Ci sono paesi arroccati sull’Appennino nei quali gli orti si accalcano ancora intorno alle fontane e le dispense nelle cucine sono ancora piene di sottoli, sottaceti, conserve e salse. Spesso si riconoscono anche frantoi e mulini ad acqua mentre in tante case ci sono telai non più utilizzati: forse dovremmo smettere di pensare che quei paesi sempre più abbandonati hanno bisogno di valorizzazione del territorio, cioè turistificazione e musealizzazione. Se è vero che bisogna ripartire da quello che c’è, come suggerisce Pazzagli, le pratiche locali di auto-produzione e di trasformazione artigianale, assieme all’anacronistica e radicata economia del dono potrebbero essere il punto di partenza. Secondo Donatella Gasparro la trasformazione nei paesi può significare, ad esempio, sedersi con la nonna a imparare a tessere, magari applicando l’ingegneria moderna per reinventare il telaio, e condividere nuovi modelli in open source per replicarli altrove. La civiltà contadina ci lascia in eredità non pezzi da museo, ma infrastrutture che Illich chiamerebbe conviviali reinventabili e ripristinabili per fare esattamente quello per cui sono state inventate. La vera restanza, per dirla con Teti, è quella che ripristina e reinventa un’economia tangibile nella quale i giovani possono trovare soddisfazione nel provvedere ai bisogni reali delle persone
“My intent is not reactionary, nor even conservative, but simply subversive. It seems that the utopian imagination is trapped, like capitalism and industrialism and the human population, in a one-way future consisting only of growth. All I’m trying to do is figure out how to put a pig on the tracks” Ursula K. Le Guin
È un giorno di marzo e l’aria indecisa di una quasi primavera è appesantita da una campana a morto che sembra voler suonare per sempre. In un paese come questo non c’è bisogno di chiedere per chi suona la campana: la campana suona sempre per te. Nessun uomo è un’isola diventa un motto tangibile quando i piccoli gruppi di case che popolano le colline, stretti attorno ai campanili, sono abitati da poco più di seicento persone sulla carta, e cinquecento scarse nella realtà. Perdere un solo membro per queste comunità significa perdere un pezzo di continente: un’erosione umana lenta ma decisa che porta via pezzi di una identità collettiva.
Spopolamento, in italiano, è una parola dal senso integro, genuino, più amicale del corrispettivo inglese depopulation. Mentre depopulation rimanda alla popolazione come soggetto statistico, spopolamento parla di popolo, di gente, di pueblos, paesi. Spopolamento come sottrazione della comunità, perdita dell’unità che rende un insieme di persone un popolo. Spopolamento come perdita del paese-pueblo-popolo, una entità a misura d’uomo che esplode in una modernità sparpagliata, spaesata, alienata. Lo spopolamento, nota Teti, non è la fine di questo o quel paese, ma “la chiusura di un mondo” (Teti, 2022). La buona notizia è che questo mondo, seppur malmesso, non è ancora chiuso – e non dovremmo lasciare che chiuda.
“Non c’è più niente”, assieme alle declinazioni “non c’è più nessuno” e “non si fa più niente”, sono frasi che ho sentito fin troppo spesso in questo mese e mezzo che ho trascorso in un piccolo paese arroccato sul Trigno nel Molise interno. Nonostante lo scoramento e la resa che pervadono l’orizzonte cognitivo della maggior parte degli abitanti, non posso fare a meno di notare che, dopotutto, in questi paesi qualcosa c’è.
A PROPOSITO DI MOLISE CHE ESISTE E SI REINVENTA:
Queste colline di pietra sono imbevute d’acqua: non a caso le frazioni dei paesi prendono i nomi delle fonti. Boschi antichi e boschi nuovi – che a volte nascondono ulivi, rivelando un non lontano passato agricolo – tappezzano i fianchi delle alture e delle valli, alternati a campi di modeste dimensioni: spesso uliveti immersi in tappeti di pratolina, qualche vigna giù a valle, a volte verdeggia il grano giovane, se si è fortunati s’intravede qualche capra. Attorno alle fontane si accalcano gli orti, e anche se in inverno “non c’è niente”, cavoli verdi e rossi, finocchi e rape, seppure spettinati dalla neve appena sciolta, svettano in fila, orgogliosi. Ma gli orti non sono solo ‘fuori’: il paese è tutto un alternarsi di pezzetti di terra, piccoli campi di fave, alberi da frutto sparpagliati (i mandorli iniziano a sfiorire) e carciofaie tra scalinate di pietra. Anche se l’inverno sta finendo c’è grande traffico di treruote, trattori e carriole: i camini devono continuare a bruciare, “non fosse che per l’odore dell’arrosto”. I maiali pasciuti l’anno scorso sono stati già macellati a gennaio. Ma il tempo di salsicce e salami non è finito: ancora qualcuno impinza budella di carne macinata e arrossata da interminabili strati di polvere di peperone (seccato e sbriciolato l’estate scorsa), e i soffitti delle cantine sono ancora addobbati a festa da file di salsicce. I più fortunati hanno qualche barattolo di farro (sanguinaccio, o nutella dei poveri) nei frigoriferi. Le dispense sono ancora piene: sottoli, sottaceti, verdure in agrodolce, conserve e salse e pomodori, barattoli di tutte le forme e dimensioni – ed è difficile andar via dalle case delle signore senza averne ricevuto uno in regalo.i
La narrazione delle risorse
I paesaggi interni e interi del Molise rurale, che una geografia aspra ma non troppo ha nascosto all’industrializzazione incontrollata, offrono ancora spunti per un futuro altro. Ma i paesaggi, e il valore identitario e di sussistenza che incarnano da secoli per gli abitanti, sono spesso ridotti a “risorse”, nelle ridondanti retoriche sulle aree interne. Queste risorse sono generalmente considerate ciò da cui ripartire per la “valorizzazione” del territorio, una valorizzazione troppo spesso intesa in senso strettamente monetario, e che inevitabilmente scivola nella mercificazione, attraverso più o meno espliciti tentativi di turistificazione e musealizzazione.
