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Gli attori della farsa chiamata Mose

Gianni Belloni e Antonio Vesco
18 Luglio 2014
nm
Protesta dei No Mose (foto Global project)

di Gianni Belloni e Antonio Vesco*

«Siamo immersi in un sistema di corruttela troppo strutturato, troppo consolidato, nella pubblica amministrazione e nella magistratura, nella Corte dei conti e nei Tar, fino anche al Consiglio di Stato. Ovunque funziona così. Se vuoi i lavori pubblici, devi fare queste cose. Tant’è che i ricorsi delle gare per gli appalti le vinceva chi pagava di più». Le parole di Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan – pronunciate nel corso di un’intervista a Repubblica di poche settimane fa – sottolineano la sistematicità del meccanismo corruttivo, che va analizzato al di là delle responsabilità e delle condotte dei singoli partecipanti.

Claudia Minutillo mette poi in luce un altro aspetto della vicenda: «Eravamo convinti che quello fosse l’unico sistema possibile, che non si potesse fare diversamente. Solo quando ci hanno arrestato abbiamo capito la gravità delle nostre azioni». Assistiamo così all’elaborazione di un sistema di credenze grazie alle quali poter neutralizzare il peso morale dei propri atti e che si nutre di uno spirito del tempo: l’attuale spirito del capitalismo che forgia individui pronti a qualunque misfatto per ubbidire agli imperativi dell’epoca. Individui che non agiscono in uno scenario caotico e disorganizzato, ma piuttosto all’interno di una cornice organizzativa in cui le condotte di ciascun attore sono incardinate entro copioni prefissati e seguono regole codificate (1).

Per non cedere alla tentazione di inquadrare questo sistema come un organismo a sé stante – un blocco monolitico di istanze criminali e tensioni accumulatrici – pensiamo sia utile rintracciare le dinamiche sociali e culturali che hanno facilitato il coinvolgimento dei diversi attori. Ponendoci quindi un’ambiziosa domanda: quali meccanismi generalizzati accompagnano e facilitano l’estendersi e il radicarsi di condotte generalizzate e sedimentate nell’azione quotidiana di amministratori, imprenditori, politici di un territorio? Questa interrogazione, a cui diamo seguito con un primo ed esitante abbozzo, potrebbe rivelarsi utile anche per ricostruire, da queste macerie, convivenze migliori.

Politici

Posto che «lo scambio tra legittimità e consenso, da una parte, ed esercizio dell’autorità, dal lato opposto, costituisce da sempre una costante, pur se occulta e inconfessabile, dell’esperienza politica occidentale» (2), a partire dagli anni settanta i partiti hanno funzionato essenzialmente come società di professionisti della politica che gestiscono agenzie parastatali (3). Dobbiamo tenere presente questo dato (differenziato, naturalmente, tra le diverse esperienze politiche occidentali) per analizzare i sistemi corruttivi che abbiamo di fronte. I partiti con cui abbiamo a che fare appaiono indefiniti e indefinibili, alleanze instabili di filiere di potere, strutturalmente – per la loro fame inesauribile di risorse e per la mancanza di cornici di controllo e di definizione normativa – orientati all’illegalità. Partiti dove si assiste a una «pervasività crescente del denaro» (4), un processo che fa sì che la politica si trasformi di fatto in una attività decisoria di élite. In questo senso non è inutile richiamare l’intreccio tra crescenti diseguaglianze e corruzione: le diseguaglianze dovute all’abnorme concentrazione della ricchezza in poche mani e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente legate tra loro, costituendo la conseguenza principale e più grave dell’intreccio, ormai inevitabile, fra politica ed economia (5). Un processo che finisce per mutare nella sostanza il meccanismo stesso della rappresentanza, le sue logiche e i suoi codici, provocando una «privatizzazione» delle funzioni politiche6.

Venendo al Veneto, possiamo scorgere delle specificità utili a inquadrare la vicenda che ci si sta squadernando di fronte agli occhi. In questo territorio, la politica ha sempre mantenuto un atteggiamento non interventista nei confronti delle dinamiche economiche e comunitarie. Il vecchio ceto democristiano si è limitato a garantire il mantenimento di un ordine sociale sostenibile. Ora la «rottura del vecchio intreccio tra economia, società e politica» (7) ha destinato quest’ultima al ruolo di semplice strumento di facilitazione degli affari. Così essa diviene un ingrediente tra agli altri, una casacca come un’altra che si può indossare e dismettere – nelle carte dell’inchiesta incontriamo politici che pianificano la loro prossima carriera di affaristi –, dimenticando la missione progettuale del proprio ruolo e mettendosi a disposizione, in funzione subordinata, rispetto agli interessi diretti ed immediati dei suoi suoi interlocutori.

Tecnici

La cooptazione degli organi di sorveglianza (magistrato alle acque, commissione di Valutazione d’impatto ambientale, corte dei conti ecc.) e di repressione (guardia di finanza, servizi segreti, carabinieri) mostrano come oggi la pratica della corruzione (non riferita allo specifico reato, ma intesa in senso lato) permea in modo più strutturale e pericoloso la pubblica amministrazione e comunque richiede nuovi e più raffinati paradigmi di indagine e di lettura.

