La Corte di Cassazione in una sua recente sentenza sul caso Rackete (n. 6626 del 20/02/2020) ha ricostruito con precisione l’intero sistema normativo che dovrebbe regolare i soccorsi in mare, individuando gli obblighi a carico delle navi soccorritrici e degli stati.
La Corte di Cassazione, con la decisione dello scorso febbraio, ha confermato la valutazione del Giudice di Agrigento, che ha ritenuto non ci fossero i presupposti per convalidare l’arresto (eseguito in quel descritto contesto fattuale, poiché operante il divieto di cui all’art. 385 cod. proc. pen.) è corretta. La verosimile esistenza della causa di giustificazione è stata congruamente argomentata. In questo ambito, il provvedimento ripercorre, necessariamente, le fonti internazionali (Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare, SOLAS- Safety of Life at Sea, Londra, 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980; Convenzione Sar di Amburgo del 1979, resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994; Convenzione Unclos delle Nazioni unite sul diritto del mare, stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994), sia allo scopo di individuare il fondamento giuridico della causa di giustificazione, identificata nell’adempimento del dovere di soccorso in mare, sia al fine di delinearne il contenuto idoneo a scriminare la condotta di resistenza. Proprio le citate fonti in tema di soccorso in mare e, prima ancora, l’obbligo consuetudinario di soccorso in mare (norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta e pertanto direttamente applicabile nell’ordinamento Io interno), in forza del disposto di cui all’art. 10 comma 1 Cost. – tutte disposizioni ben conosciute da coloro che operano il salvataggio in mare, ma anche da coloro che, per servizio, operano in mare svolgendo attività di polizia marittima -, sono il parametro normativo che ha guidato il Giudice nella valutazione dell’operato dei militari per escludere la ragionevolezza dell’arresto di Carola Rackete, in una situazione nella quale la citata causa di giustificazione era più che “verosimilmente” esistente. Né si potrebbe ritenere, come argomenta il ricorrente, che l’attività di salvataggio dei naufraghi si fosse esaurita con il loro recupero a bordo della nave. L’obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale Sar di Amburgo, non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (cosiddetto “piace of safety”).
Secondo la Corte di Cassazione “Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) allegate alla Convenzione Sar, dispongono che il governo responsabile per la regione Sar in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Per l’Italia, il piace of safety (“luogo sicuro”) è determinato dall’Autorità Sar in coordinamento con il ministero dell’Interno. Secondo le citate Linee guida, «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse; dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12). «Sebbene una nave che presta assistenza possa costituire temporaneamente un luogo sicuro, essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative». (par. 6.13)”. Per la Corte di Cassazione, «Non può quindi essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse. Né può considerarsi compiuto il dovere di soccorso con il salvataggio dei naufraghi sulla nave e con la loro permanenza su di essa, poiché tali persone hanno diritto a presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave». A ulteriore conferma di tale interpretazione è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (l’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale».
Il Decreto interministeriale del 7 aprile scorso stabilisce nel suo articolo 1 (ambito di applicazione) che «per l’intero periodo di stato di emergenza sanitaria nazionale derivante dalla diffusione del virus Covid-19, i porti italiani non assicurano i requisiti necessari per la classificazione e definizione di Place of safety, in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il salvataggio marittimo, per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area Sar italiana». La portata normativa del provvedimento non va oltre, perché l’altro articolo del provvedimento, l’art. 2 (Disposizioni generali), si limita a stabilire i termini temporali di efficacia, che scatta “dalla data della sua adozione”, e che dunque non può avere effetto retroattivo, e «per la durata del periodo di emergenza sanitaria di cui alla deliberazione del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020».
Si può addurre ancora dopo tre mesi dall’adozione del provvedimento la motivazione secondo cui, tenuto contro della situazione di emergenza connessa alla diffusione del Coronavirus e dell’attuale “situazione di criticità dei Servizi sanitari regionali”, e dell’”impegno straordinario svolto dai medici e da tutto il personale sanitario per l’assistenza ai pazienti Covid-19, ”non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di tali luoghi sicuri ( luoghi di sbarco sicuri, n.d.a.), senza compromettere la funzionalità delle strutture nazionali sanitarie, logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19″. Per quanto si richiami la dichiarazione del 30 gennaio 2020 con la quale l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) ha dichiarato la natura pandemica del Covid-19, non si rinviene ancora alcun caso di positività ai migranti soccorsi negli ultimi mesi dalle navi umanitarie nel Mediterraneo centrale, e non sembra comunque che tale tipo di argomentazione, seppure collegata alla dichiarazione dello stato di emergenza adottato dal governo italiano il 31 gennaio scorso, possa sospendere a tempo indeterminato l’applicazione delle norme internazionali, europee e interne che nella interpretazione che ne ha fornito la giurisprudenza, fino alla sentenza della Corte di cassazione di febbraio, ribadiscono l’obbligo degli stati di completare le operazioni di salvataggio da chiunque svolte, garantendo con la massima tempestività un luogo sicuro di sbarco.