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Quella delle risorse è una narrazione che rende ulivi, maiali, fonti, orti, e boschi commodity, merce da vendere. Non conta più il valore d’uso, l’utilità immediata e di sussistenza che ulivi, maiali, fonti, orti e boschi hanno incarnato per secoli: conta solo il loro valore di scambio, il loro prezzo. La narrazione delle risorse pervade gli scritti dei più radicali degli intellettuali quando si tratta di aree marginali, rispecchiando l’ottica riformista della retorica della “transizione”: un processo per natura graduale, che sembra implicare una lenta evoluzione verso un futuro moderno, digitale, ‘verde’ e sviluppato. Quella della transizione è una retorica morbida che non riflette né l’urgenza postaci dalla crisi climatica e ambientale globale, né l’intollerabile ingiustizia sociale su cui il mondo moderno a cui aspiriamo è inevitabilmente costruito.
Da “risorse” a “pratiche”
Se è vero che bisogna “ripartire da quello che c’è, non da quello che non c’è” (Pazzagli, 2021), le pratiche locali di auto-produzione e di trasformazione artigianale, assieme alla testarda condivisione, e anacronistica e radicata economia del dono – ovvero quelle tracce di una tangibile economia morale contadina (Scott, 1977) propria di quel mondo che va chiudendosi – potrebbero essere il punto di partenza. L’emancipazione per i territori left behind nella corsa alla modernità e alla crescita, non può tradursi nel trasformare “risorse” in “prodotti” per “mercati di nicchia” e “slow tourism” – slogan che edulcorano il processo di fondo che resta la mercificazione del territorio.
La vera emancipazione dei paesi delle aree interne non può significare “condividere il bottino” del mondo del “centro”, trasformare paesi in città, persone in lavoratori salariati alienati (che siano operai o manager) e consumatori. Come per la lotta (eco)femminista, la vera emancipazione non è entrare nella forza lavoro, ma smantellare l’egemonia del lavoro salariato sul lavoro riproduttivo e di cura alla radice (Barca, 2020). La mia proposta è cercare l’emancipazione nell’uso diretto e democratico delle “risorse” in quanto tali, e nella demercificazione dei “prodotti” della terra e dell’artigianato: non più “opportunità di sviluppo”, ma opportunità di auto-determinazione, rilocalizzazione, riappropriazione della realtà materiale dell’economia.
Oltre gli ecomusei
Assieme alle pratiche vive e vegete, o vive e basta, ce ne sono decine che vanno assopendosi, o che sono sparite del tutto, i resti delle quali si intarlano nelle rimesse delle case vecchie. L’intera piccola industria contadina, caposaldo di una economia di paese quasi auto-sufficiente, s’è pezzo a pezzo disintegrata (Pazzagli, 2021). Ciò che resta sono le rovine di mulini ad acqua raggiungibili solo in 4×4; la molazza di pietra dell’ultimo frantoio di paese, abbandonata sulla contrada; i due telai di una sarta impolverati in soffitta, smontati da venticinque anni; la mangèinel di legno nascosta in una vecchia stalla. Le querce nascondono la contrada: si vedeva dal paese quando le greggi pascolavano sui fianchi della collina. Nei campi non cresce più il lino coi suoi fiori indaco.
