Un’attenta analisi di quanto accade in diverse realtà latinoamericane fa emergere sorprendenti elementi comuni a proposito del narcotraffico, sistema che riguarda quasi un terzo del commercio internazionale. Uno: il narcotraffico, da un punto di vista storico, è un prodotto dello Stato e soprattutto delle sue forze armate. Due: in quanto strutturale al capitalismo, oggi utilizza lo Stato per la sua espansione. Tre: il potere politico si limita a combattere le ultime frange del business. Secondo Raúl Zibechi dovremmo smettere di credere che il potere politico possa fare qualcosa di decisivo contro il crimine organizzato
Sul portale pelotadetrapo.org.ar (18/3/24), il giornalista d’inchiesta Carlos Del Frade scrive in un articolo dal titolo L’esperimento rosarino: “Combattere il narcotraffico significa mettere fine al 30 per cento del sistema finanziario internazionale, regionale e nazionale”. Del Frade vive a Rosario, capitale della provincia di Santa Fe, sconvolta dai recenti crimini del narco.
“Combattere il narcotraffico significa eliminare una delle arterie principali del sistema capitalista e non lo faranno. L’unica cosa che cercano di fare è generare controllo sociale sugli ultimi anelli della catena di commercializzazione di quest’attività parastatale e multinazionale”, continua Del Frade, sottolineando che la militarizzazione è un esperimento “di controllo sociale per garantire il saccheggio”.
Fin qui la sua analisi somiglia molto a quello che è successo in altri casi simili, come in Colombia, Messico e in altri paesi del centroamerica.
Il fatto più interessante viene da un articolo precedente, e dai suoi libri, dove sono raccolti dati concreti sulla nascita del narcotraffico nella città di Rosario, in un testo dal titolo L’origine del potere narco a Santa Fe (pelotadetrapo.org.ar, 5/1/15). Del Frade dice che “il narcotraffico all’inizio era un’attività parastatale della dittatura argentina”.
Di fatto la dichiarazione di un ex componente del Servizio di Intelligence dell’Esercito argentino, rilasciata in Brasile nel 2009, elenca le consegne di cocaina dal 1978 secondo accordi tra i dittatori Jorge Rafael Videla e il boliviano Hugo Bánzer. Queste “attività” sono state proseguite sotto la narcodittadura di Luis García Meza (1980-81), “sotto la protezione della CIA e con il benestare del governo statunitense”, approfittando della zona franca concessa alla Bolivia nel porto di Rosario. Va ricordato che l’esercito argentino aveva partecipato al colpo di stato che portò García Meza al potere, tramite il battaglione 601, e che in quel breve periodo ci furono 500 vittime di sparizioni forzate, omicidi e torture, oltre a più di 4mila prigionieri.
Oggi si può affermare con certezza che i gravi problemi della città di Rosario – e sicuramente di tante altre città del continente -, sono legati alla nascita del narcotraffico mezzo secolo fa, nel periodo del terrorismo di Stato. Questo spiega, secondo Del Frade, l’esistenza di tanta “impunità accumulata” che da alcuni anni sta esplodendo, e colpisce principalmente le fasce più popolari.
Il punto fondamentale dei casi di Rosario e della Bolivia è che mettono nero su bianco il ruolo delle istituzioni militari e poliziesche nell’ascesa del narcotraffico e il ruolo giocato in passato dalle dittature militari. Partendo da questa esperienza, e da esperienze molto simili diffuse in tutta l’America Latina, si possono trarre alcune lezioni importanti per comprendere il fenomeno.
La prima è che il narcotraffico è un prodotto dello Stato, delle sue istituzioni e soprattutto delle sue forze armate. Non è solo il loro essere corrotti, perché lo sono palesemente, ma è il loro ragionare secondo la logica capitalista di accumulare saccheggiando e arricchirsi con la violenza. Non si può neanche dire che sia coinvolta nel narcotraffico solo una manciata di “mele marce”, sono proprio le istituzioni armate a essere parte attiva del gioco. Ci troviamo quindi di fronte a un problema strutturale. Come lo scandalo Irangate (l’uso del narcotraffico per finanziare gruppi armati creati e organizzati dagli Stati Uniti, come i Contras nicaraguensi) non fu un’aberrazione commessa da alti funzionari del governo Reagan, ma una pratica abitualmente utilizzata in tutti gli interventi (in Vietnam come in Afghanistan), e anche per combattere i dissensi interni (come il partito delle Pantere Nere).
La seconda lezione è che il narcotraffico, in quanto strutturale al capitalismo, utilizza lo Stato per la sua espansione. Si capisce quindi quanto sia aberrante usare per combattere il narco le stesse forze che di esso vivono, che lo potenziano e lo proteggono. Si dovrebbe indagare in ogni paese su quanto guadagna un commissario di polizia con il suo stipendio statale e quanto per proteggere il narcotraffico. La differenza potrebbe essere abissale.
La terza è che il potere politico si limita a combattere le ultime frange del business, perché per la borghesia non c’è Bukele che tenga, come ricorda Del Frade. Qui le vittime sono i giovani poveri, reclutati come “soldatini” del narco e liquidati un attimo dopo, o ricattati dalle bande di narcopolizia locale, assassinati o venduti come prostitute o sicari.
Credo sia ora di smettere di credere che il potere politico possa fare qualcosa contro il crimine organizzato. Il narco è dentro il nucleo del sistema. Il crimine organizzato sono il capitalismo e lo Stato insieme: per questo non si possono combattere separatamente.
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