Le aspettative dei migranti, la ferocia del neocolonialismo delle multinazionali, l’economia in cerca di braccia da lavoro, l’ipocrisia istituzionale, il mestiere di salvare, ma anche il prezzo basso dei pomodori e la possibilità o meno di viaggiare. Sono alcuni degli argomenti intorno ai quali ragionano Riccardo Gatti, da anni impegnato nei soccorsi in mare con Open Arms e Msf, e Marco Aime, antropologo attento ai temi delle migrazioni, in Conversazione in alto mare, edito da elèuthera (di cui pubblichiamo ampi stralci di un capitolo). Un dialogo essenziale per ricostruire gli scenari di fondo dei processi migratori ma anche la narrazione tossica che si è venuta a creare intorno ai salvataggi in mare, ora di fatto impediti
Tratta dalla pag. fb di Riccardo Gatti
[Marco Aime] Secondo te, che ne hai incontrati tanti, cosa si aspettano i migranti dall’Europa o dall’Occidente in generale?
![](https://comune-info.net/wp-content/uploads/2021/10/Aime_Gatti_Conversazioni_2021-676x1024.jpg)
[Riccardo Gatti] […] Ci sono persone che arrivano senza avere la minima idea di dove sono. Praticamente partono alla cieca, spinti dalla necessità di migliorare la propria situazione. E infatti ti raccontano: «Sono partito dal mio villaggio, dalla mia città, mi sono spostato nel paese di fianco, sono stato lì un po’, ma dopo le cose sono peggiorate…», e così via. Ci sono poi quelli che invece vanno alla ricerca di condizioni migliori avendo un minimo di conoscenze sulle effettive possibilità di lavoro. Infine ci sono persone che cercano di raggiungere un qualche parente che già vive in Europa, o comunque qualcuno, anche non consanguineo, che fa parte delle loro parentele allargate. In varie occasioni la spiegazione data era soprattutto questa: «Comunque vada, in Europa avrò più possibilità, perché in Europa c’è lo Stato di diritto, in Europa non ti uccidono come in altri Stati, per esempio in Libia, in Europa non si muore di fame, non muori dentro…».
Certo è possibile che queste non siano considerazioni molto realiste rispetto a quello che poi troveranno davvero. In effetti questo mio punto di vista deriva dall’esperienza che ho fatto quando lavoravo in un centro per minori e dunque ero il tutore di ragazzi e ragazze minorenni non accompagnati. Io parlavo anche con le loro famiglie e ricordo una conversazione che ebbi con il padre di un mio tutelato, Mamadu. Suo padre in Senegal aveva una buona posizione, lavorava all’ambasciata. E tuttavia mi diceva: «Io mi rendo conto della situazione in cui si trova mio figlio, lo so che non sono rose e fiori come si pensava, ma comunque lì avrà possibilità che qui è molto più difficile avere». A quanto ho capito, sono tutti fermamente convinti che, qualunque sia la realtà iniziale, con un colpo di fortuna e un minimo di appoggio da parte delle istituzioni pubbliche, o meglio ancora (e molto più probabilmente) della società civile, le persone possono avere una possibilità in più di migliorare le loro condizioni, o semplicemente la loro sicurezza personale. Magari qui non vivono meglio, ma là erano insicuri, rischiavano persino la vita. […]
Tra l’altro questo ci deve far riflettere, perché ormai credo che lo sappiamo tutti, almeno fra chi si interessa un po’ di questi temi, che non sono i più poveri che migrano, perché i più poveri non hanno i soldi per venire fino qui, non li hanno neppure per raggiungere la loro capitale dal villaggio in cui abitano. Il problema è che anche chi sta meglio laggiù, sta peggio di come potrebbe stare qui, o almeno di come pensa che potrebbe stare qui.
