Da oggi apriamo su Comune una finestra su un piccolo campo profughi nel nord del Libano, a cinque chilometri dal confine siriano. È una finestra del “fare”, un diario che racconta cose semplici, essenziali: la vita a Tel Abbas, una vita particolarmente intrisa di dolore, resistenza e speranze. Una vita vera, che inventa con pazienza, giorno per giorno, le ragioni per essere vissuta. A scrivere è Alessandro, arrivato in quel villaggio per coordinare il gruppetto di volontari dell’Operazione Colomba che ha scelto di condividere un’esistenza difficile quanto straordinaria: vivere con una tenda tra le tende dei profughi, confrontandosi con posizioni molto diverse rispetto alla guerra che incendia il mondo tanto vicino. Nell’estate del 2014, un’escalation di violenza tra gruppi jihadisti e militari libanesi ha portato a ritorsioni di civili e di militari nei confronti dei profughi siriani. Le persone del campo, impaurite, hanno chiesto la presenza protettiva dei volontari, anche perché i campi profughi non sono riconosciuti come tali dallo Stato libanese e non possono essere né gestiti né protetti dalle Nazioni Unite. Sofia, una persona importante per Comune, arrivata anche lei a Beirut da qualche mese per un’esperienza di volontariato, ha detto che i testi di Alessandro sono bellissimi e le hanno fatto pensare subito a noi. Il perché ci pare di averlo capito leggendo le ultime parole del primo racconto di una finestra che vorremmo tenere aperta a lungo, perché fa entrare un’aria di cui avevamo un gran bisogno: siamo testimoni di una vita che non si arrende, continua a soffiare, a scendere silenziosa, come la neve in un sogno
L’aria sopra di noi è plumbea, promette qualcosa in arrivo.
Siamo nella scuola per bambini siriani profughi di Malaak, oggi svuotata per le vacanze natalizie; in giro solo qualche volontario che fa lavoretti di riparazione.
In una stanza della guesthouse, per queste due settimane, è stata adibita una piccola clinica di fisioterapia: decine di siriani si sono iscritti per farsi visitare gratuitamente dal dottor Alan, che da Londra ha scelto di dedicare il suo tempo agli ultimi in questo angolo di mondo.Alan lavora con i tendini e con i muscoli, ma sa essere un buon lettore dell’anima.
Mentre gli traduco i malanni dei vari pazienti, più o meno gravi, finiamo a riflettere di qualcosa che va oltre la scienza medica.
Vivere qui: in questa regione libanese marginalizzata al confine con la Siria, ti porta a vivere immerso nel dolore, spesso il dolore altrui, di vite non vissute in prima persona ma di riflesso, come di fronte ad uno specchio.
In certe occasioni mi rendo conto che conosco a menadito nomi di città e quartieri siriani, riesco a distinguere una regione da un’altra in base all’accento degli interlocutori e da un piccolo dettaglio di un racconto intuisco la sofferenza narrata.
Un fiume in piena, spesso senza argine, che travolge tutto ciò con cui entra a contatto. Storie di violenza, sopraffazione, morte; ma anche memorie di lotta, indipendenza, vita vissuta.
Viviamo una vita, la nostra, ed allo stesso tempo centinaia di altre, le vite di coloro con cui scegliamo di entrare in contatto. Uno, nessuno, centomila.
Un albero, un bambino, un cortile, un fiume, un anziano, una bottega, un taxi, un ciliegio.
Dettagli di un mondo che non esiste più, ma che è esistito e che vive nella mente di tanti.
Quando conosciamo qualcuno avviene qualcosa, in questo mondo strano che è l’Akkar; si crea una connessione, e il padrone dei ricordi ci concede di entrare dentro di lui, ci accompagna, ci spinge, a volte ci trascina dentro.
Cadiamo quindi in un vortice di emozioni che possono anche stordire e lasciare impotenti, ma piano piano, anche con l’esperienza, si impara a farsi strada in questo groviglio di input.
Cercando una via di uscita da questo Paese del passato, a volte mi immagino mentre, guardandomi intorno, passo a fianco al ricordo di un bombardamento, poi al ricordo di una tortura, poi ad una montagna scura, poi all’immagine di un campo profughi.
Posso percepire le urla, il respiro affannato, le richieste di aiuto, i singhiozzi di gioia per una salvezza tanto attesa.
Ho viaggiato tanto in questi anni, ma molti viaggi non sono stati fisici.
Come se impossibilitati dal farmi conoscere il loro Paese di persona, i Siriani me lo facessero conoscere attraverso di loro, cercando di bypassare i confini tra Stati.
