L’aggressione al diritto internazionale è un processo lungo e sempre più silenzioso. Anche la dichiarazione dello stato di emergenza per il Covid-19 è stata utilizzata per calpestare i diritti umani e la possibilità di soccorre persone in mare, ma perfino per inasprire gli odiosi decreti sicurezza. Una meticolosa ricostruzione di quanto avvenuto nelle ultime settimane su questo fronte, di Fulvio Vassallo, il giurista europeo più esperto di migrazioni nel Mediterraneo
Dal dossier Fare comunità. La pandemia e i migranti
Articoli di Andrea Staid, Annamaria Rivera, Daniele Moschetti, Roberta Ferruti, Caterina Amicucci, Chiara Marchetti, Manuela Vinay, Gianfranco Schiavone, Fulvio Vassallo, Sara Maar, Mauro Armanino, collettivo Malgré Tout
Il 31 gennaio 2020 il Consiglio dei ministri ha decretato lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili, il Covid-19. Da quella data un profluvio di Decreti del presidente del consiglio (Dpcm) e ordinanze di presidenti di regione e sindaci hanno costituito un fitto reticolo normativo, di carattere amministrativo, che, oltre a limitare la libertà di circolazione dei residenti in Italia, ha influito sulla indicazione di un porto sicuro di sbarco, imposta dal diritto internazionale del mare e sulla successiva destinazione dei naufraghi nel sistema di prima accoglienza. In conseguenza di questo stato di emergenza è stato emanato il decreto interministeriale del 7 aprile, impropriamente definito come “porti chiusi”. In realtà i porti non sono mai stati chiusi e, mentre si sono fermate per mesi le attività di soccorso delle Ong, sono sempre continuati i cosiddetti sbarchi autonomi, come pure le operazioni di soccorso da parte della Guardia costiera e della Guardia di finanza, abilitate a intervenire – per ordini superiori di natura politica – soltanto quando le imbarcazioni cariche di migranti fossero entrate nelle nostre acque territoriali (dodici miglia dalla costa).
Lo “stato di emergenza”è previsto dalla legge 225 del 24 febbraio 1992 in materia di Protezione Civile che prevede che venga emanata la delibera da parte del governo in casi eccezionali. Secondo questa legge, «al verificarsi degli eventi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c) come (“calamita” naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari) il consiglio dei ministri, su proposta del presidente del consiglio dei ministri, ovvero, per sua delega ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del ministro per il coordinamento della protezione civile, delibera lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale in stretto riferimento alla qualità e alla natura degli eventi. Con le medesime modalità si procede alla eventuale revoca dello stato di emergenza al venir meno dei relativi presupposti».
Il provvedimento con cui il ministro dei trasporti, con il decreto interministeriale del 7 aprile, ha deciso il divieto di ingresso nelle acque territoriali soltanto alle navi battenti bandiera straniera che avessero soccorso naufraghi al di fuori della zona Sar italiana, risulta soltanto un atto di natura amministrativa emanato in base ai poteri conferiti al governo e alla Protezione civile per fare fronte all’emergenza Covid-19 proclamata sull’intero territorio nazionale. Si tratta di un atto comunque soggetto a un sindacato giurisdizionale che avrebbe dovuto accertare il rispetto del principio di uguaglianza e del principio di legalità, e i requisiti di merito del provvedimento. Resta ancora da valutare se vietare il passaggio inoffensivo nelle acque territoriali e lo sbarco in un porto sicuro in Italia costituisca un mezzo appropriato per contrastare la diffusione dell’epidemia nel nostro paese o non costituisca piuttosto, come già verificato dopo il “decreto sicurezza bis”, e prima ancora con le “Direttive” dell’ex ministro dell’interno Matteo Salvini, un esercizio abusivo della discrezionalità amministrativa, oltre che per motivi di propaganda, per ottenere un risultato politico nella trattativa con gli altri partner europei (con la chiamata in causa dello stato di bandiera della nave soccorritrice).
