Siamo travolti ogni giorno da un fiume di odio, razzismo e antisemitismo. Abbiamo bisogno di argini solidi. “È tempo di scelte – scrive Marco Aime – e nessuno di noi può chiamarsi fuori…”
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È sempre più allarmante il livello di manipolazione che molti esponenti politici mettono in atto per delegittimare l’avversario e legittimare certe loro nefandezze. Il caso degli insulti antisemiti ricevuti quotidianamente dalla senatrice Liliana Segre è esemplare non solo per la gravità del fatto in sé – che coinvolge migliaia di razzisti vigliacchi che si trincerano dietro l’anonimato della rete – ma per la risposta delle destre “istituzionali” (il virgolettato è d’obbligo). Le quali, dopo l’audizione, hanno replicato che il vero problema è l’odio verso Matteo Salvini e il 30 ottobre in Senato non hanno votato la mozione per istituire una commissione contro odio, razzismo e antisemitismo.
Persino un cinico geniale come George Orwell non avrebbe saputo immaginare un tale livello di perversione e di torsione della realtà. Gli spargitori di odio, coloro che insultano chi osa contraddirli, diventano le vittime, sono gli odiati.
In quale paese vogliamo vivere? Quello di Liliana Segre, che ad Auschwitz ha imparato a non odiare? O quello che odia perché non conosce le sofferenze umane o, peggio, prova piacere nel provocarle? Un paese dove la memoria delle tragedie passate è ben viva, perché non si ripetano? Oppure un’Italia dalla mente vuota, che invoca pulsioni (vedi i tremila a Predappio con il braccio alzato) che tanti danni hanno causato?
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L’antisemitismo, malattia che sembrava sopita, ritorna in modo ancora più ignorante rispetto alle sue versioni del passato. “Ebreo” diventa un insulto senza nemmeno sapere perché dovrebbe esserlo. Non è un’avversione basata su qualche seppur delirante principio: è odio e basta, come ha provato sulla sua pelle l’amico Gad Lerner.
«La politica che investe nell’odio è sempre una medaglia a due facce che incendia anche gli animi di chi vive con rabbia e disperazione il disagio dovuto alla crisi, e questo è pericoloso. A me hanno insegnato che chi salva una vita salva il mondo intero, l’accoglienza rende più saggia e umana la nostra società». Parole di Liliana Segre su cui dovremmo riflettere.
La storia italiana, come tutte le storie, è fatta di giganti e nani, ma qui le proporzioni sono saltate del tutto. È tempo di scelte e nessuno di noi può chiamarsi fuori.
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Pubblicato su Nigrizia e qui con il consenso dell’editore.
*Docente di antropologia culturale presso l’università di Genova, è autore di numerosi libri di saggistica (tra cui Eccessi di culture e Il dono al tempo di Internet per Einaudi, Etnografia del quotidiano e La macchia della razza per eleuthera) e di alcuni libri di narrativa e per bambini.
Ringrazio la redazione di Comune per citare spesso il mio lavoro con il quale cerco come posso di contrastare l’ondata razzista che invade il nostro paese e non solo. Un razzismo sia palese (quello per esempio di chi ha preso la pistola e ucciso a caso degli africani, perché di pelle nera e “invasori della razza bianca”), sia quello strisciante che nega di essere tale, ma che prende forza da una propaganda falsa e ipocrita di quanti diffondono odio contro “gli stranieri invasori”, che guarda caso sono sempre africani o migranti dei paesi del sud o dell’est, ritenuti dei poveri straccioni analfabeti che portano solo danno e criminalità.
Vorrei dire in particolare al Pd, alle piazze dell’arcipelago delle sardine di questi giorni, a tutti noi senza più rappresentanza forte, che se non contrastiamo concretamente questa lettura falsa non riusciremo mai a uscirne.
Non basta dire “no all’odio, no al razzismo”.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa avere il coraggio di fare una politica di giustizia sociale, non più parlare solo di “aiuto umanitario”.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa quindi andare con forza e determinazione contro le politiche europee sull’immigrazione, che con le frontiere chiuse e la negazione dei visti creano i presupposti di un’immigrazione senza tutele, senza diritti, creano i presupposti per i lager libici, per la tratta delle persone, per le migliaia di morti affogati. Creano i presupposti per un immigrazione “gestita” con la detenzione in massa nei centri dei paesi europei, con la conseguente creazione di ghetti disumani, e lo sfruttamento del lavoro al nero.
A queste condizioni è fin troppo facile dare adito a quanti rifiutano “gli stranieri” di poter dire che sono degli straccioni, che creano disordine e danni nei “nostri paesi” e che vanno ricacciati indietro. Di questo si alimenta il neofascismo, che poi tira fuori di nuovo l'”orgoglio” del suo passato antisemita e tutto il resto.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa abolire i Decreti sicurezza di Salvini subito, nonché le leggi Bossi-Fini, poiché quelli si che creano insicurezza. Significa abolire gli accordi con i libici, i turchi, i croati, subito, perché quelli sono la causa dei lager e dell’ammasso inumano alle frontiere.
Aprire quindi la politica dei visti e le frontiere europee, i canali legali, perché così si che si evita il “disordine”, i traumi psicologici, i morti in mare.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa attuare politiche del lavoro per tutti, autoctoni e non, politiche di inserimento e non di assistenzialismo senza alcuna visione futura.
Significa attuare lo “ius soli” e lo “ius culturae” subito, perché è anche questo che divide le nostre società in “noi” e “loro”.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa contrastare l’industria bellica che vende armi a paesi dittatoriali, contrastare gli affari delle multinazionali che depredano le risorse dei paesi del sud del mondo, lasciando rifiuti, sfruttamento e povertà.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa lottare contro le disuguaglianze del mondo create da un sistema neoliberale selvaggio in mano a pochi magnati della finanza e lavorare per una redistribuzione mondiale delle ricchezze, e per una eliminazione dei consumi esosi e superflui che distruggono ambiente, clima e popolazioni.
“Nessuno può chiamarsi fuori” significa avere una visione globale del mondo, in cui non possono esistere particolarismi, sovranismi, steccati, muri, perché siamo tutti interdipendenti. Ciò che accade apparentemente lontano da “noi” in realtà ha dirette conseguenze per “noi”, e viceversa le “nostre” politiche hanno diretta conseguenza negli altri paesi.
Il mondo è interconnesso, le persone lo sono e bisogna cominciare a “chiamarsi fuori” da chi divide il mondo in “noi” e “loro”, per sfruttare, per cacciare via, per creare piccole “oasi di benessere” per pochissimi, per fare i propri miopi profitti e fregarsene degli altri.
Nessuno di noi può chiamarsi fuori, può solo “agire dentro”, per riuscire a fermare tra le altre cose questa orribile modalità di creare il “nemico” attraverso capri espiatori che non c’entrano niente.
Bellissimo commento, Valeria, e condiviso in tutto da me. Grazie.