Se nella tangentopoli degli anni ottanta e novanta i cosiddetti tecnici avevano un ruolo di collegamento e intermediazione tra il sistema delle imprese e quello dei partiti (8), a giudicare dalle vicende emerse dall’inchiesta veneziana, la frantumazione dei partiti ha indotto i tecnici ad assumere il ruolo di protagonisti attivi nel rapporto con il mondo delle imprese. Un rapporto più diretto, garantito da un sistema di convenienze reciproche tra «tecnici» e imprenditori. Una vera e propria alleanza – pensiamo al rapporto tra il Magistrato alle acque e il Consorzio Venezia Nuova – fondata sulla totale assenza di controlli che ha garantito l’impunità nella gestione illegale dei lavori. Attorno all’apparato amministrativo-burocratico regionale è emersa una concentrazione abnorme e anomala di poteri che ha generato talvolta palesi situazioni di conflitto di interessi e di compatibilità di incarichi, portando parallelamente alla subordinazione di organi di alta consulenza tecnico-scientifica al potere politico, come ha documentato l‘Osservatorio ambiente e legalità di Venezia nel caso della commissione Via regionale, composta per lo più da politici e da professionisti interessati alle stesse opere che avrebbero dovuto analizzare (9).

Imprenditori

Che tipo di sistema produttivo abbiamo di fronte? Un sistema chiuso e protetto dalle incertezze dei mercati, dalla esasperazione della competitività. Il sistema costruito attorno al Consorzio Venezia Nuova garantiva agli imprenditori una rendita di posizione invidiabile e, in molti casi, vitale, visto che per una quota non trascurabile di imprenditori «gli scambi occulti e gli accordi collusivi finiscono per essere concepiti come un modo per stare sul mercato, se non addirittura l’unico modo per sopravvivere economicamente» (10) (e saltare da una tangentopoli a un’altra, come nel caso di Piergiorgio Baita).

Siamo di fronte a circuiti protetti, a reti di reciprocità all’interno delle quali vengono ammorbidite – dalla logica dei favori e degli scambi occulti – le severe leggi del mercato e della concorrenza. Una regolazione sistematica delle opere pubbliche dà vita a circuiti chiusi dell’economia locale, accessibili soltanto per le imprese in possesso dei requisiti economici e del capitale sociale necessario. In una recente intervista rilasciata a un giornale locale, un imprenditore veneziano dichiarava che sarebbe stato disposto a corrompere qualcuno pur di salvare l’impresa in difficoltà, ma che non sapeva a chi rivolgersi dal momento che i circuiti corruttivi rimanevano accessibili solo a una élite imprenditoriale11. L’economista Stefano Solari descrive questo meccanismo come «compattamento delle reti a fronte della crescente incertezza dei mercati». Un compattamento nel quale è difficile «discernere l’attività di malaffare» e in cui si riduce la qualità, ma non la consistenza, del capitale sociale in circolazione.

Di fronte a questa tendenza sistemica suonano particolarmente imbarazzanti (e imbarazzate) le reazioni dei rappresentanti degli imprenditori rispetto alle vicende emerse. Il tentativo è quello di una normalizzazione del dibattito che contribuisca a derubricare gli avvenimenti a pure deviazioni rispetto a un ordinario funzionamento dell’economia e delle procedure. Assieme alla vibrante condanna da parte dei vertici di Confindustria del Veneto, abbiamo assistito alla tendenza a individuare alcuni colpevoli decontestualizzando il loro operato. Abbiamo invece l’impressione che vent’anni di esaltazione del modello imprenditoriale nordestino abbiano in realtà sfibrato il ceto imprenditoriale, disabituandolo a un confronto con la realtà e con punti di vista diversi. I ripetuti ossequi ai meriti dell’impresa da parte di (quasi) tutti i protagonisti del dibattito pubblico a prescindere dai suoi meriti – che ovviamente ci sono stati – hanno reso la stessa rappresentanza delle imprese vulnerabile – anche perché disabituata alle critiche ed assuefatta ad un clima di ideologico conformismo – ed incapace di originali elaborazioni.

Intrecciate alle figure degli imprenditori, emergono infine le gesta di faccendieri e professionisti, che sembrano esercitare un ruolo cruciale nel contesto del capitalismo di relazione. Personaggi-cerniera – pensiamo ai commercialisti nominati nelle società pubbliche – che operano a cavallo tra la politica e l’imprenditoria, acquisendo progressivamente una sempre maggiore importanza, sia a causa della trasformazione del modello aziendale, dove alla capacità di fare impresa si affiancano – o si sostituiscono – quella di connettere e intrecciare informazioni e quella di scambiare obblighi e favori, sia per la perdita di autorevolezza e di assertività della sfera politica, che deve ricorrere a queste figure perché non è più in condizioni di controllare i troppi risvolti del complesso sistema decisionale e amministrativo.