Si può ritenere che tra i “principi generali” dell’ordinamento italiano – che garantisce i diritti fondamentali a qualunque persona, inderogabili in base alla dichiarazione dello stato di emergenza da parte del governo -, ricorra, oltre al principio di non refoulement, affermato dalla Convenzione di Ginevra del 1951, il dovere primario di salvaguardare la vita umana in mare e di realizzare operazioni di ricerca e soccorso in conformità alle Convenzioni internazionali di diritto del mare (anche per l’espresso richiamo che si fa a tali Convenzioni negli articoli 10 e 117 della Costituzione italiana). Il diritto alla vita, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, il diritto alla salute e il divieto di respingimenti collettivi costituiscono limiti alla sovranità dello Stato e ai poteri discrezionali dei singoli ministri o dell’intero governo. Lo affermano in più occasioni i Tribunali internazionali, come nei casi Hirsi, Sharifi e Khlaifia decisi dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo con tre pesanti sentenze di condanna nei confronti dell’Italia, condanne definitive che oggi si cerca di aggirare in tutti i modi.
L’articolo 15 del capitolo V della Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas, del 1974) fissa le regole di base in ordine alle operazioni di ricerca e soccorso. Secondo questa norma “ciascun Governo contraente si impegna ad assicurare che tutte le necessarie disposizioni siano prese per la sorveglianza e per il soccorso delle persone in pericolo in mare in prossimità delle loro coste”; e inoltre: “ciascun Governo contraente si impegna a fornire notizie concernenti i mezzi di salvataggio di cui dispone e gli eventuali progetti di modifica di tali mezzi”.
La Convenzione di Amburgo, conosciuta come Convenzione Sar (Search and Rescue), del 1979, stabilisce gli obblighi di ricerca e salvataggio a carico degli stati, gli aspetti tecnici più importanti di attuazione degli obblighi di soccorso sono contenuti nell’”Annesso alla Convenzione”. Secondo l’articolo 2, punto 2 di questa Convenzione, “nessuna disposizione della Convenzione dovrà essere interpretata in modo da pregiudicare gli obblighi o i diritti delle navi, definiti in altri strumenti internazionali”. Eppure il governo italiano, a fronte dell’emergenza sanitaria derivante dalla pandemia Covid-19, ha disposto la chiusura dei porti con un decreto interministeriale basato sul richiamo alla Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (Unclos) del 1982, senza fare alcun riferimento alla Convenzione Solas (sulla sicurezza della navigazione) e alla Convenzione di Amburgo sui soccorsi in mare, che pure stabiliscono obblighi precisi in capo agli stati.
Gli accordi tra gli stati previsti dall’Annesso alla Convenzione di Amburgo sono finalizzati al soccorso immediato delle persone in pericolo in mare e non si prestano a giustificare stancanti trattative tra stati per la ripartizione dei naufraghi. Le parti contraenti devono assicurare le necessarie disposizioni per l’approntamento di adeguati servizi di ricerca e soccorso intorno alle loro coste, in modo da garantire un’immediata risposta a qualsiasi chiamata di soccorso, e adottare urgenti azioni per la più appropriata assistenza a qualsiasi persona in pericolo.
Le parti sono invitate a coordinare i loro servizi e mezzi nazionali, creando dei centri e sottocentri di coordinamento (Rcc e Rsc), questi ultimi dotati di mezzi per telecomunicazioni con le unità navali e aeree e con gli Rcc e Rsc adiacenti. Il terzo capitolo dell’Annesso alla Convenzione Sar prevede il coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso di ciascun paese con quelle dei paesi vicini e le procedure per le autorizzazioni da concedere per l’accesso di unità navali e/o aeree di soccorso di tali paesi nelle o al di sopra delle acque territoriali nazionali. In base al punto 3.1.9 della Convenzione di Amburgo, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, «la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Tale obbligo ricorre anche nel caso in cui le attività di ricerca e soccorso debbano essere svolte al di fuori della zona Sar di competenza, laddove l’autorità dello stato che sarebbe invece competente (in base alla delimitazione convenzionale delle zone Sar) non intervenga, o non risponda entro un tempo ragionevole. Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio.
Il quinto capitolo dell’Annesso alla Convenzione di Amburgo definisce le fasi di emergenza per gli scopi operativi che caratterizzano un’operazione di ricerca e salvataggio, dalla ricezione di un messaggio di soccorso (allertamento) fino alla fase di intervento dei mezzi e loro coordinamento (fase di soccorso). secondo quanto previsto dal Paragrafo 5.1.9, “Ciascuna unità che è a conoscenza di un caso di pericolo adotta immediatamente delle misure a seconda delle sue possibilità al fi ne di prestare assistenza o dà l’allarme alle altre unità in grado di prestare assistenza ed avverte il centro di coordinamento di salvataggio o il centro secondario di salvataggio della zona in cui si è verificato il caso di pericolo”.
