Sì, certo ci sono i preziosi riferimenti all’impressionante documentazione scientifica, come scrive don Ciotti nella prefazione a Per amore della terra, ma è soprattutto l’idea di ripensare – e declinare in modo del tutto diverso – i concetti e i nessi tra giustizia e ambiente e tra etica e vita che fa dell’ultimo lavoro di Giuseppe De Marzo un libro essenziale. Non solo, naturalmente, per una discussione seria e in profondità su come salvare il mondo dall’autodistruzione antropocentrica, ma per fermarne la mercificazione affermando la dignità della natura (vista anche come soggetto giuridico), e di tutte le persone e le specie non umane che abitano il pianeta. È con questa chiave che possiamo sperare di superare l’idea di una sostenibilità dello sviluppo, formula vuota utile a garantire solo la governance liberista, per sviluppare invece vere e proprie comunità della vita, capaci di affrontare le diverse crisi sistemiche di un dominio predatorio quanto irresponsabile e le avvisaglie di una catastrofe ecologica ogni giorno più imminente

di Luigi Ciotti
Se pensiamo che il nostro sistema è, come dice Papa Francesco, “ingiusto alla radice”, questo libro di Giuseppe De Marzo ci aiuta a conoscere i tanti volti dell’ingiustizia.
Impressiona, di queste pagine, la quantità di dati, statistiche, documenti, riferimenti bibliografici volti a dimostrare quello che è sotto gli occhi di tutti ma che non tutti – vuoi per ignoranza, indifferenza o malafede – sono disposti a ammettere: il legame tra disuguaglianza sociale e degrado ambientale.
Ma Giuseppe non si limita all’aspetto critico, non si accontenta di denunciare, prove alla mano, un sistema che, mentre prometteva ricchezza, ha generato povertà, depredato il pianeta, acceso conflitti, imposto migrazioni. Analizza anche le ragioni di fondo della crisi, il pensiero che l’ha prodotta e le misure indispensabili per lasciarcela alle spalle.
La direzione è quella della “Laudato sì”. Come nell’enciclica del Papa, anche qui viene messo in evidenza l’aspetto culturale del problema. Non bastano i pur necessari correttivi economici, non bastano i trattati dove ci s’impegna – più che altro a parole – a ridurre le emissioni di carbonio. Occorre un cambiamento radicale del nostro modo d’essere, ossia del nostro modo di relazionarci agli altri e all’ambiente, perché l’uomo ha una natura relazionale, e senza relazioni – o con relazioni solo opportunistiche, come quelle proposte da un sistema imperniato sulla selezione e sulla competizione – l’uomo appassisce, perde anima e dignità.
Il Papa parla a proposito di “conversione ecologica”, qui – da altra ma complementare prospettiva – si insiste sul concetto di “giustizia ambientale”. È una questione cruciale, perché in un mondo in cui le logiche del profitto si sono impadronite dei beni essenziali, il concetto tradizionale di giustizia va ripensato, pena il ritrovarsi con leggi incapaci di arginare la mercificazione del pianeta e le tante forme di discriminazione, esclusione e oppressione che ne derivano.

Ma il problema, ovviamente, non è solo legislativo. Le leggi sono fondamentali, ma restano magnifiche astrazioni se non affondano le radici nella vita e nelle coscienze delle persone, se non vengono alimentate dai loro comportamenti, se non si sposano a un’etica.
Emblematica a riguardo è la riflessione sui diritti della natura, ossia sulla necessità, sollecitata non solo da giuristi illuminati ma da movimenti e realtà impegnate nella difesa della Terra, di fare della natura un soggetto giuridico, una realtà che, al pari delle persone, ha una sua intrinseca e inviolabile dignità. In Ecuador e in Bolivia – Paesi non a caso sfruttati e depredati dalle multinazionali occidentali – questa utopia è già realtà, e dal decennio scorso i diritti della natura sono riconosciuti nelle loro Costituzioni. Ma è evidente che la partita, oltre che politica, è culturale e prima ancora educativa. Il riconoscimento della Terra come madre e casa comune deve cominciare dall’infanzia, con percorsi veri, articolati, capaci di trasformare l’istintiva attrazione per la natura che proviamo da bambini in conoscenza e responsabilità. Altrimenti c’è il rischio, crescendo, di “addomesticarci”, perdere sempre più il sentimento di questo legame. «A una certa età tutti voi, uomini, cambiate. Non rimane più niente di quello che eravate da piccoli. Diventate irriconoscibili» scrive ne “Il segreto del bosco vecchio” il mio conterraneo bellunese Dino Buzzati, grande scrittore e grande amante della natura e delle montagne.
