Sì, certo, festeggiamo pure, oggi, 2 giugno, la fine della monarchia. Fu ottenuta 75 anni fa anche, e forse soprattutto, grazie al riconoscimento del diritto di voto alle donne, esercitato, per la prima volta nella storia italiana, già nelle amministrative tenute in diverse regioni qualche mese prima. Da domani, però, lasciamo stare la retorica celebrativa, torniamo a mettere i piedi per terra e riprendiamo a interrogarci su cosa rimane della democrazia nelle istituzioni repubblicane e di quanto quel suffragio “universale”, diventato stanca routine garantisca, con il regime di rappresentanza, la forma più appropriata di “governo del popolo”. L’articolo di Gustavo Esteva che pubblichiamo qui – scritto dallo stato messicano di Oaxaca, quello con la più alta percentuale di popolazione indigena, dove Gustavo vive – esprime un punto di vista, certo provocatorio, ma ispirato da una dura realtà delle cose assai difficile da smentire con i fatti: rimangono solo le ceneri dei pilastri che sostenevano le credenze e le convinzioni con cui abbiamo orientato i comportamenti e le decisioni per decenni. Per lasciare da parte le illusioni e iniziare a farsi guidare dalla realtà, dalle esigenze quotidiane, spiega Esteva ragionando a scala planetaria e comunque di processi lunghi e complessi, c’è un enorme impedimento: la sensazione che farlo sia un salto nell’abisso. Il suggerimento più importante che ci dà è quello di non centrare l’attenzione e l’attività sui poteri che sembrano poter governare in alto. Governare non è comandare, chi – per illudersi di farlo – deve far ricorso alla polizia e all’esercito, può distruggere un popolo ma non governarlo. Bisogna invece restare in basso, a livello del suolo, con i piedi ben piantati dove si definiscono le reali condizioni dell’esistenza

Non sarà facile abbandonare i pregiudizi, i fantasmi e le illusioni che guidano ancora il nostro comportamento. Ma forse, chissà, non c’è altra scelta che provarci.
Non è stato facile costruirli. Lo Stato-nazione, come forma politica del capitalismo, è stato creato sostituendo credenze e convinzioni basate su tradizioni ancestrali ed esperienze quotidiane con nuove costruzioni astratte. Sebbene vi fosse resistenza ovunque, si riuscì a creare, spesso con la forza, individui omogenei senza genere – il cittadino, l’homo economicus – subordinati alle nuove strutture. La gente assunse un profondo impegno personale nei confronti dell’individuo in cui ognuno veniva trasformato e gli si infuse qualcosa di più di una semplice sottomissione: si generò un amore appassionato per la cosiddetta patria, nel cui nome si poteva fare ogni sacrificio, compreso quello della vita.
Con il tempo, quel progetto acquisì l’aggettivo “democratico”, che significava due cose. Che la “democrazia” fosse più apparente che reale, cioè che i cittadini, il popolo, avessero l’illusione di governare la società, attraverso i loro rappresentanti, anche se in realtà il governo restava sempre nelle mani di un’élite politica ed economica che lo teneva sotto il suo controllo. E che questa parvenza democratica, inoltre, avrebbe potuto essere sacrificata, qualora fosse necessario farlo per mantenere il dominio di quell’élite e quindi il funzionamento del capitalismo.

Oggi sembra sorprendente che gran parte della popolazione abbia aderito pienamente a tutto questo. Molte persone continuano a difendere con fermezza la loro condizione individuale e i “diritti” che le si associano. Credono nella cosiddetta “patria”, nonostante la sua impronta patriarcale; rimangono pronti a difenderla e a lottare per essa. È difficile, fino ad oggi, mettere in discussione la sua esistenza, mostrare che manca di realtà. E credono anche nel regime di rappresentanza, come forma più appropriata di “governo del popolo”.
Tutto ciò è stato influenzato dalla convinzione generale che “il potere” sia là in alto. Che l’importante sia conquistarlo. “Prendere il potere” è stata la parola d’ordine dei riformisti o dei rivoluzionari di tutto lo spettro ideologico. Che si utilizzi la violenza della guerriglia o i mezzi pacifici, la lotta dei partiti o i colpi di mano, quel che conta è controllare l’apparato in cui si concentrerebbe il potere. Poche persone si rendono conto che il potere non è qualcosa che alcuni detengono e altri no, qualcosa che può essere “preso”, “conquistato” o “distribuito”. Il potere è una relazione. Coloro che “detengono” potere lo ricevono da quelli sui quali lo esercitano… che possono ritirarlo in qualsiasi momento. Governare non è comandare, come fanno coloro che il potere lo hanno perso e quindi impiegano la polizia e l’esercito. In questo modo, si può distruggere un popolo, ma non governarlo.

Risulta molto difficile continuare a sostenere i pregiudizi, le illusioni e i fantasmi che hanno reso possibile l’espansione del capitalismo (e che sono stati applicati perfino ai cosiddetti esperimenti socialisti) ai livelli in cui siamo arrivati oggi. Vale a dire quando tutti gli apparati di governo, l’azione capitalista stessa e i dispositivi “democratici” si trovano in aperta decadenza; quando il mondo in cui tutto questo sembrava funzionare – sebbene sia sempre stato a beneficio di pochi e a spese di molti – sta cadendo a pezzi intorno a noi; quando nel mondo intero si impone un autoritarismo travolgente, a volte mascherato da populismo.
Per abbandonare tutto questo e iniziare a farsi guidare dalla realtà, dalle esigenze quotidiane, c’è un impedimento: la sensazione che farlo sia un salto nell’abisso. Ci hanno modellati in modo tale che l’affermazione secondo cui i cosiddetti Stati nazionali sono stati smantellati e che i loro governi già non governano più sembra una provocazione infondata, sebbene si accumuli ogni sorta di prove logiche ed empiriche per dimostrarlo. Sarebbe pura follia rendersi conto che quelle prove non sussistono.

È però altrettanto difficile che si diffonda nella coscienza generale il fatto che sia diventato particolarmente urgente costruire forme di organizzazione sociale e politica che mettano in relazione i gruppi, le reti e le organizzazioni, nei quartieri urbani come nelle comunità rurali, che definiscono le reali condizioni dell’esistenza.
È di questo che si tratta oggi, quando rimangono solo le ceneri dei pilastri che sostenevano le credenze e le convinzioni con cui abbiamo orientato i comportamenti e le decisioni. Invece dell’inutile tentativo di resuscitare i morti, oggi dobbiamo appellarci all’immaginazione e alla creatività popolare per transitare verso la nuova realtà, consapevoli che sono svanite anche le pietre miliari che delimitavano la strada, le strade.
Nell’osare aprire gli occhi in questo modo, per fortuna si scoprono tuttavia, ovunque, iniziative prese a livello del suolo da coloro che da tempo si sono resi conto di questa situazione. Si trovano per lo più in comunità che non sono mai cadute completamente nelle illusioni dominanti, che non si sono lasciate governare dai loro fantasmi e che non hanno condiviso i loro pregiudizi.
Quelle iniziative e quelle persone non pretendono di andare sulla Luna o su Marte. Affrontano ogni giorno le vessazioni del mercato e dello Stato e subiscono aggressioni sempre più violente. Però fanno ancora con allegria e coraggio ciò che deve essere fatto: seppellire ciò che muore e aprirsi a una nuova era. Adesso.
Fonte: Recuperar el piso, in La Jornada.
Traduzione a cura di Camminardomandando.
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