
L’anno scolastico in presenza è finito. Almeno in Italia, visto che gli nella maggior parte dei paesi europei le scuole riapriranno nel mese di maggio. Da noi, invece, se tutto andrà bene, si tornerà in aula a settembre, probabilmente in modo scaglionato, facendo i turni, come in fabbrica, o a giorni alterni, come le automobili nei giorni di smog, in modo da provare a garantire al contempo il diritto allo studio e quello alla salute.
In questa lunga e complessa transizione, a due mesi dalla chiusura delle scuole di tutta Italia, a causa del diffondersi della pandemia Covid-19, è importante e possibile provare a tracciare un primo bilancio, seppur parziale e in divenire, sullo stato dell’arte della didattica a distanza, vero e proprio pilastro della scuola online. Nella speranza che, usciti dalla logica emergenziale, il mondo della politica decida finalmente, con lungimiranza, intelligenza, magari incalzato dalla società civile, di attuare un piano straordinario di investimenti pubblici per il rilancio del sistema scolastico nazionale, dopo anni di sciagurati tagli che hanno determinato un drammatico impoverimento delle risorse a disposizione, senza le quali è impossibile realizzare una scuola autenticamente democratica e inclusiva.
Al al di là di alcune immediate reazione manichee, che hanno immediatamente dipinto la didattica a distanza o come una maledizione portatrice di sciagure o come la panacea di tutti i mali, essa presenta, se analizzata con lucidità, sia preoccupanti zone d’ombra sia potenziali opportunità su cui è importante fermarsi a riflettere, per capire in quale direzione costruire la scuola del presente e dell’immediato futuro.
Partiamo dalle problematicità. Innanzitutto non è assolutamente vero che la dad mette tutti gli studenti sulla stessa barca, riducendo addirittura le distanze nei percorsi di apprendimento, anzi le conferma e in molti casi le amplia profondamente. La scuola che già in tempi meno sospetti era tacciabile di portare con sé le diseguaglianze presenti nella società e di non rappresentare più quell’ascensore sociale che una comunità democratica dovrebbe affidarle come compito, può raggiungere con la didattica online, cime di paradossale esclusione e difficoltà. Infatti, con il nuovo modus operandi, le fasce sociali più povere e svantaggiate rischiano una dispersione indotta. E siamo davvero in presenza di una scuola rovesciata, dove allievi magari volonterosi, ma carenti di mezzi, che vivono in famiglie disagiate, sono messi nelle condizioni di non poter partecipare alla didattica o di farlo in modo precario. A molti bambini e ragazzi mancano i pc, mancano le connessioni stabili e con un numero di giga sufficienti a garantire l’ascolto di una lezione, manca un’educazione ad un uso responsabile della rete, mancano le conoscenze per applicare semplici istruzioni o addirittura mancano degli spazi domestici adeguati in cui sia possibile svolgere le attività scolastiche. Per non parlare degli studenti con disabilità o dei bambini della scuola primaria che necessitano per poter accedere a piattaforme, caricare e scaricare i materiali didattici di una presenza costante di adulti, su cui non tutti i bambini possono contare. Ed è anche in un certo senso, quasi eufemistico, poco inclusiva nei confronti di una parte di docenti, magari sulla soglia della pensione, che si trovano in grave difficoltà ad utilizzare strumenti informatici, abituati a tutt’altri tipi di didattiche, ma non per questo meno efficaci.
Inoltre, non è da trascurare l’impatto che la dad può avere anche su quella fascia di allievi considerati nativi digitali e dotati di svariati devices: non è forse eccessivo spingere adolescenti e giovani, nonché bambini appena scolarizzati, a passare ore davanti ad uno schermo di computer o ancor peggio ad associare l’idea di scuola ad un telefono cellulare?
La scuola è una comunità educante fatta di socializzazione, confronto, cooperazione e condivisione: la didattica a distanza, invece, a fronte del coinvolgimento della parte di allievi più strutturati e dotati di adeguati strumenti, tende a favorire l’anonimato e la marginalizzazione degli studenti più deboli, i quali risultano, a parte rare eccezioni, ancor più passivi e atomizzati all’interno dei processi di apprendimento digitali.
In secondo luogo, la dad scopre il vaso di Pandora della grande lotta tra i colossi internazionali della telefonia e dell’informatica per conquistare posizioni di egemonia all’interno del redditizio mercato scolastico dell’e-learning. La questione è particolarmente delicata e va ben oltre gli ingenti profitti che le piattaforme online stanno realizzando durante questa crisi, in quanto investe direttamente la professione docente e le modalità e i fini dell’insegnamento. La didattica a distanza, infatti, rischia di trasformare gli insegnati in asettici tecnici informatici e in somministratori di video, di esercitazioni e verifiche. Tale tendenza, già in atto da decenni con l’esaltazione, spesso acritica, della scuola delle competenze, delle certificazioni e del digitale come condicio sine qua non dell’apprendimento, può subire una accelerazione proprio con la didattica a distanza, che spinge ancor più in soffitta il docente educatore. Senza dimenticare il tema della privacy e della profilazione dei dati, nonostante le pubbliche rassicurazioni e i patti di responsabilità firmati dalle aziende informatiche. Dal registro elettronico alle piattaforme didattiche, la scuola è un succulento boccone per un capitalismo globale in affanno e alla disperata ricerca di guadagni, da realizzare a partire dal controllo delle vite (gusti, opinioni, abitudini, consumi) dei cittadini digitali, attraverso la gratuità di servizi, che nasconde la vecchia regola secondo cui quando una cosa è gratis vuol dire che la merce sei tu.