Ben vengano allora norme e trattati che parlino a nome della natura, ma prima che tutelata la natura chiede di essere amata. L’amore presente nel titolo di questo libro, l’amore con cui è stato scritto.
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Un nuovo paradigma della sostenibilità
di Giuseppe De Marzo
I principi che scaturiscono dalla Carta della Madre Terra espandono la comunità della giustizia riconoscendo i diritti della natura. Allo stesso tempo individuano le caratteristiche di un paradigma nuovo della sostenibilità.
Un nuovo modello di riferimento della sostenibilità richiede una definizione del concetto di sostenibilità più articolata rispetto a quella legata unicamente agli aspetti ambientali. Possiamo definire la sostenibilità come il processo che realizza la giustizia sociale e quella ambientale per le presenti e le future generazioni e riconosce i diritti della natura garantendo i processi di rigenerazione ed autorganizzazione dei cicli vitali. Questa definizione introduce, legandoli tra loro, quattro macrotemi al centro delle preoccupazioni esplose con la crisi prodotta dall’insostenibilità sociale ed ecologica del modello dominante: 1) la giustizia e l’equità; 2) i diritti e le responsabilità delle attuali e delle future generazioni; 3) i limiti del pianeta e la sua resilienza; 4) la giustizia ecologica. Questo nuovo paradigma della sostenibilità risponde alle principali preoccupazioni della popolazione ed ai “segnali” mandati dalla natura attraverso la crisi ecologica, mettendoli tutti sullo stesso piano.
Per Agyeman la sostenibilità è “il bisogno di assicurare una migliore qualità della vita per tutti, ora ed in futuro, in una maniera giusta ed equa, vivendo dentro i limiti di sopportazione degli ecosistemi” . Oltre alle preoccupazioni già richiamate Agyeman affida alla sostenibilità il compito di migliorare il livello della qualità della vita. Aspetto che legittima l’utilizzo di indicatori economici, sociali e ambientali diversi rispetto al Pil, ormai lontano dall’esprimere una fotografia reale del livello di benessere o malessere di una comunità.
Haughton d’altro canto contribuisce ad espandere il paradigma di giusta sostenibilità elencando i cinque principi che dovrebbero definire l’equità e la giustizia in termini sostenibili: 1) equità intergenerazionale; 2) equità intragenerazionale; 3) equità geografica; 4) equità procedurale; 5) equità tra le specie .
Se vogliamo invertire la rotta e garantire all’umanità il buon vivere è necessario costruire un nuovo paradigma di giusta sostenibilità partendo dai principi della giustizia ambientale ed ecologica. Definita per questi obiettivi la giusta sostenibilità rappresenta la chiave per affermare la giustizia globale e battere la crisi, a differenza di quanto fa lo sviluppo sostenibile che, privato di qualsiasi elemento di giustizia, rimane “una formula vuota” capace di garantire unicamente lo status quo della governance liberista.
Stuzt e Mintzer insistono sull’aspetto della sostenibilità legato al rispetto dei cicli vitali della Terra sottolineando come il benessere sia in realtà sganciato dall’accumulazione continua di beni e servizi, come predicato dalla governance. Il consumo superata la soglia in cui vengono soddisfatti i bisogni basici non aumenta il benessere. Questo significa che possiamo sviluppare altri aspetti immateriali che incidono sulla qualità della vita, come possono essere il tempo libero, la cultura, l’eguaglianza, e così via. Sono queste preoccupazioni ad alimentare il nuovo paradigma di giusta sostenibilità.
