La tensione tra individuo e collettivo e il bisogno di pensare tenendo insieme la vita intima e le “lingue sociali” hanno aperto stagioni importanti del femminismo. «L’idea che al centro delle pratiche del femminismo dovesse esserci l’esperienza, in tutti i suoi risvolti meno “dicibili” o “impresentabili” non mi ha mai abbandonato…» scrive Lea Melandri. Per questo, ieri come oggi, i laboratori di scrittura possono aiutare a scavare in profondità dentro di sé, non solo per far emergere esperienze che per per la loro dolorosità o ambiguità restano confinate nella memoria del corpo, ma anche per scoprire come quello sguardo interiore permette allo stesso tempo di avvicinarsi alle esperienze universali dell’umano. Di certo, la difesa dal dominio della violenza oggi continua ad aver bisogno di un’altra lingua e di esperienze che cercano con ostinazione una nuova cultura politica
Il femminismo, nella sua stagione più creativa, possiamo dire “rivoluzionaria”, ha conosciuto una varietà, pluralità di “intelligenze” (una parola che non uso mai: preferisco parlare di “vite”, “pensieri”, “esperienze”), capaci di mettersi in relazione tra loro con alcune modalità particolari, che non ho più visto ripetersi nel mio lungo percorso nel movimento delle donne. Da una parte, la profonda tensione tra individuo e collettivo, legata alla consapevolezza che nella vita personale ci fosse una storia non scritta, tesori di cultura, esperienze più universali dell’umano, come il rapporto tra i sessi, la sessualità, la maternità, considerate “non politiche”, e come tali “privatizzate”, e “naturalizzate”. Eravamo mosse dalla certezza che, più si scava a fondo nel “vissuto” di ogni singola persona, più si incontra ciò che accomuna gli umani. Dall’altra parte, l’idea che per uscire dal dualismo, che ha separato e contrapposto il destino del maschio e della femmina, ma anche parti inscindibili dell’umano – come corpo e pensiero, sentimenti e ragione, biologia e storia, ecc. – fosse necessaria, nella parola parlata come in quella scritta, un’altra lingua, capace di ragionare avendo presente la vita intima, l’infanzia, la memoria del corpo, e, al medesimo tempo, le “lingue sociali”, le lingue di fuori. Si trattava di “sconvolgere” i cento ordini del discorso che avevamo fino allora saccheggiato, i linguaggi e i saperi settoriali, frutto della separazione che ha segnato la storia millenaria di una comunità di soli uomini, quella che ha separato “il corpo e la polis”. Sono state queste due istanze a lasciare in secondo piano, nella fase iniziale delle pratiche del femminismo degli anni Settanta – autocoscienza e pratica dell’inconscio – la diversa storia e formazione intellettuale di ognuna di noi.
Alcune già insegnavano, scrivevano, rivestivano ruoli professionali, ma in quel primo momento ci accomunava la ricerca di una coscienza di sé che poteva venire dall’attenzione e dall’ascolto di altre. Poteva essere la condivisione di una condizione considerata fino a quel momento unica e privata o la scoperta, attraverso lo sguardo dell’altra, che avevamo interiorizzato la visione maschile del mondo. Molto importante è stata la pratica che vi ha fatto seguito, nella seconda metà degli anni Settanta, e che in un gruppo nato a Milano, abbiamo chiamato “Sessualità e simbolico”. La domanda era: la modificazione di noi stesse, frutto dell’autocoscienza e pratica dell’inconscio, quanto ha inciso sui “cento ordini del discorso” che abbiamo usato finora, senza averli scelti? È stato quello il momento in cui i nostri diversi saperi, linguaggi, intelligenze, sono venute allo scoperto, tanto da poter essere interrogate. Solo così potevamo vederne l’aspetto alienante, e, al medesimo tempo ritrovarle, nella loro diversità, come una ricchezza.
Per venire su un piano più personale, anche se non amo le definizioni, mi sono descritta spesso, un po’ scherzosamente, come “interiorista”: un pensiero rivolto prevalentemente al “mondo interno”, a ciò che più o meno consapevolmente è inscritto nei vissuti più profondi, fino a quello che ho chiamato la “memoria del corpo”, esperienze remote e talvolta così dolorose da non diventare neppure ricordi. È una attitudine che ha trovato il suo luogo ideale nei movimenti antiautoritari degli anni Settanta – movimento insegnanti e femminismo -, quando si è capovolto il rapporto tra cultura e vita, portando quest’ultima in primo piano -, ma che aveva radici nel mio passato. Ho avuto il privilegio, come figlia di mezzadri molto poveri, di frequentare un buon liceo di provincia e la scrittura è stata da subito la possibilità di entrare in rapporto con adulti diversi dai miei familiari. Ma quando nel primo tema di quarta ginnasio ho tentato di parlare della mia famiglia – fatica, sfruttamento e violenze sulle donne – mi è stato detto che era scritto benissimo ma “fuori tema”. Un voto negativo, l’abbandono dalla scuola, terminato solo quando l’insegnante si è ammalata ed è venuta una supplente, poetessa, che mi sarebbe stata poi di grande aiuto. “Fuori tema” erano le esperienze più universali dell’umano, dalla condizione sociale, alla sessualità, alle relazioni tra i sessi, rimaste fuori dalla cultura tradizionalmente intesa e “intraducibili” nella lingue colte. Una liberazione è stato perciò per me l’incontro, dopo l’arrivo a Milano, con movimenti per i quali il “fuori tema” era “il tema”.