Ho cercato di essere degno di questa fiducia di apertura su di un mondo privato, che mi ha regalato felicità e dolori. Sempre il male cresce vicino al bene, e quello su cui possiamo lavorare è come tenere il primo a bada, senza riuscire mai a sconfiggerlo del tutto.
Oggi il dottor Alan, nel corso delle sue visite, ha conosciuto due profughi che gli abbiamo introdotto noi: sono due siriani della regione di Homs, vittime di tortura nelle carceri del regime di Assad.
Persone a cui è stata strappata la voglia di vivere dalla pelle, a colpi di bastonate e cavi elettrici scoperti.
Mentre Alan con le sue mani esperte prova a sentire in quale punto le vertebre della schiena sono state schiacciate, mi rendo conto che Abdo inizia a tremare e ad assumere uno sguardo sofferente. Lo hanno colpito proprio lì, e oggi sta rivivendo quello che ha visto in prigione per quattro mesi e mezzo a Damasco. Sta tornando in quell’universo degli orrori, anche Alan se ne rende conto, e mi dice con sguardo serio: “Quando viviamo esperienze traumatiche rimangono segni dentro di noi, segni più difficili da eliminare rispetto alle ferite del corpo, oggi Abdo ha risvegliato una parte della sua storia che aveva cercato di rimuovere”.
Fuori la pioggia ha iniziato a battere incessante, anche l’aria si fa più fredda e istintivamente mi porto più vicino alla stufa a gas al centro della stanza adibita a studio medico.
“Gli eventi che ci sconvolgono spingono la nostra anima e la psiche ad immagazzinare delle energie per proteggersi; quando usciamo vivi da esperienze di distruzione queste energie rimangono bloccate dentro di noi”.
La mente cerca di dimenticare ma il nostro corpo ha la memoria lunga, più profonda di quello che intuiamo.
L’unico modo di essere davvero liberi è tornare dentro questi vissuti, tuffarsi dentro il dolore come se fosse un liquido scuro e appiccicoso, dentro il quale è nascosta la chiave di cui avvertiamo il bisogno.
“Quale è il tuo vero bisogno?”, la risposta potrebbe essere la stessa che restituirebbe la vita di Abdo, che lo aiuterebbe a non avere più incubi la notte.
Tutti noi abbiamo bisogno di riconoscimento, di essere guardati almeno una volta nella vita come si guarda un essere umano. Senza questa attenzione siamo solo carne e sangue, con questo sguardo su di noi invece acquisiamo la polvere di stelle.
Assad e i suoi torturatori hanno reso molti uomini dei non-umani, degli zombie che hanno perso la loro identità, l’unico modo per dimostrargli che hanno fallito nei loro intenti, sta nel dare alla loro violenza una risposta più forte dei loro soprusi.
Alan guarda Abdo dolorante e rannicchiato sul letto: “Vedi quest’uomo? Ha sofferto tanto e ha immagazzinato dentro di se molta rabbia”.
Provo una improvvisa pena per lui, lo conosco da tempo e mi fa male vederlo così.
“Eppure tutti noi, per continuare a vivere abbiamo bisogno di uno scudo, una spada che tagli i nodi che ci portiamo legati dentro”.
“Quali sono i modi?” gli chiedo ingenuamente, ma intuisco dove vuole arrivare.
“La risposta più forte è l’amore, la riconciliazione, l’amicizia, la compassione, la meditazione consapevole, che aiuti a scavare”.
Lo sguardo di Alan torna su Abdo, intristito ancora una volta e con lo sguardo fisso.
“Vedi Abdo? Lui vive per sua figlia piccola di due anni, si capisce che farebbe follie per lei, Mariam è stata la sua risposta; Mariam è stata il suo perdono”.
Cala un silenzio interrotto solo dal battito della pioggia sui muri.
Mi rendo conto che sento una sensazione strana nel petto, qualcosa di familiare e al tempo stesso antico.
Tutto si mescola in questo angolo di mondo, dove il riscatto di un torturato può assumere le sembianze di una bambina con i capelli scuri e ricci che vive in un garage.
Vorrei dirgli che gli voglio bene, e che quello che ha subito non se lo merita nessuno al mondo.
Siamo testimoni di una vita che non si arrende, continua a soffiare, a scendere silenziosa, come la neve in un sogno.
Dicembre 2016. Intervista a Paola, volontaria dell’Operazione Colomba. Video tratto da meltingpot
Quel che c’è da sapere sulla presenza di Operazione Colomba nei campi del Libano
Questo villaggio si trova a nord del Libano, in una delle regioni più povere e con il maggior numero di profughi, a soli 5 km dal confine con la Siria.