Nessuno stato, avvertito di un evento di soccorso di persone in situazione di pericolo in alto mare, può dunque rifiutare il coordinamento delle prime fasi delle attività Sar, o attendere l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo stato di bandiera della nave soccorritrice, allo scopo di “scaricare” su quest’ultimo l’onere dello sbarco a terra dei naufraghi, come in diverse occasioni è stato affermato dalla ministra dell’interno Luciana Lamorgese. Appare poi del tutto fuorviante ritenere che lo stato di “primo contatto” possa essere lo “stato di bandiera” della nave soccorritrice sulla quale sono saliti i naufraghi, e non invece la prima autorità statale informata dell’evento di soccorso e chiamata a predisporre gli interventi necessari nel tempo più rapido possibile, attivando tutte le forme di coordinamento e di intervento previste dalla Convenzione di Amburgo. Se si ritenesse come paese competente per la indicazione del porto di sbarco sicuro quello di bandiera della nave soccorritrice, l’intero sistema del soccorso in mare risulterebbe inficiato, e non si può prevedere che tale regola operi esclusivamente a danno delle navi delle Ong, e non anche per i soccorsi operati dalle navi commerciali, o da quelle militari, incluse quelle delle missione Eunavfor Med denominata Irini, che infatti sbarcheranno in Grecia tutti i naufraghi che soccorreranno nell’ambito della loro attività.
Secondo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, titolato «Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)», è nullo qualsiasi Trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Ai fini della stessa Convenzione, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale degli stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere. È bene ricordare che per trattato internazionale si intende qualunque «accordo internazionale concluso per iscritto tra Stati e regolato dal diritto internazionale, che sia costituito da un solo strumento o da due o più strumenti connessi, qualunque ne sia la particolare denominazione».
La dichiarazione di uno stato di emergenza sanitaria per effetto della pandemia da Covid-19 non sospende gli obblighi internazionali degli stati, tenuti a completare le operazioni di soccorso in mare fino allo sbarco a terra dei naufraghi in un porto sicuro (place of safety). In base all’art. 98 della Convenzione Unclos del 1982, titolato «Obbligo di prestare soccorso», ogni stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo e proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto (nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa). In base alla stessa Convenzione, ogni stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli stati adiacenti tramite accordi regionali.
La formulazione del decreto interministeriale adottato il 7 aprile 2020 dal governo italiano con il “concerto” di ben quattro ministri, contiene un erroneo richiamo a una singola norma di una Convenzione internazionale, l’art. 19 comma 2 della Convenzione Unclos (non quindi alla Convenzione di Amburgo). Secondo questa previsione lo stato potrebbe vietare l’ingresso di una nave nelle acque territoriali qualificando il suo passaggio come “non inoffensivo”. Risulta non inoffensivo il passaggio nel mare territoriale quando è “pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero” se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in attività come ”il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero”. La previsione costituisce una deroga al principio della libertà di navigazione affermata dall’art. 19 della Convenzione Unclos al primo comma. Come norma in deroga non può essere estesa a casi diversi da quelli espressamente previsti per la sua applicazione.
Non trova dunque alcuna giustificazione, nè fondamento nelle Convenzioni internazionali, una limitazione all’ingresso nelle acque territoriali per le sole navi di soccorso che battono bandiera straniera. Navi che non violano le leggi sull’immigrazione ma adempiono a obblighi di salvataggio che gli stati omettono da tempo. A prescindere dallo stato di bandiera, quando una nave carica di persone soccorse in acque internazionali si trovi al limite o all’interno della cosiddetto “zona contigua” alle acque territoriali, e chiede di fare ingresso in porto per sbarcare naufraghi, ricade sotto la giurisdizione dello stato, sia per l’adozione delle misure di carattere penale e amministrativo, sia in modo corrispondente per quanto riguarda gli obblighi di sbarco e di assistenza, con particolare riferimento ai minori e ai soggetti più vulnerabili. Obblighi di assistenza che non potranno essere assolti inviando soltanto scorte di vestiario e rifornimenti di viveri o provvedendo alle esigenze sanitarie più urgenti, senza trovare una soluzione immediata di sbarco a terra.
*Avvocato, componente del Collegio del Dottorato in “Diritti umani: evoluzione, tutela, limiti”, presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Palermo. È componente della Clinica legale per i diritti umani (CLEDU) dell’Università di Palermo.
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