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Il presidente della grande repressione

Serena Tarabini
12 Agosto 2014
Il successo del premier Erdoğan nelle prime elezioni presidenziali votate dalla gente e non dal parlamento turco era scontato. Al di là delle pur rilevanti valutazioni strettamente politiche, quel voto ci conferma, ancora una volta, che una grande ribellione come quella del maggio 2013 a Gezi Park, tanto seguita ovunque e tanto importante per i movimenti antistemici del pianeta, non può generare alcuna eco negli esiti delle urne. Meno che mai, dunque, l’importanza di quel tipo di rivolta può essere giudicata in base agli esiti politici di breve periodo. Certo, Erdoğan non ha oggi alcuna opposizione politica seria ma è assai probabile che la sua autoritaria e sfrenata ambizione politica, emulare il disegno di Kemal Atatűrk, il fondatore della Turchia moderna, troverà più di un tenace ostacolo tra i vandali del futuro, i Çapuling, come ebbe a chiamarli lui con un fortunato neologismo angloturco

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 di Serena Tarabini

Il discusso leader turco Recep Tayp Erdoğan vince come previsto le prime elezioni presidenziali a suffragio universale e si appresta a conferirsi maggiori poteri. Un risultato largamente anticipato da tutti i sondaggi, quello emerso dalle urne domenica in Turchia: l’attuale premier Recep Tayp Erdoğan passa al primo turno con il 52 per cento delle preferenze e diventa il nuovo presidente del paese.

Forse anche per il fatto che tutti si aspettavano questo risultato, due milioni di turchi questa volta non hanno partecipato al voto, deciso peraltro in una data, il 10 di agosto, quantomeno insolita per un voto importante e fino ad oggi riservato al solo parlamento.

Per l’ennesima volta, le opposizioni hanno mostrato tutta la loro debolezza e inconsistenza: fallito il tentativo di opporre un candidato “ecumenico” da parte della coalizione Frankenstein riproposta fra CHP, il principale partito di opposizione laico, nazionalista considerato anche “di sinistra”, e il MHP, partito ultranazionalista di destra.

Il prescelto, Ekmeleddin Ihsanoglu, professore conservatore abbastanza sconosciuto nonostante un curriculum accademico e professionale prestigioso, con un profilo da musulmano moderato e intellettuale ineccepibile, si proponeva di sottrarre consensi nel bacino elettorale religioso di Erdoğan e di rappresentare la parte del paese preoccupata per il ritorno dell’Islam politico e di un irrigidimento della società.

Religioso ma rispettoso della tradizione laica del paese, nazionalista ma a favore del processo di pace con i Kurdi, Ihsanoglu strizzava l’occhio a tutti in nome dell’ unità nazionale. Non ha funzionato: un risultato, il suo 38 per cento, inferiore a quello che i due partiti congiuntamente avevano preso nelle elezioni amministrative del 30 marzo scorso.

E’ andata meglio, in proporzione ai consensi attesi, al terzo candidato in lizza, il giovane avvocato kurdo Selamahattin Demirtaş, che era sostenuto dall’HDP, un’altra coalizione, quella fra il partito filo kurdo e le sinistre radicali. Il suo 9 per cento quasi raddoppia il risultato delle amministrative dove la coalizione aveva fatto il suo esordio, e introduce nello scenario politico turco degli elementi nuovi, gli unici incoraggianti da un punto di vista di sinistra

 ErdoganIl sogno di Erdoğan, che in quanto ad ambizione non è secondo a nessuno, è quello di essere ricordato alla stregua di Mustafa Kemal Atatűrk, il padre fondatore e simbolo della Turchia moderna. Il popolo turco lo ha sicuramente collocato nella storia del paese, coronando una carriera politica in crescendo che dura da 12 anni e non è stata scalfita dalle accuse di autoritarismo e di repressione violenta, dagli scandali per corruzione, dal malcelato conservatorismo religioso.

La vera battaglia però comincia adesso, gli esiti sono incerti: la carica di presidente della repubblica, per quanto prestigiosa, è al momento sostanzialmente rappresentativa. Il timore fondato delle opposizioni e la nota intenzione dell’attuale governo è che un cambiamento nel parlamento conferisca maggiori poteri al presidente. Considerata l’ indole del neo eletto, difficile immaginare che si accontenti di un ruolo defilato nello scenario politico ma sarà tutto da vedere se e come Erdoğan, nei 5 anni che avrà davanti, saprà ottenere la riforma costituzionale necessaria. Intanto si vocifera di elezioni politiche anticipate a novembre di quest’anno.

L’inquietudine nei confronti di una possibile ulteriore torsione autoritaria serpeggia un po’ ovunque, dalle opposizioni a quella parte di società laica e progressista che non ha mai visto di buon’occhio l’ascesa di un leader religioso, intollerante e megalomane che ha già mostrato la mano pesante durante e dopo le rivolte di Gezi Park.

Nel discorso di esordio il neo presidente ha utilizzato toni più conciliatori che trionfali, parole più inclusive che aggressive. Va però tenuto conto che siamo nel momento in cui l’avanzata degli Jihadisti dello stato islamico, che Erdogan è stato accusato più volte di sostenere economicamente e militarmente, oltre a seminare terrore nel Levante, si affaccia alle porte geografiche e politiche della Turchia. Un bel grattacapo per un paese che nei confronti di questa questione ha una lunga e articolata coda di paglia. Meglio non esagerare con le crociate religiose, per il momento.

 

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