Credo che sia del tutto normale cercare di migliorare le proprie condizioni di vita. Anche noi lo facciamo, costantemente. E credo che tutti abbiano questo diritto. Poi, certo, chi già sta meglio ha più possibilità di migliorare le proprie condizioni, mentre chi è messo davvero male ha possibilità decisamente ridotte. Come stavi appunto dicendo, sono le persone che stanno meglio economicamente quelle che intraprendono il viaggio, e sono infatti questi i migranti che ho trovato nel Mediterraneo centrale. Ciò detto, la differenza tra il mio stile di vita e il loro è talmente enorme che quando li vedo mi dico: «Ma sono messi malissimo!», pur sapendo che sono le persone che hanno più possibilità di viaggiare. Poi magari sono quelle che sono state scelte dalla propria famiglia o dalla propria comunità proprio perché hanno maggiori possibilità di prosperare una volta arrivati. […]
Invece in Grecia, con msf, le persone che soccorrevamo arrivavano fondamentalmente da Siria, Iraq e Afghanistan, e capivi subito che erano persone come me e come te, nel senso che avevano qualche soldo in banca e quanto meno uno zaino per il viaggio, ovvero non erano la parte di società con meno possibilità, era la parte che poteva permettersi di fuggire. L’altra parte della società, quella che non poteva permettersi di fuggire, è rimasta sotto le bombe. Ricordo che durante il mio primo soccorso ho pensato che al posto di quelle persone ci sarei potuto benissimo essere io, nel senso che non c’era quella differenza enorme che invece c’è nel Mediterraneo centrale.
E forse questa visione di «vicinanza», o di minore differenza, sta alla base dell’impatto emotivo che ha generato la triste foto del piccolo Ālān Kurdî, rispetto alle tante drammatiche foto di bimbi annegati nel Mediterraneo. Era un bimbo bianco, vestito come mio o tuo nipote. Le tante foto di persone annegate nel Mediterraneo, così diverse e «lontane» da noi (partendo dal colore della pelle, cosa che tristemente continua a creare barriere) sembra che vengano ricevute in uno stato di anestesia, di quasi indifferenza.
Secondo te, il fatto che il fenomeno migratorio coincida anche con l’inizio della globalizzazione è casuale?
No, non credo affatto che sia casuale, nel senso che con la globalizzazione anche l’accesso all’informazione è molto cambiato. Chiunque adesso, mettendosi davanti a uno schermo, può vedere come si vive negli Stati Uniti o in Canada. Si guarda su uno schermettino, e ci si fa un’idea di cosa si può trovare da qualche altra parte. Molti mi hanno detto: «Vengo in Europa perché voglio fare il calciatore». Tutti conoscono il Barcellona o il Real Madrid, e questo è un frutto della globalizzazione, o meglio di una certa globalizzazione che produce grandi disastri, perché ti fa credere che tutti possono stare meglio. E invece non è così. Anzi, le cose possono anche peggiorare.
Credo inoltre che la globalizzazione abbia aumentato le cause per cui le persone sono costrette a fuggire. Non solo le guerre, ma anche quello che la Nestlé ha fatto con il latte materno in diverse parti dell’Africa, quello che la Monsanto ha fatto e continua a fare con i semi di soia, oppure perseguendo una globalizzazione in cui il cibo non solo perde di qualità ma ha ovunque lo stesso sapore. Tutto questo è un’ulteriore spinta ad andarsene.