Infine, la didattica a distanza, con i suoi ritmi contingentati e con i relativi e costanti problemi di connessione, di accessi e di password, porta con sé l’effetto di ridurre gli spazi di discussione e confronto tra docenti e allievi. Alcuni docenti, infatti, hanno interpretato tale modalità di insegnamento come un mezzo, impersonale, per assegnare esercizi da svolgere, capitoli da studiare o per somministrare test di varia natura, generando spesso negli allievi una disaffezione nei confronti dello studio.
Passiamo ora a vagliare gli aspetti positivi della dad, quelli da cui potrebbero sorgere interessanti opportunità da cogliere. In primo luogo, bisogna riconoscere che la didattica a distanza ha permesso di portare avanti, seppur tra mille difficoltà, l’anno scolastico e soprattutto ha consentito di mantenere vivo il rapporto tra gli insegnanti e le loro classi. Un passo importante, considerando il periodo di solitudine forzata e di malessere generalizzato. L’elevata partecipazione alle lezioni online, per quanto difficoltosa e spesso iniqua, ha evidenziato la voglia di stare insieme della maggior parte degli studenti: ciò potrebbe suggerire di ripensare alle troppe pratiche di insegnamento imperniate sulla distanze, sul distacco emotivo tra discente e insegnante, per riportare l’attenzione sulla centralità del rapporto personale e della fiducia tra individui che si stimano come condizione indispensabile per un apprendimento significativo. La dad, seppur necessaria e parzialmente utile, rilancia la forza della didattica in presenza.
Inoltre, se è pur vero che certi docenti paiono aver preso un gusto quasi sadico nel sottoporre agli allievi quiz e test con improbabili correttori automatici, è anche vero che la dad, con annessa la promozione de iure, potrebbe aver fatto (ri)scoprire la possibilità di un insegnamento non finalizzato esclusivamente al voto e dall’aspetto laboratoriale e multidisciplinare. La valutazione formativa, infatti, è altra cosa: è prendersi cura dell’apprendimento degli allievi, della loro crescita rispetto ai loro personali tempi di maturazione. Dunque anche questo aspetto potrebbe suggerire di non ripiombare nelle vecchie cattive abitudini della scuola prestativa, compulsiva, votocentrica. Gli insegnanti hanno certamente il dovere di valutare la crescita degli allievi, ma tale pratica è qualcosa d’altro rispetto a un numero. Gli allievi e le allieve di ogni età devono essere coinvolti nell’apprendimento non a partire da un sistema di premi e punizioni, ma da uno stimolo costante volto a comprendere al meglio le pluralità di mondi che li circonda per provare a vivere in modo indipendente e consapevole.
La crisi innescata dal Covid-19 è dunque una sorta di Giano bifronte: da un lato può ribadire e accentuare le disuguaglianze del sistema scolastico italiano, oppure può trasformarsi in una grande opportunità per aprire una vasta discussione pubblica intorno a una domanda cruciale per una democrazia sostanziale e non soltanto formale: quale scuola sta alla base di una società giusta? La strada da intraprendere, come sempre, dipende da noi.
Matteo Saudino e Chiara Foa sono due insegnanti e vivono a Torino
Bell’articolo, equilibrato, che spinge a ragionare e valutare la presente emergenza per trarne lezioni per il futuro, e non per giudicare in modo manicheo semplicemente lo strumento dad. Complimenti. Da genitore che cerca di seguire con costanza i figli in questa lunga fase di dad, concordo in pieno con i contenuti dell’articolo.
Mi sembra che ci sia molto poco da ragionare, anche in presenza di chi vuole sempre dare un colpo al cerchio e uno alla botte. L’Europa riapre le scuole a maggio, sia pure in maniera modulata; noi trattiamo allo stesso modo situazioni gravi – e sarebbe interessante capire perché così gravi – come la Lombardia e zone quasi completamente libere dal contagio come molte regioni del Sud, l’Umbria e altre. Lo Stato, soprattutto attraverso la ministra dell’istruzione, non solo chiude tutte le scuole, anche quelle che potrebbero funzionare, ma obbliga tutti a usare la Dad, magari dando anche indicazioni quasi prescrittive circa l’uso delle piattaforme. In altre parole, si vende la scuola a google. E noi che facciamo? Angelicamente cerchiamo di mettere a frutto l’opportunità, senza nemmeno renderci conto che la Dad licenzierà insegnanti, aumenterà gli alunni per classe, renderà obsoleta la libertà d’insegnamento, uniformerà masse di giovani applicando loro meccanismi psicologici che ne annienteranno la volontà. Complimenti! E, tanto per capirci, sia chiaro che quanto ho scritto non esprime rifiuto della tecnologia ma solo opposizione a chi vuole trasformare la scuola, e poi forse l’Italia, in una piattaforma Rousseau. Povero Jean Jacques, in mano a chi è finito!