverso la loro esperienza?
Si può rilevare il limite di una interpretazione della cura in chiave esclusivamente economica, quale è stata quella di Lotta Femminista – “salario al lavoro domestico” -, e cioè l’assimilazione al lavoro produttivo di mansioni complesse, particolari, profondamente implicate con la vita intima, la maternità, la sessualità, i legami affettivi, che come tali non possono né essere completamente monetizzate o affidate allo Stato. Ma non c’è dubbio che ogni altro tentativo di affrontare le pesanti ricadute sulla donna della divisione del lavoro ha finito per scontrarsi con la priorità della dimensione produttiva, utilitaristica, assunta come modello unico, neutro, universale, anche quando viene ribaltato e preso dal suo polo opposto e complementare: il dono, la decrescita, la femminilizzazione del lavoro.
È come se, restando intoccata la visione di fondo, in cui si intrecciano, oggi in modo scoperto – per la femminilizzazione del lavoro – i tratti del maschile e del femminile costruiti dall’uomo, e in assenza quindi di un’analisi del sessismo che dica quale rapporto di potere è intercorso tra gli uomini e le donne reali, non restasse anche alle strategie femminili altra scelta che l’altalena tra un polo e l’altro, o lo sforzo acrobatico della loro ‘conciliazione’.
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Personalmente non so quale ”differenza” sia stata formalizzata per prima, dalla specie umana. Quella di “razza” tra Sapiens e Neanderthal? Quella del più “forte” in tale o tale abilità necessaria alla sopravvivenza del gruppo? O quella di “sesso” (visto che probabilmente abbiamo messo un bel po’ di tempo a capire il legame tra accoppiamento bisex, gravidanza e figli) ? E la logica del “la contradizione di sesso viene prima della contradizione di classe” (o vice versa), non è mai stata la mia. Come non lo fu’ per tante “doppie militanti” come me.
Anzi credo che proprio quella logica – -del prima la classe, o il sesso o la razza o l’orientamento sessuale ecc ecc- sia stato all’origine dell’ “impossibilità di trovare i nessi tra femminismo e lotta di classe”. Da una parte come dall’altra.
E se parte della sinistra ha, almeno a parole, accettato la “nuova” contradizione di sesso, il femminismo italiano ha cancellato al suo interno la contradizione di classe. Con, già negli anni ’80, ogni accenno al crescente divario tra ricchi e poveri (e 70% dei poveri erano povere) tacciato di “miserabilismo”. Con ogni critica alla deriva elitista di un femminismo sempre più professionalizzato e “borghese” (come la sinistra) zittita da un liquidatorio “invidia”. Per non parlare degli sbuffi insofferenti se qualcuna osava chiedere se femminismo significava sbolognare gran parte del lavoro domestico e di cura a donne immigrate che devono abbandonare casa. figli e genitori anziani per occuparsi di case, figli e anziani altrui.
Ovvero, cara Lea, sinistra e femminismo hanno partecipato ad una stessa deriva, dimenticando corpi e materialità delle vite. E forse sarebbe ora di passare dalle lite su quale è la “contradizione principale” ai meccanismi comuni alle varie oppressioni, e a come fare convivere in uno stesso mondo le differenze.
Tutte le lotte contro l’haparteid dimostrano che per “ricomporre” la classe occorre un rapporto non egemonico tra alleanze di classe e separatismo. Il tentativo di ricomporre le lotte femministe attorno all’alleanza di classe con gli e le egemoni …rafforza le possibilità di vittoria del capitalismo: di stato che cerca di governare il mercato con la repressione di classe e di tutte le libertà civili, o di mercato che governa lo stato sotto la finzione democratica, contro classe e libertà civili, Oggi che la globalizzazione finanziaria domina quasi tutti i mondi possibili, mi pare che l’unica alternativa sia quella di riprendere seriamente il separatismo femminista in un quadro di pratiche di decrescita economica e di pacifismo integrale. Quanto ai femminismi organizzati, occorre riconoscere che proprio le donne più povere deiPaesi più poveri si stanno liberando da se’, rifiutando sia le maternità non volute che vivendo le economie di scambio e di dono nelle quali la reciprocità della cura è anche un elemento di liberazione, e la maternità voluta un ‘dono’ libero offerto all’alleanza tra generi, nel riconoscimento di forme diverse di erotismo, tra tutti i generi e anche tra donne e uomini, tra le contraddizioni che le donne affrontano nella vita quotidiana. Sottomettere il separatismo femminista alla ricomposizione di classe ci riporta indietro, verso sconfitte già subite. Nadine Gordimer e altri bianchi erano alleat* di Mandela, ma i Mov neri anti capitalisti sono forti nel separatismo delle organizzazioni politiche. I femminismi che amano la lotta di classe dovrebbero ricomporsi nel separatismo non sottomettersi alle egemonie di sempre. Le attività di cura vanno ricomposte redistribuendo lavoro e dono tra tutt* e riconoscendo che per ora solo le decisioni delle donne di qualsiasi genere hanno la capacità morale di donare la vita al mondo. Non si tratta di corpo biologico ma di corpo erotico che cerca di affermarsi come criterio morale auto-riconosciuto per scegliere tra aborto e maternità.., contro tutte le leggi e ideologie, anche nell’assenza di femminismi organizzati.