Da allora, l’idea che al centro delle pratiche del femminismo dovesse esserci l’esperienza, in tutti i suoi risvolti meno “dicibili” o “impresentabili” non mi ha mai abbandonato e non a caso il mio primo scritto pubblico, presentato al convegno sulla pratica non autoritaria nella scuola e poi pubblicato nel libro L’erba voglio (Einaudi 1971), portava come titolo “Due anni di esperienza non autoritaria nella scuola media di Melegnano”. Il “partire da sé”, che ha segnato le pratiche del femminismo in quegli anni, per me era legato, oltre che alla mia storia personale, anche alla psicanalisi – una breve analisi personale appena arrivata a Milano e l’incontro con lo psicanalista Elvio Fachinelli, con cui avrei poi creato la rivista “L’erba voglio” (1971 – 1977). Ero convinta, come altre in quegli anni, che parlare delle problematiche del corpo e della sessualità senza riferimento alla complessità della vita psichica voleva dire restare nell’ideologia. Una delle mie prime pubblicazioni sulla rivista, è stata l’analisi del Caso Dora di Freud. La spinta a scrivere era venuta da una esperienza personale, ma la scrittura era saggistica. La “narrazione di sé”, su cui continuavo a insistere, mi è stata impossibile fino alla fine degli anni Settanta, ma ho spinto altre a scrivere – per esempio le donne che ho incontrato nel corso 150 ore, nel 1976, il primo gruppo di casalinghe che sono riuscite a far aprire un modulo nel loro quartiere ad Affori Bovisasca (Milano) – ed è stato sempre come se avessero scritto per me.
Ho letto, non molto tempo fa una considerazione di bell hooks sull’uso della teoria: un modo, lei dice e io condivido, per far fronte a un’esperienza dolorosa nel tentativo di darvi un senso, di riportarla dentro un ordine che si può controllare, quello della razionalità.
È stato solo all’inizio degli anni Ottanta che qualcosa è cambiato profondamente nella mia vita – la fine del “sogno d’amore”, dell’illusione di appartenenza intima a un altro essere, il riconoscimento che dietro il sogno fusionale c’è il “bisogno d’amore”, difficile da nominare anche per un femminismo che si era occupato per un decennio della sessualità, l’inizio di una analisi personale, l’apertura di una rubrica di “Posta del cuore” sul settimanale “Ragazza In”, la scrittura del libro Come nasce il sogno d’amore (Rizzoli 1988) dedicato in gran parte alla scoperta dei Diari di Sibilla Aleramo, straordinaria coscienza femminile anticipatrice per aver “portato nella mischia” il sogno d’amore e il suo svelamento. Non una autobiografia, come lo era stato il romanzo Una donna, ma un’autoanalisi. È stato allora che la mia scrittura è cambiata: per la prima volta ho cominciato a fare uso del frammento, sia per i miei pensieri, sia nel modo di leggere i testi su cui lavoravo. In particolare per quanto riguarda i Diari di Aleramo da cui ho estrapolato, per usare una sua definizione, “frammenti di lucida intuizione”. Da allora l’uso del frammento è entrato stabilmente nella mia pratica di lettura e scrittura, fino a quelli che, dagli anni Novanta in avanti, sono diventati i miei Laboratori di scrittura di esperienza.
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Il ricorso al frammento è il modo con cui mi sono più avvicinata a quella che potrei chiamare L’intelligenza di sé e di ciò che resta impresentabile della vita, esperienze che per la loro dolorosità o ambiguità restano confinate nella memoria del corpo. Il duplice movimento, con cui prima sottolineiamo il pensiero di un altro e poi lo trascriviamo – che è come ricalcare le orme dell’altro -, è come un uscire da sé, andare a confondersi con la voce dell’altro e riportarla su di sé, come una scheggia che ti lavora dentro e riporta allo scoperto ciò che altrimenti sarebbe difficile da dire.
Paradossalmente, più si scava profondamente dentro di sé, più ci si avvicina alle esperienze universali dell’umano, a quei residui arcaici che ancora ci portiamo dentro come eredità di una cultura patriarcale millenaria. I laboratori di scrittura di esperienza sono oggi per me la continuità delle pratiche del femminismo anni Settanta e il mio modo di avvicinarmi a quella “memoria del corpo” che tanto ha trattenuto e ancora trattiene di quei vent’anni trascorsi nella mia famiglia d’origine, assistendo a rapporti intimi in cui era difficile separare amore e violenza. È lì che vado ancora a cercare le radici del mio pensiero.
Testo preparato per un incontro alla Biennale “Il tempo delle donne” (promossa in settembre dal Corriere della sera)
Tra gli ultimi libri di Lea Melandri: La mappa del cuore. Lettere di adolescenti a una femminista (Enciclopedia delle donne) e Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà Nuova ediz. (Bollati Boringhieri). Nell’Archivio di Comune, i suoi articoli sono leggibili qui. Lea Melandri ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura:
“Sosteniamo Comune come continuità del nostro impegno per una convivenza più giusta e solidale. Alla redazione va la mia gratitudine per la ricchezza di informazioni e l’appassionata ricerca di “azioni positive”, progetti vitali, esperienze di comunità che passano nel silenzio, ma a cui affidiamo la nostra speranza”.
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