Le stesse politiche allo sviluppo, partite più o meno nello stesso periodo, sono state del tutto fallimentari: un buco nero che ha inghiottito grandi quantità di denaro, portando spesso e volentieri, come in Bangladesh, a un peggioramento delle condizioni, che prima erano più o meno in equilibrio. Certo, dobbiamo sempre stare attenti a dove ci posizioniamo per non cadere in una visione post-colonialista, e magari pensare che le persone stanno peggio di noi perché non hanno quello che abbiamo noi. Ma in Bangladesh, per esempio, hanno disseccato dei campi produttivi perché a un certo punto si era pensato di allevare i gamberetti usando l’acqua di mare. L’allevamento dei gamberetti non è andato bene, ma l’acqua di mare ha lasciato il sale sul terreno, che ora non è più utilizzabile… Di casi come questi ce ne sono migliaia, non ultimi quelli legati all’olio di palma. Siccome lo si usa praticamente dappertutto e la pianta cresce velocissima, le grandi multinazionali hanno bisogno di enormi estensioni per poter coltivare le palme da olio. E infatti stanno colonizzando territori vastissimi, arrivando a uccidere gli attivisti dei diritti umani che difendono le popolazioni locali penalizzate da queste politiche agro-industriali. L’attivista argentino Santiago Maldonado è stato una vittima di questa neo-colonizzazione e come lui tanti altri attivisti e attiviste, tante persone locali vittime dei soprusi del sistema in cui viviamo. Ecco perché la globalizzazione è stata una delle cause principali, se non la principale, delle migrazioni in atto.
Globalizzazione o meno, non sempre le cause che spingono a migrare alla fine risalgono in qualche modo a noi. Certo, ci sono molte colpe dell’Europa, ma anche i governanti africani hanno contribuito allo sfacelo, magari in combutta con certe multinazionali.
Proprio così. Comunque, nella mia costante ricerca delle documentazioni e informazioni necessarie non solo a capire meglio la realtà che sto vivendo in questi anni, ma anche a rispondere adeguatamente alle domande con cui mettono in discussione il mio lavoro, ho trovato un paio di anni fa un report del Fondo monetario internazionale che non ha niente di umanitario, e neppure di umano: è una semplice analisi che indaga se la migrazione è positiva o negativa riguardo all’economia globale. Un discorso alla Merkel, diciamo: qualcuno ci dovrà pagare le pensioni, abbiamo bisogno di lavoratori e dunque facciamoli arrivare ecc. Sorprendentemente il risultato di questa analisi è stato che la migrazione in sé non è né positiva né negativa, bensì intrinseca al sistema economico in cui viviamo. Fondamentalmente, anche un cittadino tedesco che ha già raggiunto un buon livello di benessere può decidere di andare da qualche altra parte perché ritiene che quel livello non è più migliorabile, e così decide di migrare lì dove queste possibilità invece ci sono. Per esempio potrebbe trasferirsi in Canada. Chi in Germania va a coprire il posto lasciato vuoto da questa persona magari è un cittadino spagnolo o italiano, e di migrazione spagnola e italiana in Germania ce n’è un bel po’. Allo stesso modo, chi va a coprire il posto lasciato vuoto in Italia magari è una persona dell’Est europeo. Ti ricordi quando, soprattutto dopo la guerra in Kosovo, arrivavano i muratori albanesi? Noi abbiamo bravissimi muratori, però nessuno vuol più fare il muratore, neanche nella bergamasca. Ci sono poi studi che prevedono una migrazione alla rovescia: chi ha raggiunto livelli molto alti potrebbe in futuro andare a lavorare in Africa perché le grandi potenze, le grandi multinazionali e le grandi organizzazioni internazionali stanno investendo in Africa e avranno certamente bisogno di professionisti di alto livello per i loro progetti. Dunque, come afferma quello studio, la migrazione non è né negativa né positiva, perché le persone si sposteranno sempre.
Con la migrazione dobbiamo quindi aspettarci un ricambio, una specie di turnover, in pratica.
Certo, un turnover che cambia la realtà, che cambia le persone, e non è sempre facile rompere con le proprie tradizioni, con il proprio modo di vivere. Anzi, questo è esattamente il timore che hanno le persone conservatrici, le quali vorrebbero che niente cambiasse.
