Quello che chiamiamo mercato immobiliare è un centro commerciale nel quale lo spazio viene messo in vendita non per rispondere ai bisogni sociali di tutti, ma come investimento che deve produrre rendita e profitto. Alla fine della fiera il mercato, spiega Marvi Maggio, “si mostra non solo incapace di rispondere ai bisogni, ma si dimostra criminale, perché sottrae il diritto di vivere in modo soddisfacente a una vasta parte di popolazione mondiale”. Come per altri mercati, i posti di lavoro sono la giustificazione degli interventi immobiliari, naturalmente senza guardare a cosa quei lavori producono. La soluzione resta umanizzare in tanti modi diversi “la vita quotidiana, lottare contro l’alienazione, liberare spazio e tempo”. Si tratta, ad esempio, di progettare insieme agli abitanti gli spazi collettivi, ma anche di ripartire da alcune domande: che persone vogliamo essere? in che tipo di città vogliamo vivere? come, dove, quanto vogliamo produrre ciò che ci serve per vivere?
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Il processo di urbanizzazione è generato da molti attori che agiscono sul palinsesto esistente, il territorio. Fra si essi, purtroppo, oggi rendita e profitto sovrastano tutti gli altri, potendo tra l’altro fare affidamento sull’investimento finanziario, che trova nel settore immobiliare un ambito particolarmente appetibile. Ci troviamo di fronte l’economia capitalistica fondata sullo sfruttamento, l’accumulazione da espropriazione, ma anche sulla sottrazione a livello di realizzazione (vendita a prezzi elevati e non in rapporto con i costi di produzione), e sull’estrattivismo.
In questo contesto l’obiettivo è assicurare l’appropriazione di spazio e tempo, che è pratica di libertà, per tutti.
Il problema centrale che dobbiamo affrontare è il potere strutturale del mercato immobiliare sul processo di urbanizzazione: decide quanto e cosa viene prodotto. Lascia strutturalmente senza risposta un vasto settore di domanda abitativa e per spazi pubblici e collettivi, espelle dalle grandi città un settore sempre più vasto di potenziali abitanti. Sappiamo come il turismo sottragga spazi, basti pensare alla vicenda airbandb, e consenta prezzi incomparabilmente più alti di quelli per le residenza stabile. Anche le università creano pressione sul mercato immobiliare, e le residenze per studenti vanno per la maggiore ora, ovviamente per quelli che possono pagare.
Il problema è strutturale: lo spazio viene offerto non per rispondere ai bisogni sociali di tutti, ma come investimento che deve produrre rendita e profitto. Il settore finanziario spesso approda su questo tipo di investimenti, immobiliari. I fondi alla ricerca di investimenti lucrosi provengono da tutto il mondo e comprendono anche i fondi pensione, che nascono dalla immissione sul mercato del sistema pensionistico, dove la pensione diventa una scommessa.
I beni e servizi sono offerti sul mercato capitalistico, e il settore immobiliare segue questa regola generale, in base alla capacità di spesa, quindi tutti i bisogni non solvibili non trovano risposta. Questo meccanismo diventa inaccettabile in particolare per beni e servizi come l’abitazione, la salute, la cultura, l’istruzione, nei quali il mercato si mostra non solo incapace di rispondere ai bisogni, ma si dimostra criminale, perché sottrae il diritto di vivere in modo soddisfacente a una vasta parte di popolazione mondiale.
Il settore immobiliare è un settore forte del capitalismo contemporaneo e rappresenta fino al 40% dell’attività economica dei paesi capitalistici avanzati. Va notato che nel PIL l’immobiliare pesa con i suoi prezzi spesso gonfiati. Infatti comprendono la rendita che è il prezzo di un bene che non è prodotto e non ha quindi un costo di produzione: con la rendita si paga il prezzo di uso di una parte della terra che è impropriamente appropriata da qualcuno, mentre è un bene comune che appartiene a tutti. L’appropriazione di terra storicamente gronda sangue: basti pensare alle guerre territoriali e alle sofferenze che la sua appropriazione provoca a un enorme settore degli abitanti della terra.
