In mare si continua a morire, sia sulle rotte libiche che su quelle che partono dalla Tunisia, paese verso il quale di recente le organizzazioni criminali trasferiscono molti migranti sub sahariani per farli poi partire verso le coste italiane. Rimangono ancora inascoltati gli appelli che l’OIM e l’UNHC hanno lanciato perché anche nel Mediterraneo centrale si garantissero vie legali di fuga e missioni di soccorso coordinate tra gli stati e le Organizzazioni non governative. Ci sarebbe da auspicare, ma le più recenti convulse reazioni all’emergenza delle forze politiche in Parlamento non lasciano molto da sperare, che i principi sanciti dalla Corte di Cassazione vengano riconosciuti anche dal legislatore con l’abrogazione degli articoli 1 e 2 del decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019) che permettevano, e permettono tuttora al ministro dell’interno, piuttosto che al ministro delle infrastrutture, di impedire o ritardare lo sbarco in un porto sicuro dei naufraghi soccorsi da mezzi privati, soprattutto nel caso in cui questi appartengano alle organizzazioni non governative, ritenute “complici dei trafficanti”, “taxi del mare”, “fattori di attrazione (pull factor)“, definizioni spregevoli in contrasto con la realtà, oltre che con i dati normativi, che adesso i chiari principi affermati dalla Corte di cassazione avrebbero dovuto spazzare via. Sarà importante che tali principi, soprattutto nella parte in cui si ribadiscono gli obblighi di soccorso a carico degli stati fino alla indicazione di un porto di sbarco sicuro, già presi in considerazione nei numerosi casi di archiviazione delle accuse contro le ONG, siano tenuti presenti negli eventuali procedimenti giudiziari che potrebbero essere avviati nei confronti degli operatori umanitari della Alan Kurdi, come nei diversi processi ancora aperti a Trapani (Juventa), ancora nella fase delle indagini preliminari a quasi tre anni dai fatti, ed a Ragusa (Open Arms), addirittura per violenza privata.
In considerazione della collaborazione in corso da tempo con la sedicente guardia costiera “libica”, riconfermata ancora di recente anche a livello europeo con l’operazione IRINI di Eunavfor Med, e dei pregressi accordi e protocolli stipulati dall’Italia con il governo di Tripoli, in particolare il Memorandum d’intesa del 3 febbraio 2017, si può ritenere che il decreto interministeriale adottato il 7 aprile 2020 riconfermi implicitamente l’obbligo delle navi straniere che soccorrano naufraghi nella pretesa zona SAR libica, di riconsegnare le persone alle motovedette di quel paese. Le stesse motovedette che riconducono i naufraghi nei centri di detenzione alla mercé dei trafficanti. Sarà altro materiale per le attività istruttorie del Tribunale Penale internazionale sulla collaborazione tra la guardia costiera libica e le autorità italiane, ma potrebbe diventare presto, se scatteranno altre incriminazioni a carico degli operatori umanitari, oggetto di indagine da parte della magistratura italiana.
La mancanza di un piano sbarchi del governo ai tempi del Covid-19, dopo lo smantellamento del sistema Sprar (adesso ridefinito SIPROIMI), di fronte alla ripresa delle partenze dalla Libia in piena guerra civile, sta offrendo il pretesto per riaccendere la tensione nei luoghi di arrivo ed a Lampedusa in particolare. Il prezzo più alto di questa ennesima violazione del diritto internazionale in nome dello stato di emergenza, non sarà pagato dagli operatori umanitari ma soprattutto dai migranti, che ancora in questi giorni, se non raggiungono direttamente le coste italiane, risultano dispersi. Migliaia di persone che a causa della pressione esercitata sulle navi delle ONG, a partire dal Memorandum di intesa con il governo di Tripoli del 2 febbraio 2017 e del Codice di condotta adottato dall’ex ministro dell’interno Minniti, sono state abbandonate in mare o respinte con l’aiuto della sedicente guardia costiera “libica”. La guardia costiera di un governo che non controlla neppure il territorio della capitale e che, come è stato dimostrato, risulta collusa con le organizzazioni criminali che tutti a parole dicono di volere combattere. Con questa guardia costiera, piuttosto che con le navi umanitarie delle ONG, il governo italiano, con la scelta di non garantire un porto di sbarco sicuro ai naufraghi soccorsi al di fuori della zona SAR italiana, preferisce collaborare da tempo, non soltanto adesso in nome dell’emergenza da COVID 19.