Il principale obiettivo del paradigma di giusta sostenibilità consiste nello sviluppo di comunità sostenibili, o comunità della vita, attraverso scelte coerenti con i principi della giustizia ambientale ed ecologica. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, lo sviluppo di comunità sostenibili o comunità della vita avverrà supportando un’economia nuova regolata dai principi di dematerializzazione, biocoerenza e eco sufficienza, agevolando una democratizzazione dello sviluppo. E’ sulla base di questo modello economico nuovo che sarà possibile sviluppare politiche sostenibili in grado di promuovere la riconversione ecologica delle strutture produttive ed energetiche, i diritti dei lavoratori per un lavoro sicuro e salubre, il rispetto per le diversità culturali, la possibilità per tutti i gruppi di poter partecipare alle decisioni, la ripubblicizzazione dei servizi basici, la difesa dei beni comuni e dei beni insostituibili ed indispensabili alla vita, forme di democrazia partecipata e comunitaria, politiche sociali di inclusione, forme educative interdisciplinari ed interculturali, e così via.
In conclusione, il paradigma di giusta sostenibilità svolge diversi compiti:
- consente di misurare e supportare un modello economico nuovo in grado di sviluppare politiche sostenibili che rispondono in termini concreti ed efficaci all’impoverimento ed alla distruzione sociale ed ecologica delle comunità della vita;
- riesce a mettere insieme il livello locale con quello globale, indicando la necessità urgente di un’equa distribuzione del consumo pro capite di risorse tra tutti i paesi;
- contribuisce a rispondere su un piano globale a problemi che, come abbiamo visto, richiedono risposte su questo livello;
- sostiene la necessità politica di costruire un “agire globale condiviso” che sappia affermare la giustizia ecologica, stimolando le nuove soggettività politiche a dar vita a spazi sovranazionali;
- aiuta le comunità della vita a costruire una visione e valori comuni (…).
La protesta contro la centrale nucleare indiana di Kudankulam. Foto: http://www.sify.com/
La giusta sostenibilità in pratica
Con lo scopo di verificare in termini pratici il livello di giusta sostenibilità delle politiche, dei progetti e delle proposte portate avanti da amministratori, movimenti per la giustizia ambientale, associazioni ambientaliste, comunità e reti impegnate nella difesa dei beni comuni, possiamo sviluppare un Indice di Giusta Sostenibilità. Un importante contributo in questa direzione è stato fornito da Agyemann con il suo JSI, Just Sustainability Index .
Con l’obiettivo di misurare il livello di equità, giustizia e sostenibilità della “mission” e dei programmi proposti da alcune grandi organizzazioni ambientaliste statunitensi ed internazionali, Agyeman ha elaborato un indice misurabile con un punteggio che va da 0 a 3. Nel JSI lo 0 indica come nella missione e nei documenti e attività in esame non vi sia traccia di equità sociale e giustizia ambientale. Quando il punteggio è 1 la giustizia è ancora assente nella missione mentre ve ne è parziale menzione nel materiale programmatico. Se il valore è 2 l’equità e la giustizia sono richiamate sia nella missione che nei programmi, limitandosi però all’ambito intergenerazionale. Quando l’indice è 3 sia missione che programmi ed attività sono orientati e coerenti con i principi di giustizia intra ed intergenerazionale. È questo il caso in cui si può parlare di giusta sostenibilità in pratica.
Lo studio di Agyeman ha dato risultati interessanti ed a volte inaspettati, capovolgendo l’immagine di grandi organizzazioni ambientaliste. Nella tabella stilata nel 2004 su un campione di circa 30 realtà quasi un terzo ha riscontrato un indice di giusta sostenibilità pari a 0. Tra le organizzazioni che hanno mostrato un punteggio tra lo 0 e 1, ignorando l’obiettivo dell’equità sociale e della giustizia ambientale, vi sono realtà importanti dell’ambientalismo come il WWF e Greenpeace. Al contrario, organizzazioni come il World Watch Institute, la fondazione Heinrich Boll, il Tellus Institute di Stoccolma e l’Earth Council, hanno un indice pari a 3, avendo soddisfatto coerentemente i principi della giusta sostenibilità.
La conclusione dello studio di Agyemann dimostra come solo poche realtà di quelle conosciute operino dentro il paradigma della giusta sostenibilità. Siamo davanti, per svariati motivi, ad un ritardo culturale da parte della maggioranza delle soggettività che provengono dalle categorie politiche classiche del novecento. I movimenti per la giustizia ambientale possono, come ricordato, contribuire a costruire un ponte con queste realtà a partire da una visione coerente ed efficace della giusta sostenibilità che metta insieme equità sociale, giustizia ambientale ed ecologica.