Il ruolo del settore pubblico
Il ruolo del settore pubblico, dello stato nelle sue varie compagini, potrebbe essere quello di governare il mercato, ma a partire dagli anni ’80, con il progressivo prevalere del neoliberismo, il contrattacco di classe contro i movimenti rivoluzionari degli anni ’70, lo stato ai suoi diversi livelli amministrativi impone con forza l’obiettivo dello sviluppo economico capitalistico, al quale viene aggiunto l’aggettivo sostenibile, che sappiamo quanto sia annacquato dalla sostenibilità non solo ambientale, ma anche economica e sociale interpretata in tono neoliberista. I posti di lavoro diventano la giustificazione degli interventi immobiliari, ma senza guardare a cosa quei lavori producono dal punti di vista materiale: valore d’uso o valore di scambio, beni accessibili a tutti o solo a pochi. È davvero giustificabile, con la crisi ambientale in corso, utilizzare risorse e lavoro per produrre, solo per fare un esempio, yacht per magnati e ancora peggio armi e strumenti di guerra? E non sarebbe invece necessario offrire abitazioni, spazi pubblici, beni e servizi per rispondere ai bisogni di tutti? La domanda relativa a che tipo di beni produciamo e che tipo di lavori attiviamo è più che mai decisiva: dannosa e invadente pubblicità, investimenti finanziari, industrie di guerra, giochi per straricchi, burocrazia inutile e dannosa, che invece di salvaguardare paesaggio, territorio e cultura trova gli escamotage per aggirare le regole di salvaguardia della salute, dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori, conquistate con tante lotte. Da un altro punto di vista, quello dei lavoratori, si tratta di lavori alienanti, la cui utilità si limita alla produzione di profitto e non di valori d’uso; nella stragrande parte dei casi non offrono soddisfazioni che non siano l’aumento, invero minimo, della capacità di spesa. Mentre al contrario ci sarebbe un enorme bisogno di lavori legati alla cura del territorio, delle persone, degli anziani, dei bambini, nella sanità, scuola, istruzione a tutti i livelli, cultura, spettacoli, arte, biblioteche, parchi, territorio, paesaggio. Invece i posti di lavoro per lo sviluppo capitalistico sono quelli che producono profitto non quelli che rispondono ai bisogni davvero essenziali: l’industria bellica, che oltre a un lauto profitto produce il contrario della vita, cioè morte e distruzione, e purtroppo ora va per la maggiore.
Il problema è che il settore pubblico usa le proprie proprietà non per rispondere ai bisogni sociali ma per produrre profitto: molte residenze di proprietà della regione, dello stato, del comune, avrebbero potuto e dovuto essere tutti destinati ad abitazioni per tutti a prezzi davvero accessibili, come era l’equo canone.
Un altro ostacolo sono le norme in base alle quali lo stato e le regioni danno accesso ai servizi e alle case popolari di edilizia residenziale pubblica: solo a chi non è solvibile perché poverissimo. Si tratta di un approccio tipicamente neoliberista in base al quale solo chi non potrebbe mai accedere al mercato immobiliare, neppure contraendo un prestito o sottoponendosi all’accettazione di spazi ridottissimi o condivisi forzatamente con altri, accede all’edilizia residenziale pubblica. In questo modo il mercato non si vede sottratti potenziali clienti, viene preservato. Il che lo vuole l’UE proprio per non disturbare il mercato e sottrargli clienti. Il mercato si può calmierare solo fornendo una alternativa di qualità alla sua offerta. E questo avviene solo se l’offerta alternativa cattura chi altrimenti si sarebbe rivolto al mercato. Una alternativa che quindi consenta, a chi altrimenti avrebbe, con sacrifici, avuto accesso all’offerta di mercato, di trovare uno spazio di qualità in grado di rispondere ai suoi specifici bisogni. Non più omologazione ma offerta che utilizzando la partecipazione alla progettazione dei futuri abitanti e la flessibilità e trasformabilità degli spazi nel corso del tempo, accompagni l’evoluzione nel tempo dei bisogni e delle soggettività. Nessun controllo dei redditi e patrimoni, ma possibilità per tutti di accedere. Poi l’affitto potrebbe essere graduato con un minimo per chi ha redditi bassi, e fino a un massimo, tipo equo canone, per gli altri. In questo modo si potrebbe usare l’affitto di chi può pagare di più per bilanciare chi paga di meno. Ma l’affitto massimo deve essere come era l’equo canone. Non quello fuori controllo del mercato.