Le politiche di chiusura dei porti, così come lo spiegamento degli assetti navali militari al limite delle acque territoriali italiane, e gli accordi con paesi che non garantiscono attività di salvataggio e rispetto dei diritti umani, hanno prodotto, e produrranno ancora di più in futuro, abbandono e morte in mare, violazioni della dignità umana e trattamenti inumani o degradanti nei territori, sia nei paesi di origine che nei paesi di arrivo. Il dispiegamento delle unità navali europee della missione IRINI al largo delle coste orientali della Libia non sembra in grado di intercettare il traffico di armi che sta alimentando il conflitto civile che divampa ancora in questi giorni. La mancanza di una politica estera europea e l’ipoteca americana sulla politica delle Nazioni Unite in Libia stanno accrescendo la conflittualità non solo sul terreno ma anche nelle acque del Mediterraneo centrale, dove il vero controllo militare è svolto prevalentemente dalle navi della marina militare turca, alleata del governo di Tripoli. Nelle città libiche, intanto, il generale Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, sostenuto dai russi, dagli egiziani, e dalla Francia, ha continuato a bombardare gli ospedali ed a tagliare le condutture d’acqua, gettando nel panico la popolazione civile, che adesso deve affrontare anche la minaccia del COVID-19. Al momento in Libia è più probabile saltare su una mina o restare vittima di un bombardamento aereo che contrarre il virus del COVID-19 e morire. Ma tutte le vie legali di uscita dal paese, diviso tra diverse fazioni armate in guerra, sono bloccate.
Il governo italiano sembra interessato soltanto a fare la guerra alle ONG, senza considerare che la maggior parte dei migranti arriva, e comunque arriverà anche nei mesi prossimi su imbarcazioni che sono in grado di raggiungere il territorio italiano. Dal governo di Malta si possono solo attendere altre omissioni di soccorso. Le autorità de La Valletta, che già hanno accordi con i libici, hanno annunciato che non consentiranno più alcuno sbarco sulla loro isola, ritenendo anche il loro porto “non sicuro”. Una ennesima violazione del diritto internazionale del mare e della Convenzione di Ginevra, che prende spunto dalle decisioni del governo italiano. L’Unione Europea appare più divisa che mai, come conferma il fallimento dell’operazione IRINI di Eunavfor Med, certificato dalle posizioni più recenti della Francia che continua a schierarsi alle spalle di Haftar.
Avevamo chiesto da tempo il rinforzo e il coordinamento delle operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale, con un coordinamento tra attività delle ONG e le doverose attività di ricerca e salvataggio degli stati, anche in acque internazionali. Avevamo richiesto l’adozione di un piano nazionale per gli sbarchi, in un momento in cui potrebbe venire meno la limitata disponibilità di alcuni paesi europei ad accettare, sulla base del Memorandum provvisorio di Malta dello scorso anno, il ritrasferimento di una parte delle persone sbarcate in Italia dopo essere state soccorse in mare. Nessuna di queste richieste è stata accolta ed anzi il governo italiano ha inasprito le precedenti scelte repressive imposte da Salvini quando era ministro dell’interno. Adesso si è arrivati nella sostanza ad accettare le scelte di chiusura dei porti proposte dalle formazioni sovraniste. Non saranno certo le“navi hotspot”, come la Moby Zazà che fa la spola tra Lampedusa e Porto Empedocle, a garantire che la quarantena dei naufraghi si possa completare prima dello sbarco in terra e della individuazione di un paese verso il quale trasferire i richiedenti asilo (e soltanto loro).
La “guerra” ai soccorsi in mare che si combatte nel Mediterraneo centrale è certamente più lontana (anche nel cuore degli italiani) dalla “guerra” contro il Covid-19, una guerra che, soprattutto nelle regioni settentrionali continua a fare ancora vittime tutti i giorni. Vittime vicine, visibili, a differenza delle migliaia di vittime disperse in mare o incatenate nei centri di detenzione in Libia, sotto bombardamento oppure merce di scambio tra milizie e trafficanti. Per tutte queste vittime, la tragicità della morte disintegra i tentativi di manipolazione e di occultamento. Se qualcuno pensa che si possano bloccare gli sbarchi di migranti in fuga dalla Libia eliminando le ONG e impedendo i soccorsi, o ritirando i mezzi della Marina e della Guardia costiera che in passato operavano attività di ricerca e salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale, si troverà presto smentito. E si dovrà affrontare una grave emergenza perché gli sbarchi incontrollati saranno molto più numerosi di quelli conseguenti ai soccorsi operati dalle navi umanitarie italiane e straniere. Le conseguenze dell’allontanamento delle ONG si riverbereranno anche sullo stato di salute delle persone che arriveranno comunque a sbarcare a terra. E nelle prossime settimane saranno centinaia, se non migliaia di persone, ennesima riprova che non erano le ONG a costituire un fattore di attrazione (pull factor).
