
Dei “massimi sistemi”, possiamo dire molto poco di sicuro, e quel poco di sicuro che possiamo dire, non avrà assolutamente alcun effetto. Mentre dei “piccoli sistemi”, non solo ci azzecchiamo perché per forza di cose, li conosciamo meglio di chiunque altro, ma possiamo anche fare qualcosa. A gran fatica, ma lo possiamo fare. “Fare”, oltre ovviamente a fare (un mazzo così), vuol dire, smettere di indirizzare moccoli nei confronti dei politici del Partito A, di lamentarci piove governo ladro, di pensare che se solo vincesse il Partito B staremmo tutti meglio. Quando il mondo attorno a noi collasserà, scompariranno le inascoltate sicumere che avremmo potuto dire, che so, sulla Palestina, o su Giorgia Meloni o sull’Ucraina, ma resteranno un giardino, un palazzo, una chiesa abbandonati e fatti rivivere.
Il giardino, il palazzo, la chiesa, il Rione, richiedono un lavoro folle, tra spid e runts e codice ateco e firma digitale e refa…, ma alla fine riusciamo a ottenere qualcosa che non si aveva dai tempi delle comunanze (l’autore fa riferimento al lavoro di un’associazione di famiglie dell’Oltrarno fiorentino, di cui abbiamo parlato spesso su Comune, che da alcuni anni gestisce, a titolo gratuito e grazie a una convenzione con il comune di Firenze, un giardino comunitario, ndr).
Lo abbiamo potuto ottenere grazie a Labsus, il Laboratorio per la Sussidiarietà, e l’immane e invisibile lavoro che ha fatto per ribaltare l’intero sistema con cui viene amministrata l’Italia. Per cui LabSus dovrebbe essere più famoso, almeno, di tutti gli influenzer sul Libro de’ Ceffi. Grazie a LabSus, esiste il diritto mio e tuo, non solo di dire, ma addirittura di fare il nostro sui minimi sistemi. Ora, credo che dobbiamo sempre combinare due cose: il fatto di essere d’accordo con i principi espressi a parole da una persona, e quella cosa sanamente animalesca che ti dice, se la persona in questione sia affidabile. LabSus ha superato entrambe le prove.
Oggi, si parlava con le amiche di una cooperativa che ha vinto un appalto per gestire servizi rivolti a giovani dagli undici ai diciott’anni. Raccontavo loro di una splendida sorella, che strappa a mani nude l’ortica per farne insalata e con le stesse mani fa nascere bambine e bambini dai ventri delle donne che si affidano a lei, e che con un’occhiata instilla nelle ragazze piene di dubbi l’orgoglio eroico di essere ciò che sono, e le rende orgogliose di donare il loro sangue al mondo… lo dico da uomo, ovviamente, scusandomi. E dicevo, coinvolgiamola per comunicare con affettuosa fierezza con le fragili bimbe del nostro Rione, che hanno paura persino di esistere, figuriamoci di diventare donne.
Le amiche della cooperativa restano commosse, ma mi raccontano come tutte le ragazze che frequentavano il loro centro, passando dalle medie alle superiori, hanno cominciato a fumare, e poi sono passate alla thc, e poi come qualcuna sia seguita dai servizi sociali per violenze domestiche, e qualcun’altra è stata rapita da un discutibile servizio sociale.
Ci vuole tanta resilienza, di quella davvero, che non c’entra niente con i piani dei governanti, per non mollare mai, per sorridere in faccia alla bimbetta che appena qualche anno prima ti arrivava all’anca e oggi si sta distruggendo, come per sorridere a Domenico che dorme in un camper che a sessantaquattr’anni è tutto ciò che gli è rimasto, e cura il nostro giardino, e ci fa crescere piante bellissime; e c’è anche Neri. Anche lui ha la memoria un po’ confusa, ma poi porta me e la mia piccola curiosa alunna d’inglese a un albero: è un ciliegio, che sta sul confine del territorio accanto, ma sovrabbonda dalla parte nostra. E mentre assaporiamo le ciliegie, Neri mi dice che lui piantò proprio quel ciliegio, trentasette anni fa. Prendi una ciliegia, ha un sapore stupendo.
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