Basta controlli sui redditi. L’ossessivo controllo biennale sui redditi e annuale sull’ISEE (Indicatore Situazione Economica Equivalente, cioè su reddito e patrimonio) a cui sono sottoposti ad esempio gli inquilini delle case popolari di Firenze e dintorni, stabilito dalla legge regionale toscana, fa parte del welfare punitivo che toglie il diritto alla casa in base all’ISEE, con quello che significa in un paese dove solo lavoratori dipendenti e pensionati pagano le tasse per intero. L’ISEE ha lo scopo di controllare il patrimonio, come se il reddito non fosse sufficiente a definire le possibilità economiche di una persona. Al contrario le case popolari dovrebbero essere accessibili a chi ha un doppio reddito in famiglia, il limite dovrebbe essere aumentato, o meglio essere eliminato per l’accesso alle case, se mai usato per modulare l’affitto, con un affitto massimo simile a quello che era l’equo canone. Tra l’altro in questo modo si eviterebbe di concentrare solo persone con redditi bassi, oppure con gravi problemi sociali, che in un contesto in cui molti lavori di manutenzione sono a carico dell’inquilino, rischiano di lasciar decadere l’alloggio. Nei Paesi Bassi negli anni ’70 e ’80 fino ai ’90 l’accesso all’edilizia pubblica era consentito a chi aveva un reddito ben maggiore di quello necessario per accedere all’edilizia residenziale pubblica in Italia. In questo modo si è verificato l’effetto di calmierare il mercato immobiliare per la casa. Inoltre sono diventate edilizia pubblica le case occupate dagli anni ’90 in poi ad Amsterdam ampliando le tipologie abitative presenti, e comprendendo le abitazioni con spazi collettivi per l’assolvimento del lavoro domestico: cucina, sala, spazi ricreativi, spazi per il gioco dei bambini (Maggio, 1986). D’altra parte le abitazioni per gruppi di convivenza, le centraal wonen, erano già da tempo parte dell’edilizia pubblica e prevedevano sempre l’obbligo che durante la progettazione fosse ascoltato il futuro utente, visto che lo spazio abitativo da progettare non era preformato ma aperto e innovativo: non spazio per la famiglia nucleare tradizionale e quindi previsto e prevedibile, ma spazio che avrebbe dovuto accogliere nuove relazioni sociali e nuove modalità di assolvere alle funzioni proprie della vita quotidiana (Maggio, 1986).
Va costruita una alternativa, perché altrimenti c’è un percorso obbligato, senza via d’uscita. Il bisogno della casa rende disponibili a pagare tutto quello che si può, incrementabile con il debito, e per questo il settore immobiliare è così in buona salute, e lo è stato anche durante la pandemia.
Il governo del territorio
Invece di rispondere alla domanda sociale sulla città, con l’obiettivo dichiarato di risolvere la crisi economica (perenne), le amministrazioni pubbliche concedono ai proprietari fondiari e ai promotori immobiliari di costruire le funzioni che producono più profitto. Inoltre siccome il mercato immobiliare può essere imprevedibile, e possono cambiare nel tempo le funzioni più lucrose, si arriva anche a concedere un mix di possibili funzioni, magari indicando percentuali per ognuna. Se poi le percentuali cozzano con il progetto di turno, con l’occasione della città occasionale, si possono variare con l’ennesima variante e inoltre, non contenti della flessibilità funzionale pro-mercato, si danno premi di cubatura. Le varianti non dovrebbero essere possibili se non in casi eccezionali, invece diventano la regola tanto che perfino la innovativa legge urbanistica della Regione Toscana 65 / 2014 indica le varie tipologie e le procedure da seguire per ognuna. Ora per il PNRR torniamo addirittura a parlare di variante automatica, una vera aberrazione. La Valutazione Ambientale Strategica, prevista dalla direttiva europea, e normata da legge regionale (LR 10 / 2010 con modifiche e integrazioni) avrebbe dovuto prevedere e garantire la partecipazione degli abitanti a tutti i piani e programmi, ma la legge regionale ha circoscritto i partecipanti possibili così tanto, da disattendere la speranza di una diffusa democrazia partecipativa, tentata poi con la partecipazione prevista dalla 65 / 2014, la legge Marson.
