Ovunque si fanno orti per autoprodurre cibo sano ma anche per cooperare e per prendersi cura della terra, cioè di noi stessi. Ma si fanno anche orti a misura di bambino e bambina per rompere l’astrazione dell’imparare senza sperimentare
di Flora Colacurcio*
Questo è il tempo degli orti ribelli. Si fanno orti per produrre cibo, certo; ma soprattutto per non rassegnarsi al senso d’impotenza cui questa crisi altrimenti ci condanna. Si fanno orti perché l’autoproduzione è l’emancipazione da un’economia che ci stritola e riduce tutto a merce; anche le nostra stessa vita.
Si fanno orti comunitari, per socializzare, condividere imparare a cooperare. E appaiono orti, sfacciati e irriverenti, nelle aiuole dei parcheggi e nelle aree abbandonate delle città.
Orti appollaiati sui balconi, arrampicati sulle pareti dei palazzi e ciondolanti da vasi appesi al soffitto. E poi: orti a spirale per far fluire l’energia, orti a stella e orti mandala.
Orti che diventano opere d’arte da guardare dal cielo e da assaporare qui, sulla terra. Orti sinergici naturali, etnici e tradizionali. Orti giardino e food forest.
Orti biodinamici che ci connettono alla volta del cielo, e orti selvatici le cui “erbacce” sono alleate preziose per il nostro benessere e per la “pacciamatura”. Orti ovunque, dunque, per tutti i gusti. E tutti rigorosamente biologici, a sancire la pacifica ribellione contro un sistema che distrugge la natura piegandola alle proprie esigenze di “uso e consumo” attraverso l’uso di pesticidi e diserbanti.
La vita e la terra
Coltivare un orto, quindi, non è un ritorno alla terra solo per necessità, ma è anche un gesto per riformulare una cultura che manca della consapevolezza fondamentale che la nostra vita dipende dalla terra; che la nostra salute dipende dalla salute della terra; che prenderci cura della terra significa prenderci cura di noi stessi; che la terra ci unisce tutti, perché la terra è quel luogo in cui tutti siamo, luogo imprescindibile, nel quale ricostruire quel senso del “noi” da cui ripartire per rifondare una società sana e consapevole.
Così l’orto diventa una via per ristabilire l’alleanza tra uomo e natura; l’uomo fa pace con la natura e guarisce se stesso. Per questo motivo, sempre più adulti, come insegnanti, genitori e contadini, creano “orti a misura di bambino”, perché i nostri figli possano vivere fin dall’infanzia quel legame indispensabile con la natura, che ci insegna a “stare bene nella vita”.
L’orto dei bambini è “scuola natura”, che li accompagna ad uscire fuori dalla boccia di cristallo attraverso la quale “guardano ma non toccano”, “leggono ma non vivono”, “imparano ma non sperimentano”, fino a ritrovarsi in un mondo astratto, in cui la natura è un “altro mondo” di cui si parla sui libri o alla televisione.
“Abbiamo perso la memoria di essere parte del mondo e di far parte della natura”, scrive Marcella Danon, counselor e fondatrice della scuola di ecopsicologia in Italia, nel libro Scuola Natura (Red edizioni) di Italo Bertolasi “così abbiamo dimenticato come entrare in natura sentendoci a casa nostra e non estranei, abbiamo perso la percezione di essere tutti figli – e non figli unici! – del mondo, abbiamo dimenticato nostra Madre. E questo ha un prezzo. Il prezzo è il disagio, il malessere, il senso di incompletezza o insoddisfazione latente, sintomi sempre più diffusi tra gli adulti nella società contemporanea. E tra i bambini? Ci sono nuovi disturbi, nuovi nomi”.
“Il deficit di attenzione (ADD) e l’iperattività che spesso lo accompagna (ADHD) possono anche essere considerati come ‘disturbo da deficit di natura’ “, scrive la psicologa Silvia Vegetti, nella presentazione del libro “L’ultimo bambino nei boschi” (Rizzoli), di Richard Louv, pedagogista statunitense. Questo, dunque, è il tempo che ci chiama a ritrovare “la terra sotto i nostri piedi”, se non vogliamo cadere; è il tempo in cui dobbiamo imparare ad essere “terrestri” per sentirci parte della natura e “tornare a casa”.
Questo impone una riconsiderazione della nostra “identità”, che in termini più ampi deve essere capace di includere anche l’ambiente di cui facciamo parte, e perché questo avvenga dobbiamo recuperare la nostra relazione percettiva con la natura. Scrive lo scrittore, viaggiatore ed ecologista David Abram: “Il recupero della dimensione sensoriale incarnata dell’esperienza porta con sé un recupero del paesaggio vivente in cui siamo corporalmente radicati. Quando facciamo ritorno ai sensi, scopriamo gradualmente che le nostre percezioni sensoriali sono semplicemente la nostra porzione di un ampio lavoro reticolare conpenetrante di percezioni e sensazioni trasportate da innumerevoli altri corpi – aiutate cioè non solo da noi, ma da correnti gelide che precipitano giù dai pendii granitici, da ali di civetta, licheni, e dal vento imperturbabile, invisibile…”.
Abram riprende il concetto del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty della “carne del mondo” collettiva per parlare di questo vasto tessuto planetario di sensazioni e percezioni interdipendenti in cui le nostre stesse esistenze (come quelle degli alberi, dei corvi e dei ragni) sono radicate. Il termine “carne” fornisce ad Abram un modo di parlare della realtà simile a un tessuto intrecciato di esperienza – e quindi del mondo materiale come totalmente animato e vivo.
La palude, l’albero e il lombrico
Tornare a far parte della Terra e della Natura significa proprio imparare a percepire e a riconoscere la vita nella “materia”; a comprendere che la realtà è composta da una rete di relazioni tra “soggetti viventi”, e non da una serie di “oggetti” di cui disporre a nostro piacimento. Questo cambiamento di prospettiva è fondamentale affinché la montagna, l’oceano, la foresta, la palude, l’albero, la mucca, il fiore, il lombrico, eccetera, vengano trattati da noi umani come “Soggetti viventi” e non più usati come degli “oggetti”.
Coltivare l’orto è una via per comprendere questo, e far nascere quella “coscienza ecologica” da cui formare una “identità terrestre” in cui gli elementi fondanti non sono razza, lingua, e tutto ciò che convenzionalmente determina l’appartenenza ad un popolo (elementi questi che troppo spesso alimentano nuove forme di razzismo e che si pensano statici), ma è il riconoscere parte del “nostro popolo”, della “nostra comunità”, della “nostra natura”, tutti gli esseri viventi che come noi vivono sulla terra, e che con noi partecipano al mantenimento della vita di tutti; che con noi partecipano al mantenimento della vita della nostra Madre Terra. Solo da questa consapevolezza nasce un modello di vita sano e sostenubile.
E l’orto a misura di bambino? L’orto a misura di bambino è un luogo nel quale è facile incontrare Fate, Folletti e Gnomi, creature magiche inventate dall’immaginazione per esprimere le forze in atto nella natura. I bambini sanno che il mondo è più vasto di quello che percepiamo solo con i cinque sensi, e si aiutano con l’immaginazione e la fantasia per riconoscere le diverse forze del mondo e dialogare con loro; con molta pazienza e tanto amore, forse riusciranno ad insegnarlo anche a noi adulti.
L’orto a misura di bambino, è un luogo dove tornare ad essere poeti. Per questo è l’orto più ribelle di tutti.
*Tra le promotrici del Progetto Gea con le “madri di Bettona”
DA LEGGERE
Il “Ribellarsi facendo” spiegato ai bambini
Lascia un commento