Sono d’accordo, bisogna fare attenzione a non minimizzare troppo, a dire «va tutto bene». C’è uno shock, è inevitabile, poi può essere percepito diversamente in base a come la pensi, però è chiaro che l’arrivo di persone con altre abitudini, scombussola un po’ la tua routine. Era già accaduto quando dal sud Italia si emigrava al nord. Io me lo ricordo, si diceva: sono meridionali, altre abitudini, altri dialetti, sono diversi da noi. E adesso figurati, qui sono neri, e poi magari la paura dei musulmani. Inoltre, oggi c’è una politica che su questo ci gioca molto rispetto ad allora, enfatizza il problema. Però, ascoltando quello che dicevi a proposito del report citato, mi sembra che ritorniamo al punto di partenza: come abbiamo detto all’inizio, questo fenomeno non va pensato sempre in termini di emergenza, ma va semplicemente gestito, non bloccandolo, ma sfruttando al meglio questa occasione.
Credo proprio di sì. Anche perché quello attuale mi sembra un atteggiamento totalmente miope. Ovviamente ho le mie convinzioni, il mio modo di pensare, ma anche cercando di fare un passo indietro e di essere il più obiettivo possibile, ritengo che sia davvero miope affrontare così qualcosa che comunque avviene e non provare invece a gestirlo. Quando lavoravo nel centro per i minori, c’erano ragazzi appena diciottenni che non potevano lavorare perché non avevano il permesso di soggiorno, e non avevano il permesso di soggiorno perché non avevano il permesso di lavoro… Perciò ti ritrovavi con ragazzi e ragazze di 18 anni che se ne stavano in giro per strada, e naturalmente succedeva di tutto. Perché se vivi per strada inevitabilmente vivi di espedienti, e gli espedienti sono quelli che possiamo immaginare. Ecco che allora diventa un problema sociale. Ma questo alle forze sovraniste di destra va più che bene, tant’è che i decreti Salvini hanno consapevolmente peggiorato alcune situazioni che erano più o meno in equilibrio, riversando per strada migliaia di persone che prima erano in strutture e che dopo dormivano per strada, creando così un evidente problema sociale che focalizza l’attenzione sul cattivo immigrato che viene qui a rubare e stuprare…
Non solo, ma credo anche che a un certo sistema economico tutto questo convenga. Avere una fascia di persone utilizzabili e ricattabili, fortemente ricattabili in questo caso, è funzionale a una certa economia, che si approfitta di questa zona grigia.
Questa tua osservazione mi fa tornare in mente Chiedere l’impossibile, un libro di Slavoj Žižek – acuto filosofo marxista critico con il comunismo – che leggevamo a bordo durante una missione. Infatti la sera avevamo istituito una sorta di club del libro in cui leggevamo vari testi, tra cui questo, e poi ragionavamo insieme su come si poteva cambiare il sistema, in particolare in materia di immigrazione. Credo che abbiate entrambi ragione quando dite che tenere un gruppo di persone al di fuori della struttura sociale, dove ci sono dei diritti e dei doveri, crea questa nebulosa di persone che appare strumentale al capitale perché è molto facile sfruttarla. Non solo, ma anche il tuo e il mio stipendio sono più bassi perché tutti abbiamo meno potere contrattuale. A livello di marinai questa cosa è ben nota e deriva dalla consistente presenza di marinai filippini. Questi sono bravissimi e hanno una cultura marinaresca enorme, però hanno anche una cultura del lavoro molto diversa dalla nostra, a cominciare dalla remunerazione economica per loro accettabile. Infatti lavorano tantissimo, non vanno mai a casa e spesso e volentieri prendono la metà di quello che prende, o meglio prendeva, un marinaio italiano. Il che ha portato, poco sorprendentemente, a una diminuzione degli stipendi, soprattutto per i mozzi. Quando ho iniziato a lavorare in mare, i miei colleghi si lamentavano dei filippini… ma il problema è che si lamentavano dei filippini e non del sistema.
La stessa cosa succede anche tra chi raccoglie i pomodori, che spesso viene pagato 3 euro l’ora. […]
Dovremmo essere consci che, se oggi paghiamo i pomodori una certa cifra, è anche perché sono raccolti da gente sottopagata. Se fossero pagati il giusto, ci costerebbero di più.