Questa “guerra” contro i migranti e chi presta loro assistenza, non avrà vincitori ma soltanto vinti. I primi a perdere saranno coloro che ci rimetteranno la vita, o che saranno riportati indietro dalla sedicente guardia costiera libica, ammesso che il governo di Tripoli continui a collaborare con le autorità italiane e con l’Unione Europea, per intercettare anche in acque internazionali le persone che riescono a fuggire da un territorio che ormai è fuori controllo e nel quale le diverse milizie si affrontano con i mezzi più spietati. Ma in una partita che ormai sembra giocarsi soprattutto tra Russia e Turchia, saranno sconfitti anche i governi europei, ormai fortemente condizionati dai partiti sovranisti e nazionalisti, ed i loro sostenitori, perché sono rimasti senza un barlume di politica estera comune e di piani di accoglienza allo sbarco. Gli stati della sponda mediterranea dell’Unione Europea, l’Italia, soprattutto, senza piani di soccorso, misure di prima accoglienza e regolarizzazione delle persone comunque presenti nel territorio dello stato, si troveranno ad affrontare una emergenza sociale e sanitaria senza precedenti. Le misure repressive non basteranno più. Né il carcere, né i processi agli operatori umanitari, né i centri di detenzione potranno risolvere questi problemi. Alla fine comunque si dovranno trovare politiche e prassi operative capaci di rispondere immediatamente alle richieste di soccorso in mare e distribuire tempestivamente, sull’intero territorio nazionale, con il rispetto di rigorosi protocolli sanitari, tutte le persone che saranno salvate, anche al di fuori delle acque territoriali italiane.
Ci vorranno poi altre politiche per concordare con gli stati che sono titolari di zone SAR limitrofe interventi coordinati per il salvataggio e lo sbarco in un porto sicuro, senza lasciare perire in mare altre migliaia di innocenti e senza alimentare milizie che in Libia, da tutte le parti, stanno dimostrando una crescente crudeltà. Sarà necessario un approccio al conflitto civile libico, ed alle crisi nei paesi di origine, che privilegi la soluzione dei problemi che sono all’origine delle partenze, come la guerra o la dittatura, ed anche le crisi sanitarie, adesso che il COVID 19 si diffonde in tutto il mondo, piuttosto che puntare esclusivamente sul contenimento, a qualsiasi costo, degli arrivi in Europa.
Non si può accettare che la situazione di progressiva erosione dei diritti umani riconosciuti dalle Convenzioni internazionali, determinata magari dai condizionamenti imposti dagli stessi soggetti politici che poi sfruttano le immagini di abbandono e desolazione che derivano dalle loro politiche, possa continuare ancora ad aggravarsi nella lunga fase di “convivenza” con la pandemia da Covid-19. Occorre una proposta complessiva e coraggiosa di svolta politica sui temi dell’immigrazione e del soccorso in mare, dal punto di vista legislativo e quindi delle prassi applicate, che segnino una vera discontinuità con quanto finora avvenuto, e che si continua a verificare, malgrado il parziale cambio di governo. Lo stato di emergenza proclamato in occasione della pandemia da Covid-19 rischia di subordinare i diritti umani dei migranti e la libertà di azione di chi li soccorre e presta loro assistenza, a un astratto interesse generale di carattere sanitario che si presta come grimaldello per scardinare i diritti fondamentali che vanno riconosciuti a qualunque persona quale che sia la sua nazionalità o il suo stato giuridico (come ricorda l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998).
A) Va ritirato il Decreto interministeriale del 7 aprile 2020 che dichiara i porti italiani “non sicuri”, e quindi vieta l’ingresso, ma solo per le imbarcazioni battenti bandiera straniera che abbiano soccorso naufraghi in acque internazionali. Occorre anche una nuova legge che abroghi i decreti sicurezza, e dunque oltre al decreto sicurezza bis n.53/2019 (convertito nella legge,8 agosto 2019, n. 77) anche il decreto n.113/2018 ( non solo per le previsioni che abbattono il diritto alla protezione e ridimensionano il sistema di accoglienza). Va reintrodotto l’istituto della protezione umanitaria come attuazione del diritto alla protezione garantito dall’articolo 10 della Costituzione.
