La vita di ogni giorno, pur con intensità diverse, è ovunque aggredita da guerre, migrazioni forzate, fame, disastri ambientali e climatici, pandemie, tirannie. Ma anche e prima di tutto da femminicidi. Eppure, spiega Lea Melandri, la guerra che un sesso fa all’altro passa ancora quasi inosservata. Ribaltare millenni trascorsi a considerare la donna un umano inferiore resta un sforzo politico, culturale, educativo enorme
Prima del post-umamo viene il non-umano: le guerre, le migrazioni forzate, la fame, i disastri ambientali e climatici, le pandemie, le tirannie, la morte, ma anche e prima di tutto i femminicidi, la guerra che un sesso fa da millenni all’altro e che ancora passa quasi inosservata.
Per quanto lo si nomina e per quanto, al contrario, appare sfuggente il suo oggetto, l’“umano” si può dire che è oggi come l’araba fenice: qualcosa che c’è, ma “dove sia nessun lo sa”. È, vistosamente, nei corpi spezzati dalle guerre, dalle migrazioni forzate, dalla fame, dai disastri ambientali e climatici, dalle epidemie, dallo sfruttamento lavorativo, è nei corpi senza nome dei naufraghi del Mediterraneo – ma in questo caso si parla di “dis-umano” -, è negli artefatti della sua onnipotenza tecnologica, in procinto di farglisi contro come una “seconda natura” – e in questo caso la parola calzante è il “post-umano”, così come postumano appare il desiderio di sporgersi verso quel sostrato biologico che l’uomo ha lasciato in destino all’altro sesso: il “divenire donna”, il “divenire animale”.
Quello che non si dice è che, pur essendo sia l’uomo che la donna fatti di quell’humus (terra) che ne segna la radice etimologica, solo il maschio della specie si è considerato storicamente l’umano perfetto.
“L’uomo ha in sé anche la donna, anche la materia, e può lasciare che questa parte del suo essere si sviluppi, cioè deperire e degenerare; oppure la può riconoscere e combattere. E’ come se l’uomo a ogni qualità puramente animale se ne fosse sovrapposta una simile eppure appartenente a una sfera più alta (…) La donna assoluta non ha un Io. La donna non è che sessuale, l’uomo è anche sessuale” (Otto Weininger, Sesso e carattere, 1903).
Nel momento in cui l’interezza del potente Io della tradizione greco romano cristiana comincia a vacillare – vuoi per l’emancipazione delle donne e la femminilizzazione degli uomini, vuoi per l’insorgere degli spiriti guerrieri che porteranno l’Europa al disastro di due guerre mondiali – , Otto Weininger sacrificherà la sua stessa vita sull’altare della Ragione che aveva fatto del solo sesso maschile il depositario della immortalità di un dio. Ma con l’ingresso nella modernità non tramonta certo il dualismo sessuale su cui si erano retti fino allora il patriarcato e la cultura occidentale egemone nel mondo, e neppure il rapporto ottimistico che essa aveva intrattenuto con le sue mete tecno-scientifiche.
“Il dio-protesi si è da allora incredibilmente complicato, e il discorso sul mondo si è incaricato di attorcigliare per bene il filo che lo lega ai suoi organi accessori.”(Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, 1974)
Il dibattito che si è avviato ormai da anni sul “post-umano”, più che l’uscita dalla visione dualistica che ha contrapposto e complementarizzato corpo e pensiero, natura e storia, sembra esserne lo svelamento. Se la Ragione kantiana, l’Io di Weininger, si erano limitati a porsi come “vita superiore” rispetto alla “naturalità” dell’umano, le intelligenze artificiali, prodotto del progresso inarrestabile dell’era digitale, sembrano mirare a un traguardo più ambizioso: porsi come “seconda natura”, razionalizzare la società e i comportamenti umani, imporre modelli di esistenza individuali e collettivi considerati i migliori applicabili.