Il problema è che i piani regolatori (piani strutturali, regolamenti urbanistici, piani operativi) indicano lo sviluppo economico come loro obiettivo, invece della risposta ai bisogni sociali pressanti.
Tra l’altro promuovere lo sviluppo economico (sottinteso capitalista), significa investimenti nella infrastrutture come il tunnel per l’alta velocità a Firenze, l’aeroporto, che al di là del ruolo vero o presunto di capitale fisso per lo sviluppo economico, consentono di appaltare lavori e quindi di fare girare l’economia. Non servono certo per salvaguardare l’ambiente, ma per inquinarlo, non per rispondere ai bisogni reali ma per rispondere spesso a quelli legati alla capacità di produrre profitto. Ricordiamo che la produzione di cemento è in assoluto una produzione estremamente inquinante, sia che si usi nella nuova costruzione che nel recupero: il cemento va usato quindi con parsimonia, per rispondere a bisogni reali.
Da questo seguire il mercato immobiliare, consegue l’attuale proliferazione dell’affare del momento, lo “studentato” che scivola via dai limiti posti agli hotel, realizzando un hotel che si chiama studentato.
Ed ecco inoltre un proliferare di alberghi di lusso. Il problema strutturale più vasto del capitalismo è che esistono enormi sperequazioni di reddito: nessuno dovrebbe poter investire in case in giro per il mondo fino a che esiste anche una sola persona che ha fame; e nel mondo ce ne sono 811 milioni. Elon Musk ha 240 miliardi di dollari. E questa sarebbe la democrazia del capitale?
Questione abitativa e diritto alla città
Se si guarda al territorio sono necessarie prima di tutto abitazioni di alta qualità e a prezzi bassi per tutti gli abitanti e i potenziali abitanti. Troppi oggi nell’area delle grandi città sono esclusi e costretti a trasferirsi all’esterno delle aree che per la loro qualità possono pretendere prezzi elevati. Questa dovrebbe essere la priorità e solo dopo che questa sia assolta, se rimane qualcosa, i luoghi potrebbero essere usati per il turismo.
In una città come Firenze, esempi di aree dismesse pubbliche che avrebbero potuto risolvere il problema una vola per tutte sono l’ospedale militare in via San Gallo, la caserma in Costa San Giorgio; la caserma Lupi di Toscana. Le case dovrebbero avere un prezzo simile a quello che è stato l’equo canone e non i prezzi da housing sociale, che sono solo di poco più bassi degli affitti di mercato. L’edilizia “sociale”, grazie alle facilitazioni e ai finanziamenti pubblici è un affare più per i costruttori che per i soggetti che vi accedono. Vedi l’esempio delle 20.000 case in affitto (Maggio, 2006, 2008).
Chi ha comperato le aree pubbliche, non importa se singolo imprenditore come nel caso di Lowenstein, o fondi finanziari, oppure immobiliari italiane o di altri paesi, non farà che sottrarre spazio alla vita quotidiana di tutti per offrire case o stanze di lusso in alberghi di lusso ai troppi (la domanda per una città come Firenze è a livello planetario) che possono permettersela. Non importa davvero che chi investe sia italiano o straniero, o un fondo finanziario di cui è difficile definire la provenienza territoriale. Il problema è che ciò che produce sottrae spazio al diritto alla città per la stragrande maggioranza degli abitanti. E non sottrae solo spazio ma anche qualità. Una città che conserva i muri e espelle le vite, non è più una città storica che rinnova il suo valore culturale e sociale, ma tende verso, pur non essendolo ancora grazie alla resistenza di tanti e tante, un baraccone vuoto, riempito di inutili beni di lusso e altrettanto inutili vite piene solo di soldi e vuote di cultura e creatività.
La lotta di classe non ha confini, i nemici di classe non devono essere ripartiti in base alla cittadinanza, fanno tutti gli stessi danni al territorio. È questo un esempio di libertà negativa di investire e appropriarsi di territorio a discapito di altri. Ma a ben guardare il problema non è solo che non vengano gestiti con accortezza i beni territoriali da parte delle istituzioni, ma soprattutto che il nostro sistema capitalistico genera ricchi in cerca di investimenti lucrosi.
Non si può dimenticare che per eliminare la povertà bisogna eliminare la ricchezza.