Società civile e università

Gli intrecci criminali che emergono dalle carte dell’inchiesta sono stati intuiti da una combattiva minoranza di attivisti e intellettuali che in questi anni hanno denunciato e combattuto quello che genericamente veniva definito il «sistema Galan». Mentre (quasi) tutti i partiti proponevano uno scenario ineluttabile e indiscutibile in nome del quale le opere divenivano necessarie, comitati e associazioni si sono presi in carico il problema di politicizzare il dibattito risalendo al cuore delle questioni: «quali opere e per quale modello di sviluppo?». Il problema è che non si è mai aperto un luogo di discussione reale che potesse entrare radicalmente nel merito delle scelte e persuadere. Ma se le minoranze che si sono opposte al Mose – così come ad altre opere in odore di cricca − hanno visto riconosciuto il loro punto di vista solo in seguito a un’inchiesta della magistratura, dobbiamo trarre alcune conseguenze rispetto al ruolo possibile, e a quello reale, rivestito dalle minoranze nel nostro sistema politico. Tanto più alla luce dell’indirizzo maggioritario e ispirato alla governabilità che sembra ormai egemone in questo paese.

I No Mose sono stati, a Venezia come altrove nel Veneto, una minoranza. La città in realtà è stata narcotizzata da un effluvio di finanziamenti, giostrati dal Consorzio Venezia Nuova, che hanno riguardato quasi tutti gli ambiti della società. Anche se non tutti condividono le stesse responsabilità, ben pochi possono dirsi del tutto estranei al sistema che ha dominato fino a pochi mesi fa. Una marea di denaro che ha creato sicurezza, ha ammorbidito i toni, offuscato lo sguardo e reso meno stridente la convivenza della città con un «monstrum» politico-imprenditoriale e istituzionale come il Consorzio.

In particolare, quest’ultimo ha dedicato non poche risorse al finanziamento del mondo della cultura e dell’Università. Diversi intellettuali hanno segnalato come questa attenzione abbia sortito i suoi effetti in termini di legittimazione dell’opera (12). E se la massima istituzione pubblica deputata alla formazione e alla ricerca ha mostrato in questi anni una pur minima «apertura» rispetto ai suoi finanziatori, che cosa ci prepara il futuro a fronte di un crescente disimpegno dello Stato, a una legislazione e un’organizzazione didattica e della ricerca che agevola l’intervento dei privati?

Conclusioni

Facendo il verso al vecchio di Treviri, possiamo riprometterci di affrontare seriamente questa farsa, prestandole i toni più consoni della tragedia, dato che chi ha voluto fare politicamente i conti con la tragedia – la tangentopoli anni novanta – si è trovato, non accidentalmente, a buttarla in farsa. Dalle inchieste giudiziarie occorre passare alle inchieste sociali, non già per affollare il banco degli imputati, ma per provare a rintracciare le dimensioni sociali e politiche della corruzione – e quindi della radicale privatizzazione dei beni comuni – e identificare i terreni su cui è possibile (e necessario) agire.

Note

1 Donatella Della Porta, Alberto Vannucci, Mani Impunite. Vecchia e nuova corruzione in Italia, Laterza, Bari, 2007
2 A. Mastropaolo, Il ceto politico, La Nuova Italia Scientifica, Firenze, 1993
3 Katz, R. S., P. Mair, 1995, Changing Models of Party Organization and Party Democracy: The Emergence of the Cartel Party, in “Party Politics”, 1, I.
4 Marco Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino, 2013
5 Guido Rossi, Corruzione e ineguaglianze minacciano la democrazia, il Sole 24 ore, 15 giugno 2014
6 Rocco Sciarrone, Mafie del nord. Strategie criminali e contesti locali, Donzelli, Roma, 2014
7 Aldo Bonomi, Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori della crisi, Einaudi, Torino 2013
8 Ivan Cicconi, Project financing e grandi opere. Il nuovo volto della corruzione dopo Tangentopoli, Quaderno n°4, Osservatorio ambiente e legalità di Venezia, Marzo 2014 in www.osservatorioambientelegalitavenezia.it
9 Osservatorio ambiente e legalità di Venezia, Ombre e disfunzioni della Commissione Via, Dossier, Luglio 2013 in www.osservatorioambientelegalitavenezia.it
10 Rocco Sciarrone, Mafie vecchie mafie nuove. Radicamento ed espansione, Donzelli, Roma, 2009
11 Francesco Furlan, L’imprenditore confessa: «Pur di lavorare pagherei le tangenti», La Nuova di Venezia, 21 marzo 2012.
12 Filippomaria Pontani, I mobili argini di Venezia, 4 giugno 2014 in www.ilpost.it

* Questo articolo è stato scritto per Edduburg (su cui trovate diversi altri interessanti articoli dedicati al Mose) e per Comune-info.

DA LEGGERE

Grandi opere e territori (Piero Bevilacqua)

L’origine (Paolo Cacciari)

Vacilla il «Sistema» veneto (Gianni Belloni)

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