Vivere a Tel Abbas permette di condividere la vita e di entrare in relazione con persone di diversa provenienza e appartenenza etnica, politica e religiosa, confrontandosi con posizioni molto diverse rispetto al conflitto siriano.
Nell’estate 2014 un’escalation di violenza tra gruppi jihadisti e militari libanesi ha portato a ritorsioni sia di civili che di militari nei confronti dei profughi siriani.
Un campo di siriani adiacente a Tel Abbas è stato minacciato di incendio. Le persone del campo, impaurite, hanno chiesto la presenza protettiva dei volontari (i campi profughi non sono riconosciuti come tali dallo Stato libanese e non possono essere ne’ gestiti ne’ protetti dalle Nazioni Unite).
La presenza si è quindi concentrata sul campo ed è continuata perché effettivamente aiutava a mantenere basso il livello di tensione con i libanesi.
E’ stata così costruita una tenda nel campo, come quelle siriane. Da allora i volontari vivono con loro condividendo la quotidianità. .
Il vivere al campo è diventato indirettamente fonte di sicurezza anche per i libanesi cristiani che, impauriti dalla presenza dell’ISIS nel territorio, vedevano in ogni siriano un potenziale terrorista. Vivendo al campo si è “dimostrato” che quel posto è privo di pericoli per loro.
Si è iniziato inoltre a vivere anche insieme ai libanesi cristiani, qualche giorno al mese, per costruire con loro relazioni di amicizia e di fiducia che permettono ai volontari di fungere da mediatori e costruire ponti di dialogo tra le diverse comunità.
Obiettivi generali
- Stare accanto ai profughi e, ove possibile, aiutarli nelle necessità più immediate e concrete;
- Abbassare la tensione e favorire il dialogo tra siriani e libanesi per una migliore convivenza e perché si creino legami di solidarietà;
- Trovare alternative valide all’attuale situazione dei profughi siriani;
- Promuovere vie di risoluzione al conflitto efficaci e condivise;
- Mantenersi costantemente aggiornati sugli sviluppi della situazione siriana, attraverso informazioni affidabili apprese dalle persone direttamente coinvolte nel conflitto;
- Qualora si ripristinassero le condizioni minime di sicurezza, tentare un viaggio esplorativo in Siria per valutare un’eventuale presenza.
Attività specifiche
A partire dalla vita nella tenda, i volontari portano avanti varie attività:
- Condivisione e visite alle famiglie siriane, sopratutto a quelle più fragili e in difficoltà; ascolto delle persone ed sostegno affinché siano esse stesse le prime ad attivarsi nella ricerca di soluzioni alle difficoltà;
- Visite ai libanesi cristiani e musulmani. Grazie ai volontari, che fanno da tramite, si sono create occasioni di relazione tra la comunità locale e i siriani del campo profughi. Alcuni libanesi, nel fare visita ai volontari, sono entrati per la prima volta nel campo e si sono resi conto delle condizioni in cui i loro vicini vivono. Ne sono scaturite importanti dimostrazioni di solidarietà: ad esempio alcuni libanesi hanno aiutato a costruire una tenda-scuola nel campo dove ora insegnano qualche ora al giorno in maniera gratuita;
- Lezioni ai bambini nella scuola del campo e organizzazione di momenti di svago e di incontro, soprattutto per i ragazzi, quali partite di calcio e pomeriggi di pesca al fiume;
- Collegamento fra i bisogni dei profughi e le realtà in grado di soddisfarli (UNHCR, ONG, municipalità locale): Operazione Colomba è l’unico gruppo internazionale che vive stabilmente all’interno di un campo profughi e questo permette ai volontari di conoscere sempre in tempo reale le necessità delle persone e di individuare gli organismi che possono provvedere ad esse. Si effettuano accompagnamenti in cliniche ed ospedali, segnalazioni di violenze ed abusi, segnalazioni di situazioni di estrema necessità. Dove gli altri non arrivano, si interviene in prima persona, in varie forme, con il lavoro materiale, raccolte di fondi e medicinali, donazioni di sangue, ecc.;
- Raccolta di testimonianze e redazione di report, comunicati stampa, relazioni, diari affinché la voce di tante persone scappate dalla guerra possa arrivare in Italia e si ravvivi l’attenzione su un conflitto ormai dimenticato;
- Elaborazione di concrete soluzioni al conflitto siriano ed elaborazione di alternative valide per l’attuale situazione dei profughi, attraverso un lavoro politico svolto a più livelli, in loco, in Italia e nelle sedi internazionali, con rappresentanti istituzionali e della società civile.
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