A Firenze manca un vero mercato dell’affitto, che non sia di lusso, o che non offra prezzi accettabili solo in relazione a spazio ridotto e frazionato, e insufficiente, come quello per gli studenti a basso reddito. Si arriva al paradosso che gli affitti a Firenze, quando si trovano, sono più alti dei mutui, che sono tuttavia possibili solo se si ha una reddito continuativo, così si è indebitati e chi ha debiti non sciopera.
Appare chiaro che risolvere la questione abitativa toglierebbe lucrosi guadagni a un settore capitalista molto vasto; basti pensare al blocco edilizio che si è mosso con violenza contro le riforme del regime dei suoli e per la casa: la risposta alla domanda posta con forza dalle lotte sociali sulla questione della città è caduta nel vuoto e si è determinato lo scempio che viviamo oggi. Capiamo, guardando la condizione contemporanea, perché la risposta allora è stata così violenta, lo capiamo da quello che hanno ottenuto in cambio: lo strapotere di rendita e profitto sull’intero processo di urbanizzazione. Affari miliardari che drenano enormi quantità di ricchezza (per pochi) da una enorme quantità di persone.
D’altro lato, la casa come servizio sociale offerto dallo stato è stata e rischia di essere una risposta alla questione abitativa stereotipata, predeterminata, fondata su regole sociali spesso sessiste e che ribadiscono l’organizzazione della casa per famiglie nucleari (Maggio, 1986, 1996a, 1996b, 1999, 2002, 2008); la risposta poi ai soli redditi bassissimi e con gravi problemi sociali, ripropone dei ghetti, spesso di scarsa qualità per tipologia edilizia e per localizzazione, l’edilizia residenziale pubblica in luoghi irraggiungibili, separati, al limite dell’urbano.
La soluzione è umanizzare la vita quotidiana, e lottare contro l’alienazione. Liberare spazio e tempo.
Non case popolari di bassa qualità per far in modo che tutti quelli che possono la lascino, ma invece creazione di spazi abitativi con spazi collettivi di grande qualità non predeterminati dallo stato, come un servizio per educare i poveri a stare al loro posto, ma progettati attraverso la partecipazione diretta degli abitanti presenti e futuri, per produrre spazi che rispondano alle differenti esigenze, e anche flessibili per poter seguire le soggettività e i gruppi di convivenza in base alla loro trasformazione individuale e collettiva. Partecipazione e libertà, organizzazione collettiva degli spazi residenziali, dialettica plurima di spazi privati, collettivi, semi pubblici, pubblici.
Il neoliberismo chiede autonomia, ovviamente non nel senso rivoluzionario: autonomo cioè libero dal pericolo dell’integrazione nel capitalismo, ma nel senso di cavarsela da sé; e appena si può, non pesare sul pubblico. Ci vuole invece la vera autonomia. Occorre ricostruire una visione generale in grado di capire i processi nella loro interezza e superare la frammentazione delle lotte, delle visioni, delle forme associative. Partire dal territorio non per rimanere separati ma per connettere comprensione dei processi e lotta per la giustizia sociale, integrando tutti i temi e le sfere sociali. Il capitalismo ha la capacità di frammentare e cancellare le lotte che intendono contrastarlo, quelle presenti e quelle del passato, mentre devasta e sfrutta. Cambia pelle e pratiche incessantemente, riassorbendo tutto quanto può essere utilmente ribaltato a suo vantaggio, ma tiene sempre fermi sfruttamento, espropriazione, disprezzo, devastazione e saccheggio. La complicità non è inevitabile e la felicità si trova dove tempo e spazio vengono liberati e il regno della libertà può finalmente iniziare a espandersi.
Libertà
Ci sono libertà positive e negative, per esempio è negativa la libertà di sfruttare e espropriare e di disporre in privato dei beni comuni di tutti.
Le vere libertà sono espresse magnificamente dai bisogni radicali di Agnes Heller: una vita piena di significato; un lavoro pieno di senso; lo studio; il bisogno di tempo libero come liberazione radicale.