“Prende forma uno statuto antropologico e ontologico inedito, che vede la figura umana sottomessa alle equazioni dei suoi stessi artefatti, con l’obiettivo primario di rispondere a interessi primari e instaurare un’organizzazione della società in funzione di criteri principalmente utilitaristici” (Eric Sadin, Critica della ragione artificiale. Una difesa dell’umanità, Luiss 2019)
La domanda più interessante che si pone Sadin – ma che ha alle spalle riflessioni analoghe tra i pensatori che prima di lui hanno dato l’allarme riguardo alla cancellazione dell’umano – è da dove viene “quella particolare fame di generare una replica di noi stessi”, quale presunzione di onnipotenza ma anche, al contrario, quale senso di inadeguatezza o vergogna dei propri limiti, la muovono. Ciò che spinge l’uomo a costruire un surrogato di mondo, sempre più conforme al proprio Io, è, per Gunter Anders, “l’originaria indeterminatezza della sua natura”, la carenza istintuale che lo differenzia dall’animale, esiliandolo dalle sue radici biologiche e costringendolo a far uso di una libertà “patologica”. La “vergogna” rispetto alla propria nascita sembra per Anders riferirsi solo ai limiti dell’umano, a una corporeità imperfetta e perciò da controllare e ricreare artificialmente. Con più attenzione alla natura sessuata dell’umano, scrive André Gorz:
“Il rifiuto dell’esistenza corporale, della finitezza, della morte, esprime il progetto di essere fondamento di sé con l’odio sprezzante della natura e della naturalità della vita; con il rifiuto di essere nato dal corpo di una donna…”. (A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri 2003)
Gli uomini conoscono il corpo femminile che li ha generati nel momento della loro maggiore dipendenza e inermità. Quanto può aver contato nel riservare a sé la ragione ordinatrice del mondo, fino a farsi sottomettere dalle cose che hanno prodotto, quel rapporto originario con la potenza materna? A che cosa fa pensare quel “vampiro benevolo” che, secondo Sadin, sta divorando la società tecnologica, pronta a “rassicurarci, accudirci, gratificarci, cavandoci contemporaneamente il sangue”?
“Il potere-kairos (…) il suo scopo è quello di proteggerci, farsi carico della nostra igiene e del nostro benessere, sollevarci dalle fatiche, distrarci (…) gestire le nostre paure, le nostre angosce, le nostre mancanze”.
Forse non è un caso che, di fronte all’accelerazione tecnologica verso un’intelligenza artificiale che assorbe e sostituisce le più essenziali relazioni umane – per esempio i “robot da compagnia” all’interno di ospedali e case di riposo –, ma anche all’emergere di una violenza selvaggia, come nel caso dei femminicidi, si torni a parlare di vulnerabilità e fragilità maschile, di rifiuto e diniego rispetto alla sofferenza e alla morte. Dietro la facile etichetta del “post-umano”, applicata a cambiamenti di cui quasi mai vengono indagate le ragioni profonde, si può pensare che ci siano vicende essenziali dell’umano considerate “impresentabili”, per le quali è il racconto delle esperienze individuali a poter dare voce.
“Prima di ipotizzare un’oltranza rispetto all’umano – scrive Franco Rella – bisognerebbe essersi imbattuti nell’inumano. A farci entrare nel non-umano è la forza della guerra, dell’assoggettamento, della schiavitù, delle necessità materiali e della depressione”. È soprattutto la consapevolezza della morte, “quel verme del niente” che “si muove dentro di noi e occupa a volte tutto l’orizzonte del nostro pensiero”. (F. Rella, Territori dell’umano, Jaca Book 2019).
Ancora una volta, tuttavia, passa sotto silenzio quella morte in vita che è toccata alla donna, considerata per secoli un umano inferiore.
IforMediate dice
Consigliamo di leggere anche altri due libri: Violenza / Società e Cultura Digitale: Wii like it!