Il rapporto “Chi finanzia l’espansione dell’industria fossile in Africa?“- lanciato dalla organizzazione tedesca Urgewald, dalla coalizione Stop EACOP di cui fa parte ReCommon, da Oilwatch Africa e da altre 34 ONG africane alla COP27 di Sharm el-Sheik – identifica 200 società che stanno esplorando o sviluppando nuove riserve di combustibili fossili. Quelle società stanno anche sviluppando sul territorio africano nuove infrastrutture fossili come terminal di gas naturale liquefatto (LNG), gasdotti o centrali elettriche a gas e a carbone. La principale multinazionale italiana, Eni, seconda impresa del mondo nel 2021 per attività estrattive in Africa, e le due banche di sistema, Intesa Sanpaolo e UniCredit, svolgono naturalmente un ruolo di primissimo piano
Nel 2021, Eni è risultata la seconda multinazionale estrattiva per attività in Africa. Il 59 per cento della produzione globale del cane a sei zampe arriva infatti dal continente africano. L’aumento previsto da Eni negli anni a venire di 1,32 miliardi di barili, frutto anche di un investimento di 1,1 miliardi di dollari fra il 2020 e il 2022, farà sì che le emissioni derivanti siano addirittura il doppio rispetto a quelle registrate all’anno in Italia. Solo la Sonatrach algerina dedica più fondi all’attività di esplorazione.
Tra i 14 paesi africani dove il cane a sei zampe è presente ci sono Egitto, Nigeria, Libia, Algeria e Repubblica del Congo, in cui la società fondata da Enrico Mattei è attiva da decenni. Ma è in fortissima crescita la presenza di Eni anche in Angola e Mozambico. Nel primo Paese, dal 2018 a oggi ha effettuato numerose scoperte, arrivando a formare un consorzio con la BP, denominato Azule Energy, che dovrebbe produrre 200mila barili di petrolio da riserve stimate per un totale di due miliardi di barili. Entro il 2026, inoltre, in Angola si arriverà a produrre sei miliardi di metri cubi di gas l’anno.
Il gas è di certo il business più fruttuoso in Egitto, dove il mega-giacimento di Zohr scoperto nel 2016 è la punta di diamante, ma anche in Mozambico. Eni è già attiva con il progetto Coral South e sta spingendo per aggiungere alla corona il gioiello di Rovuma LNG. Valore stimato in 30 miliardi di dollari, con tanto di realizzazione di un impianto su terraferma per il processamento e l’export del gas proveniente da 24 pozzi sottomarini. Ma proprio nella regione interessata dall’attività di Eni e della multinazionale francese Total è in corso un’insurrezione armata guidata dal gruppo Al-Shabaab, che dal 2017 ha causato oltre 4mila vittime e 800mila sfollati. Da luglio scorso c’è stata una forte impennata degli attacchi, con 120 azioni e almeno 200 morti, tra le quali la suora comboniana Maria De Coppi, uccisa nel villaggio di Chipene.
Tutte queste opere devastanti sarebbero difficilmente realizzabili senza il sostegno finanziario di fondi e banche private. Dati alla mano, aggiornati a luglio 2022, oltre 5mila investitori istituzionali avevano azioni e obbligazioni delle compagnie fossili attive in Africa, per un ammontare di 109 miliardi di dollari. Ben 12 miliardi fanno capo al fondo di investimento statunitense BlackRock, che a Eni “dedica” 958 milioni del suo ricco portafoglio. Tra gli istituti di credito sono ancora due soggetti a stelle e strisce a dominare: Citigroup (5,591 miliardi) e JPMorgan Chase (5,093 miliardi), seguiti dalla francese BNP Paribas.
Ma la finanza privata italiana non sta certo a guardare, piazzandosi al settimo posto a livello globale per finanziamenti fossili in Africa. In classifica sono ben presenti infatti i due campioni del mondo bancario italiano, UniCredit (2,163 miliardi) e Intesa Sanpaolo (1,491 miliardi), in prima fila nel sostenere i progetti oil&gas di Eni nel continente africano.
Facendo riferimento, tra i tanti, ai casi sopramenzionati, parliamo di 160 milioni di dollari da parte di UniCredit e di 110 milioni di dollari da parte di Intesa (tramite la incorporata Ubi banca) al progetto Coral South FLNG di Eni in Mozambico. E potrebbero essere in rampa di lancio per finanziare i progetti della joint-venture Azule Energy in Angola.
“Così, mentre in casa nostra si propongono come enti di prossimità, di vicinanza ai territori e sostenibilità, le nostre principali banche alimentano altrove un business fossile che, in modo particolare nel continente africano, oltre a provocare devastazione ambientale è fonte di conflitti e instabilità politica, economica e sociale.” commenta Daniela Finamore, campaigner Finanza e Clima di ReCommon. “Un continente martoriato dalla spregiudicatezza dei governi e delle lobby industriali e finanziarie, a cui si aggiunge la corsa al gas africano come risposta alla crisi energetica che sta interessando l’Europa. Uno scenario che non promette bene e che sicuramente non troverà punti di svolta nell’ambiguo vertice sul clima di Sharm el-Sheikh”.
Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con Re:Common
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