[…] Il fatto che noi dovremmo pagare di più i pomodori è un discorso corretto, perché implica che dovremmo dare più valore a quella cosa lì, in questo caso la coltivazione del pomodoro. Perché per tutto ci vuole tempo, per le cose buone ci vuole tempo, e alla fine il lavoro in sé è pagare il tempo che utilizziamo per farlo. E questo potrebbe anche portarci a ragionare su come spendiamo i nostri soldi e sul loro effettivo potere di acquisto. Io ho iniziato a lavorare venti-venticinque anni fa e nel frattempo il mio stipendio non è aumentato tantissimo e anzi il suo potere di acquisto è diminuito. A tal proposito, ricordo che in un corso cui ho partecipato qualche tempo fa spiegavano i livelli di successo a partire dal caso dell’imprenditore spagnolo Amancio Ortega, quello che ha creato Zara e i marchi collegati. In Spagna, negli anni Novanta, lui era un esempio di imprenditore di successo, un po’ come in Italia poteva esserlo Berlusconi. Nei negozi Zara i capi di abbigliamento sono venduti a bassissimo prezzo, però i prodotti offerti cambiano ogni quindici giorni. Questo ti dà la sensazione che quello che tu compri è a suo modo esclusivo, perché quindici giorni dopo non c’è più, e dunque non sono tantissime le persone che potrebbero avere il tuo stesso vestito. Tra l’altro, anche con il tuo modesto stipendio puoi comprare tanti vestiti ogni quindici giorni, e li puoi comprare perché costano poco. Via via che seguivo il corso, io mi convincevo sempre più che non era un imprenditore di successo ma un cabrón, nel senso che stava creando una falsa realtà, dove ti illudi di essere un privilegiato perché puoi comprare spesso vestiti sempre diversi, senza pensare per un attimo a chi li produce e a quanto guadagna. Basti pensare che una maglietta costa 3 euro. Basare il successo sull’essere privilegiati è un discorso veramente meschino e inumano, a cui solo una controcultura forte può cercare di mettere riparo. Ma non è solo questo, è anche quell’aspetto altrettanto tremendo del sistema capitalista identificabile con il consumismo, con questa ossessione a comprare. [….] Non ci fanno capire quale sia il valore reale del tempo, il valore reale delle cose. Anche per cucinare un buon piatto ci vuole tempo… ieri ho fatto il ragù, e ci ho messo un bel po’. Al contrario, oggi si impara un altro modo di vivere, che è quello del fast food, del fast relationship, del fast fashion, tutto è veloce, tutto è smart. È questo il modo in cui opera l’attuale sistema, un modo funzionale al suo riprodursi gestito da una piccola élite che lo alimenta a proprio beneficio.
[…]
Se ci pensi è paradossale che chiunque di noi, di noi occidentali, con qualche centinaio di euro possa raggiungere comodamente uno qualunque dei paesi di partenza di queste persone, e loro invece spendono migliaia di euro, rischiando la pelle, per fare lo stesso itinerario.
Sì, è davvero paradossale. Noi ormai viaggiamo in low cost: l’altro giorno per venire in Italia ho comprato un biglietto in partenza da Madrid e ho speso 55 euro. Quando si tratta di migranti, invece, su una stessa barca magari ci sono persone che hanno pagato 2.500 dollari a testa perché arrivano per esempio dal Bangladesh e altre che hanno pagato 400 dollari a testa, perché arrivano da paesi più vicini. Ma di certo nessuno ha mai pagato 55 euro per un passaggio.
Qui c’è proprio una questione cruciale: non riconosciamo che il diritto sia legato alla persona.
Io invece ci credo ancora, in tutto e per tutto, e quando vedo come trattiamo queste persone, quando vedo la supponenza del potere e il disprezzo per l’altro che ci sta dietro, capisco che è l’intero sistema che va cambiato.
Lascia un commento