La fabbrica dell’odio, tra violenze, razzismo e patriarcato si espande. Le responsabilità dei media sono enormi. La domanda è: come se ne esce? Non c’è dubbio, la scuola può avere un ruolo molto importante, tuttavia ognuno di noi, osserva Anna Foggia Gallucci in questo articolo, ha a disposizione uno spazio, piccolo o grande che sia, e non può ignorarlo, perché è in quello spazio che la sua vita entra in relazione col resto del mondo
di Anna Foggia Gallucci*
La lettura dei commenti sulle responsabilità del giornalismo nel clima d’odio che, negli ultimi mesi, ha raggiunto livelli inquietanti, mi innesca una catena di considerazioni.
La prima cosa che capisco, leggendoli, è che sta dentro questa riflessione la mia reazione, giorni fa, quando, nel giro di poche ore, ho visto diffondersi sui social il commento del mediatore bolognese sullo stupro che “poi la donna diventa calma” e, subito dopo, l’altro post, quello del salviniano pugliese, che si chiedeva quando (lo stupro) sarebbe accaduto a Laura Boldrini e alle donne Pd.
Di primo acchito ho pensato al tipo di Bologna come a un mentecatto, prodotto intermedio (non finale, giacché l’esito ultimo sono, appunto, gli atti di violenza) di un ambiente culturale che sta infestando il nostro Paese e dal quale paiono salvarsi soltanto risicate aree di resistenza in cui ci si ostina ad esercitare la facoltà del pensiero. Il mio orrore per quelle parole è stato profondo.
Le affermazioni del politico pugliese, d’altro canto, mi sono sembrate implicare un altro tipo di gravità: quella connessa alla risonanza della fonte, che è pubblica, gode di un seguito, è, per dirla in termini sociologici, un opinion leader, ossia un soggetto che, per la propria posizione, funge da riferimento per molte persone e ne influenza l’opinione.
Nei piccoli centri un segretario di partito esattamente come il capo di un movimento su una più larga scala, influenza elevati numeri di persone, verosimilmente in misura maggiore del disturbato “entomologo del sesso”, per utilizzare la definizione di Gramellini.
A ben poco serve quell’espulsione dal partito, pur tempestiva, anche perché incoerente con i consueti messaggi che lo stesso partito dispensa e sul quale si fonda; ricordiamo, una per tutte, che un anno fa Salvini in persona saliva sul palco di un comizio con una bambola gonfiabile per insulare la Presidente della Camera e, alle prese di distanza per la squallida esibizione giunte anche dall’interno della sua stessa area politica, rifiutava di scusarsi e rispondeva lanciando un hashtag #sgonfiaboldrini.
Ad ogni buon conto, mi è parso che i media – per tornare alle loro responsabilità – abbiano comunque scelto di dare molto più rilievo, tra commenti, analisi e meme, alle parole di Abid Jee che a quelle del leghista pugliese (oddio, “leghista pugliese”, ora che lo scrivo, mi pare un ossimoro!); me ne sono chiesta il perché e mi sono risposta che, presumibilmente, la loro oscenità faceva aprire e chiudere il discorso senza grosso impegno di ragionamento, offriva massima accessibilità senza la fatica di entrare nel terreno minato delle appartenenze politiche, non comportava il sospetto – neanche remoto – della difesa del bersaglio più mainstream in assoluto della storia dell’Italia repubblicana, Laura Boldrini.
A questo punto, l’ormai nota testimonianza di Christian Raimo sulla sua partecipazione alla trasmissione “Dalla vostra parte” condotta dall’indecoroso Belpietro, dà puntuale conto del funzionamento della fabbrica dell’odio; Raimo scrive, peraltro, che “Il problema è l’assoluta incapacità giornalistica, la povertà assoluta dal punto di vista del mestiere”. Una povertà e un’incapacità che, tuttavia, sono delittuose, perché poste al servizio della costruzione dell’odio e dello smantellamento del pensiero.
Pur confermandosi, allora, la responsabilità del giornalismo di questa buia condizione, la domanda, però, diventa: come se ne esce?
Contro il discorso d’odio, in forma d’invettiva o di banale bugia (Hannah Arendt docet: la banalità come connotato essenziale per la pervasione capillare del male) ciò che pare evidente è l’inefficacia di “una” specifica ricetta.
Questioni complesse richiedono risposte altrettanto complesse, ce lo ripetiamo sempre. È poco utile cercare una prescrizione salvifica, proporre di fare una cosa oppure un’altra. Le azioni da sviluppare sono molte, a livello micro e macro, in parallelo, senza subordine; anche qui la partecipazione e la messa in comune è indispensabile.