Il Decreto interministeriale del 7 aprile 2020 costituisce sul piano amministrativo un inasprimento del decreto sicurezza bis (D.L. n. 53/2019, convertito nella L. n. 77/2019). voluto da Matteo Salvini quando era ministro dell’interno. Appare evidente come, nelle premesse giustificative del decreto, il ministro delle infrastrutture, di concerto con gli altri ministri coinvolti nella firma del provvedimento, abbia richiamato solo parzialmente il diritto internazionale del mare con un ritorno a tutte quelle motivazioni adottate in precedenza da Salvini per le ordinanze “ad navem” che tendevano a “chiudere” i porti italiani. Ma solo con esclusivo riferimento alle navi delle Ong che avessero effettuato attività di soccorso in mare, con motivazioni puntualmente disattese da diverse decisioni dei giudici di merito, e da ultimo dalla Corte di cassazione, che hanno ribadito l’obbligo dello stato italiano di indicare un porto di sbarco sicuro quando comunque una nave soccorritrice fosse entrata nella zona Sar ( ricerca e salvataggio) italiana, salva la successiva valutazione in sede giurisdizionale del comportamento del comandante e dell’equipaggio.
Il decreto interministeriale tradisce la sua vera finalità, che mira a costituire ulteriori premesse per iniziative dei prefetti e della magistratura che portino al sequestro delle navi umanitarie e alle incriminazioni dei comandanti e dei capi missione, quando nell’individuare i casi di soccorso che sarebbero compresi nel divieto di sbarco in un porto italiano (atteso che l’Italia intera non potrebbe garantire un place of safety, Pos), un porto di sbarco sicuro, fa riferimento esclusivamente ”ai casi di soccorso effettuati da parte di unità battenti bandiera straniera che abbiano condotto le operazioni al di fuori dell’area Sar italiana, in mancanza del coordinamento del IMRCC Roma”. Sarebbe dunque il “coordinamento” delle attività Sar da parte della Centrale operativa della Guardia costiera italiana, ormai indirizzata dalle scelte del ministro dell’interno, che distinguerebbe i soccorsi per i quali i porti italiani resterebbero aperti, pure in presenza della pandemia da Covid-19, da quelli per i quali l’Italia non sarebbe in grado di garantire porti sicuri di sbarco, quelli operati dalle Ong e comunque da navi battenti bandiera straniera, al di fuori della zona Sar italiana e senza il “coordinamento” delle autorità italiane.
7. Nell’estate del 2018, a pochi giorni dall’entrata in vigore, in Italia, del cosiddetto decreto sicurezza-bis, e dall’immediata adozione del primo “divieto ministeriale di ingresso” nelle acque territoriali italiane ai sensi del nuovo art. 11, co. 1-ter T.U. imm., il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, organo indipendente attualmente rappresentato dalla bosniaca Dunja Mijatović, aveva emanato una raccomandazione dall’eloquente titolo Lives Saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean (ZIRULIA,DPC). Nel documento si sottolineava che “il primo Rcc (Centrale di coordinamento) contattato, anche se l’emergenza è avvenuta al di fuori della sua Srr (Zona SAR), mantiene la responsabilità dell’evento finché sia accertato che l’Rcc competente per quella regione, o altro Rcc, abbia dichiarato di assumere il coordinamento e si sia effettivamente attivato in tal senso (p. 20)”. La Centrale operativa della guardia costiera italiana rimane dunque responsabile dell’operazione Sar, e per essa il ministero dell’interno che ne stabilisce le linee di azione, fino a quando non sia accertato che i naufraghi siano stati presi in carico da un paese che garantisca un porto sicuro di sbarco.
*Avvocato, componente del Collegio del Dottorato in “Diritti umani: evoluzione, tutela, limiti”, presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Palermo. È componente della Clinica legale per i diritti umani (CLEDU) dell’Università di Palermo.
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