B) È urgente adottare un provvedimento di regolarizzazione permanente e generalizzata, a regime, sulla base di un contratto di lavoro o di uno stabile rapporto con il territorio e in tutti i casi in cui sia evidente che non ci sono concrete possibilità di rimpatrio. La regolarizzazione deve rivolgersi, anche in assenza di un contratto di lavoro, a tutti coloro che dopo avere presentato richiesta di protezione internazionale hanno atteso anni per la definizione della loro procedura con un esito negativo. Il trattenimento amministrativo va limitato solo a pochi casi più gravi nei quali ci sia una sentenza di condanna passata in giudicato e i rimpatri forzati vanno sospesi fino a quando non sarà superata la diffusione del COVID-19. La maggior parte dei paesi del mondo, peraltro, ha chiuso le proprie frontiere anche per i propri cittadini oggetto delle procedure di rimpatrio con accompagnamento forzato. Andrebbe invece incentivato il rimpatrio volontario.
C) Una normativa specifica dovrà riguardare coloro che hanno subito violenza, le donne con figli minori le vittime di tortura, che vanno aiutati con percorsi di sostegno e una stabile legalizzazione. Tutti coloro che sono arrivati dalla Libia, per le violenze subite in quel paese, ormai in una situazione di guerra civile permanente tra bande e milizie, devono avere riconosciuta almeno la protezione umanitaria, ovvero come oggi si può denominare, “per casi speciali”, se non un grado più elevato di protezione, ove ne ricorrano i presupposti, indipendentemente dalla situazione nel paese di origine. Come era possibile prima dell’abrogazione della protezione umanitaria. E come sarebbe imposto ancora oggi anche da una interpretazione conforme al testo costituzionale dell’art. 19 del Testo unico sull’immigrazione n. 286/1998. Infatti, in caso di rimpatrio nel paese di origine, dopo le violenze che queste persone hanno subito in Libia, non potrebbero avere alcuna forma di risarcimento e di tutela effettiva dei propri diritti fondamentali.
D) In attesa che l’Unione Europea modifichi sostanzialmente il Regolamento Dublino occorre prevedere un percorso preferenziale per il riconoscimento di uno status di protezione per tutti coloro che vengono riportati in Italia da altri paesi europei e garantire loro uno status di accoglienza dignitoso in linea con gli standard imposti dalle direttive dell’Unione Europea. Vanno avviate attività di supporto a favore di tutti coloro che dall’estero si oppongono con ricorsi giurisdizionali al trasferimento in Italia (cd. dublinati), attesa la situazione di sistematico default verso il quale si sta avviando il nostro sistema di accoglienza. Una questione che non potrà essere elusa ancora a lungo da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
E) Il rispetto dei nuovi protocolli sanitari imposti dall’emergenza da Covid-19 impone un ripensamento complessivo del sistema di accoglienza, con la chiusura delle strutture troppo grandi o nelle quali si siano verificate disfunzioni evidenti. Occorre infine rivedere i criteri di valutazione dei progetti di accoglienza, che non si limitino soltanto alla mera comparazione dei dati numerici o alla tempistica della rendicontazione, anche a fronte dei cronici ritardi da parte del ministero nella erogazione dei fondi. I controlli devono mirare soprattutto a verificare i risultati in termini di accoglienza e di inclusione senza esporre gli amministratori locali, e gli stessi gli enti gestori, ad attività di natura ispettiva finalizzate soltanto al taglio della spesa, se non a finalità di lotta politica, come si è verificato nel caso delle verifiche che sono state svolte allo scopo evidente di chiudere l’esperienza di accoglienza diffusa a Riace, che adesso il Consiglio di Stato rivaluta. Se si volesse davvero ripristinare la legalità e garantire standard di accoglienza in linea con le direttive europee ai tempi del COVID-19 si dovrebbe tornare ad un sistema di accoglienza diffusa, favorendo i percorsi di legalizzazione e la collaborazione tra le organizzazioni non governative e le autorità statali, una direzione opposta rispetto a quella seguita in questi ultimi anni.
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