Le intenzioni per valorizzare il mondo contadino che va sparendo non mancano, ma questa “valorizzazione” tende sempre alla musealizzazione, sia quando amministrazioni locali instaurano musei della civiltà contadina, che quando accademici propongono archeologie rurali per creare percorsi didattici e turistici (Pazzagli, 2021). Propongo di andare oltre la didattica, gli ecomusei e il turismo “esperienziale”. La vera valorizzazione delle pratiche contadine potrebbe forse risiedere nella rilocalizzazione dell’economia e delle attività (ri)produttive (De Lellis, 2021) oltre l’alienazione imposta dalla modernità. I paesi delle aree interne potrebbero essere laboratorio vivente per una urgente decrescita, verso una decolonizzazione dell’immaginario (D’Alisa et al. 2015) e all’insegna dell’autonomia. I vecchi mulini ad acqua potrebbero essere rivalorizzati, più che sulle mappe escursionistiche, come necessaria piccola industria artigianale per la soddisfazione dei bisogni locali. La civiltà contadina ci lascia in eredità non pezzi da museo, ma infrastrutture che Illich chiamerebbe conviviali (Illich, 1973) reinventabili e ripristinabili per fare esattamente quello per cui sono state inventate: molire il grano.
Riportare l’economia di paese in paese
L’emancipazione dei paesi potrebbe consistere nel risvegliare l’economia di paese in paese – invece di cercare ottusamente di portare l’economia della città in paese. La modernità ha generato il trascendere delle necessità materiali e dell’economia di paese; lo ‘sviluppo’ ha prodotto una quotidianità distaccata dalla realtà fisica, dal territorio, dalla comunità e dalla riproduzione sociale. Emancipazione è trascendere la banalità del linguaggio del ‘lavoro’, e intraprendere un più profondo discorso sui bisogni – quelli reali, finali, e non i mezzi per soddisfarli. Qual è il contributo dei lavori ‘moderni’ per l’economia di paese, per la riproduzione sociale e del paesaggio? I lavori per cui i giovani se ne vanno dai paesi producono soltanto soldi – e alienazione, profitto per chi ha già troppo, e alla peggio anche disastri ambientali, rientrando spesso nelle categorie di bullshit jobs (Graeber, 2018) e addirittura batshit jobs (Rübner Hansen, 2019). La vera restanza (Teti, 2022) è quella che ripristina e reinventa un’economia tangibile in cui noi giovani possiamo trovare soddisfazione nel provvedere ai bisogni reali delle persone.
Nei paesi dell’Italia interna non serve una transizione, ma una trasformazione profonda e urgente. La trasformazione in paese non significa spolverare il telaio della nonna ed esporlo nel museo comunale. La trasformazione in paese significa ripopolare il paesaggio di fiori indaco; sedersi con la nonna ad imparare a tessere; applicare l’ingegneria moderna e reinventarlo, il telaio, e condividere nuovi modelli in open source per replicarli altrove – sulla scia di design global, manufacture local; e ricordarsi che i fiori di ginestra si usano per fare il giallo, il mallo delle noci per il nero. Perché il passato
“può e deve essere riscattato come un universo, un mondo sommerso, di potenzialità diverse non compiute ma suscettibili di future realizzazioni” (Teti, 2017).
Note
i Tutte le pratiche e le tradizioni menzionate nel saggio si riferiscono ad esperienze vissute e storie ascoltate durante ricerca etnografica sul campo nell’ambito del mio dottorato di ricerca in Geografia Economica all’Institute for Geography dell’Università di Münster, Germania.
Bibliografia
BARCA, S. (2020). Forces of Reproduction. Notes for a Counter-Hegemonic Anthropocene. Cambridge University Press
DE LELLIS, A. (2021) “Per una “Società della cura” dal basso e dai movimenti”, in Un altro Molise è possibile, Il Bene Comune edizioni
GRAEBER, D. (2018) Bullshit jobs: a theory. Simon & Schuster
ILLICH I. (1973) Tools for Conviviality, Harper & Row
PAZZAGLI, R. (2021), Un Paese di paesi. Luoghi e voci dell’Italia interna, Edizioni ETS, Pisa.
PAZZAGLI, R., GOLINO, A., (2021) “Il Molise delle aree interne e dei paesi”, in Un altro Molise è possibile, Il Bene Comune edizioni
RÜBNER HANSEN, B. (2019) “Batshit Jobs” – No One Should Have to Destroy the Planet to Make a Living’, OpenDemocracy UK
SCOTT, J. C. (1977). The Moral Economy of the Peasant Yale University Press
TETI, V. (2017) Quel che resta. L’Italia dei paesi tra abbandoni e ritorni, Donzelli
TETI, V. (2022) La Restanza, Einaudi Editore
Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista web, gratuitamente scaricabile, Saperi Territorializzati (n. 5/2023, Paesi in transizione e transizioni in paese), a cura di CISAV-APS Centro Indipendente Studi Alta Valle del Volturno (titolo completo dell’articolo L’economia di paese oltre la mercificazione del territorio)
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