A livello di sistema, diversi interventi percorribili sono suggeriti anche dal report realizzato dalla commissione “Jo Cox”, istituita nel maggio 2016 presso la Camera dei Deputati, intitolata significativamente alla deputata inglese uccisa lo scorso anno da un nazionalista in piena esaltazione d’odio, che si è occupata, di raccogliere dati e approfondire il tema della piramide dell’odio. La relazione finale “esamina le dimensioni, le cause e gli effetti del discorso di odio (hate speech) definito come: l’istigazione, la promozione o l’incitamento alla denigrazione, all’odio o alla diffamazione nei confronti di una persona o di un gruppo di persone, o il fatto di sottoporre a soprusi, molestie, insulti, stereotipi negativi, stigmatizzazione o minacce tale persona o gruppo, e comprende la giustificazione di queste varie forme di espressione, fondata su una serie di motivi, quali la “razza”, il colore, la lingua, la religione o le convinzioni, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, nonché l’ascendenza, l’età, la disabilità, il sesso, l’identità di genere, l’orientamento sessuale e ogni altra caratteristica o situazione personale” (definizione ECRI-Consiglio d’Europa). In apertura, si legge che “la relazione dimostra l’esistenza di una piramide dell’odio alla cui base si pongono stereotipi, rappresentazioni false o fuorvianti, insulti, linguaggio ostile normalizzato o banalizzato e, ai livelli superiori, le discriminazioni e quindi il linguaggio e i crimini di odio”.
Vale la pena dare un’occhiata all’infografica realizzata con dati che raccontano un Italia che si nutre di false credenze, bugie e stereotipi, fondando e legittimando su questi discriminazioni e atteggiamenti violenti nei confronti di ampie fasce sociali, costruendo un clima di odio viscerale e reciproco che, giorno per giorno, va sostituendo la realtà con la mistificazione.
Le raccomandazioni per prevenire e contrastare il “discorso d’odio” coinvolgono scale diverse, com’è immaginabile; si auspica una strategia nazionale, sanzioni penali, l’autoregolazione delle piattaforme dei social network, figura istituzionali specifiche, campagne informative.
Le istituzioni scolastiche, ovviamente, sono indicate come nodali per l’azione che possono mettere in campo per salvare il salvabile. In primis, a me viene in mente di sollecitare la scuola, dai più piccoli in su, e di predisporci, noi adulti di riferimento, a imparare con loro a verificare ogni giorno una notizia. Stimoliamo questa attività nei ruoli che ricopriamo: come docenti, come genitori, come associazioni culturali, coinvolgendo l’universo associativo, amministratori pubblici dei territori, se ne abbiamo di sensibili, e tutto ciò che può venirci in mente. Proponiamo la lettura di libri in cui si affrontino i temi degli stereotipi, della violenza, del bullismo, favorendo l’attivazione di identificazioni, proiezioni e confronti.
Non restiamo inorriditi e interdetti dietro uno schermo, non giriamo altrove lo sguardo e il pensiero se ascoltiamo l’odio-in-azione; muoviamoci nei nostri territori e poi facciamo reti: reti locali, reti con altri territori, collaboriamo con quelle già esistenti e lavoriamo a cerchi concentrici.
L’approccio per reti, capillarmente, può rivelarsi più efficace dinanzi a questo autentico fenomeno da psicologia delle folle, così come Gustave Le Bon sul finire dell’Ottocento spiegava: «Dal solo fatto di essere parte di una folla, un uomo discende da generazioni su una scala di civiltà. Individualmente, potrebbe essere un uomo civilizzato; nella folla diviene “barbaro” in preda all’istinto. Possiede la spontaneità, la violenza, la ferocità, e l’entusiasmo e l’eroismo dei primitivi, tendente ad assomigliare dalla facilità con cui si lascia impressionare dalle parole e dalle immagini — che sarebbe del tutto priva di azione se messa in atto da ogni singolo individuo isolato — indotta a commettere atti contrari ai suoi interessi più ovvi e alle migliori abitudini. Un individuo nella folla è un granello di sabbia fra altri granelli di sabbia, mossi dalla volontà del vento».
Penso che chi ancora conserva la lucidità per osservare il pericolo della diffusione dell’odio abbia la responsabilità di stimolare comportamenti “civili” nel proprio circuito di contatti: familiari, amicali, professionali e ricercando l’interazione con i propri riferimenti culturali, politici, sociali.
Livelli diversi di azione hanno molti più punti di contatto di quanto possa apparire, e il condizionamento è reciproco.
Un lavoro “di fino”, insomma, una tessitura costante, cui è necessario non sottrarsi, perché ognuno di noi ha a disposizione uno spazio, piccolo o grande che sia, e non può ignorarlo, perché è in quello spazio che la sua vita entra in relazione col resto del mondo.
Anche se, dopo questa estate, può apparire una lotta impari, la posta in gioco fa valere comunque la pena di tentare.
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Cinzia dice
Analisi lucida e concreta.
Possiamo ripartire.
Forza!