“La pratica dell’appropriazione all’essere umano del tempo e dello spazio, modalità superiore della libertà” (Lefebvre, 1973: 160, rivoluzione urbana)
“in pratica il regno della libertà inizia solo laddove termina il lavoro comandato dalla necessità e dalla finalità intrinseca… Al di fuori di essa (ndr la sfera della necessità) inizia lo sviluppo delle facoltà umane, che è fine a sé stesso, la reale sfera della libertà, che può sorgere tuttavia solo fondandosi su quella sfera della necessità” (Marx. III libro del Capitale, 1970, p. 1468).
Partecipazione
Partecipazione per la discussione e la decisione collettiva e condivisa.
Sono cruciali i temi da affrontare: che tipo di persone vogliamo essere, in che tipo di città vogliamo vivere, in che modo vogliamo vivere; come, dove, quanto vogliamo produrre ciò che ci serve per vivere. Occorre dare vita a un modo collettivo di gestire i rapporti metabolici con la natura e la produzione di beni materiali, dare forma a una adeguata concezione mentale del mondo e soprattutto creare un modo collettivo di decidere circa la produzione e riproduzione della nostra natura umana attraverso le pratiche materiali, e la gestione dei commons globali per dare una vita soddisfacente in un ambiente di vita soddisfacente per 10 miliardi di persone sul pianeta terra; è necessario confrontarsi e gestire il cambiamento climatico su base globale.
È necessario affrontare le regole di convivenza, regole, relazioni sociali nel lavoro, nella vita quotidiana; decidere politiche pubbliche, obiettivi, trattare contraddizioni, ingiustizie.
L’obiettivo è la costruzione di rapporti sociali non alienati e di un nuovo rapporto sinergico con la natura.
Noi vediamo gli effetti dei processi spazio temporali: le ingiustizie sociali, in termini di disponibilità di beni e risorse, di servizi e in termini di potere decisionale; il cambiamento climatico, l’inquinamento. Oltre a osservare gli effetti dobbiamo individuare le cause (i processi) per agire su di esse e modificare i processi.
Vanno costruite collettivamente le alternative all’organizzazione economico sociale esistente e quindi l’attivazione di un nuovo motore economico capace di sostituire il capitale.
Tutte le sfere sociali devono essere comprese nel progetto di trasformazione, perché nessuna ha il privilegio da sola di risolvere tutte le questioni: le tecnologie e le forme organizzative; le relazioni sociali; l’organizzazione istituzionale e amministrativa; i sistemi di produzione e i processi lavorativi; la relazione con la natura; la riproduzione della vita quotidiana e della specie; le concezioni intellettuali sul mondo.
Conoscenza per la trasformazione sociale
Conoscenza per la trasformazione sociale, per l’eguaglianza (che non è omologazione, ma diritto alla differenza, gli anarchici dicevano “uguali nella diversità) e la giustizia sociale.
“Tra la conoscenza e il potere non c’è solo un rapporto di servilismi, ma anche un rapporto di verità. Molte conoscenza sono insignificanti e prive di valore, indipendentemente dalla loro esattezza formale, in quanto non sono in rapporto adeguato alla distribuzione di forze…Il compito quasi insolubile è quello di non lasciarsi accecare né dalla potenza degli altri né dalla propria impotenza”. (Adorno, Minima Moralia, 34)
Storia totale (contrapposta alla global history)
“una definizione di storia come scienza delle domande generali e delle risposte locali attraverso una osservazione intensa di un problema, un luogo, un avvenimento, un’istituzione, per trarne domande che consentissero di identificare cose rilevanti senza obbligarle nelle semplificazioni del globale ma semmai permettendo una storia comparativa che definisse diversità e non improbabili similitudini o semplificate differenze” (Levi, 2016, 6).
Bibliografia
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MARX, K. (1875)), Il Capitale, Newton Compton Editori, Roma, 1970.
Marvi Maggio, architetta è socia fondatrice dell’International Network for Urban Research and Action. Altri suoi articoli sono leggibili qui
Marvi fai sempre delle ottime analisi che condivido.Purtroppo , dai tempi di architettura e dalle lotte degli anni ’70 su questi temi, la “politica” diede timide risposte vedi l’equo canone e affitti al 10 % del salario, dopodichè , come giustamente sostieni l’esigenze del capitale remunerativo e l’ascesa del settore finanziario ci ha tolto questi obiettivi, quasi nessuno ripropone questi temi, restano ottime analisi come le tue che servirebbero per ripartire. Chi coglierà questa bandiera ?