L’Indice di Giusta Sostenibilità può allo stesso modo essere adattato ed utilizzato per verificare il livello di equità contenuto nelle politiche portate avanti da una comunità sostenibile. Possiamo misurare se la politica dei trasporti, quella sui rifiuti, sull’energia, la gestione del territorio e così via, vadano o meno nella direzione indicata dai principi del paradigma di giusta sostenibilità. L’indice ci aiuterà a capire quanto lontani o vicini siamo dall’obiettivo auspicato della giusta sostenibilità, contribuendo allo sviluppo di pratiche sempre più efficaci per raggiungere e conservare il buon vivere per tutta la comunità della vita(…).

Dall’antropocentrismo al biocentrismo: per il diritto della vita alla vita
“Io sono vita che vuole vivere, ed esisto in mezzo alla vita che vuole vivere” diceva Albert Schweitzer .
La manifestazione della vita è un valore in quanto tale. L’ecologia profonda sostiene che per gli esseri vivi e gli ecosistemi, questo valore è indipendente da qualsiasi coscienza o interesse attribuito dal riconoscimento umano. La vita è un valore in se stessa. Difendere il diritto della vita alla vita costituisce un punto di vista diametralmente opposto rispetto all’antropocentrismo che sostiene come solo gli esseri umani siano in grado di produrre e riconoscere valori. Attraverso i diritti della natura abbiamo invece riconosciuto e dimostrato l’esistenza di valori intrinseci non strumentali all’uomo. A partire da questi si affermano diritti che sfociano in obbligazioni ed impegni per gli esseri umani. I diritti della Natura da questo punto di vista si ispirano ad una visione pluralista e non universale. Riconoscere giuridicamente che esistono valori propri intrinseci sconfessa la teoria che immagina il valore esclusivamente in termini economici. Allo stesso tempo i diritti della natura non impongono ne prevedono un’unica scala di valori. Semplicemente i diritti della natura ci obbligano a riconoscere una molteplicità e diversità di valori. “Accettare i valori intrinseci non implica imporre una scala di valori sull’altra, così come previsto con il prezzo: obbliga invece a pluralizzare le dimensioni di valore. Alcuni valuteranno un albero a partire dal beneficio economico, ma altri lo valuteranno come una specie viva e altri ancora come uno spirito del bosco” .
Considerando la vita un valore in sé, i diritti della natura riconoscono e garantiscono il diritto della vita alla vita. È questo che intendiamo per biocentrismo. L’antropocentrismo ha invece costruito erroneamente una visione dualistica che ha legittimato la separazione tra natura e umanità, rendendo possibile l’oggettivizzazione e l’utilizzo strumentale di qualsiasi forma di vita diversa da quella umana. Non riconoscendo i diritti delle vita alla vita, l’antropocentrismo disconosce l’esistenza del valore in quanto tale. Ciò ha garantito al modello capitalista, prima culturalmente e poi giuridicamente, la possibilità di utilizzare qualsiasi entità vivente esclusivamente per fare profitto sino al punto di finanziarizzare la vita stessa. Un’impostazione che afferma un’etica fondata esclusivamente sull’efficienza economica e ignora le relazioni tra esseri umani, specie viventi ed ecosistemi. Sappiamo infatti che la complementarietà, la relazionalità, la corrispondenza e la reciprocità regolano le relazioni tra natura umana, natura non umana ed ecosistemi. Queste relazioni interdipendenti fanno della Terra un superorganismo vivente di cui noi umani siamo parte e grazie al quale sopravviviamo e progrediamo.
Il biocentrismo, riconoscendo queste relazioni, agisce per ricomporre culturalmente la frattura tra umani e natura non umana. Fondandosi sull’etica della Terra, attraverso i diritti della natura espande la comunità della giustizia e della vita. Al contrario, l’etica capitalista riduce la vita e la semplifica attraverso la regola aurea dell’efficienza economica ed una concezione meccanicistica.
Il diritto della vita alla vita per realizzarsi ha bisogno di un modello economico completamente diverso da quello attuale. Tutelare il diritto della vita alla vita vuol dire eliminare dal pianeta la povertà, garantire l’integrità ecologica degli ecosistemi ed assicurare il buon vivere per tutti e tutte. Dobbiamo quindi cambiare le attuali politiche per lo sviluppo, tese esclusivamente alla crescita antieconomica ed alla distruzione sociale ed ambientale, in politiche per lo sviluppo di comunità della vita. Per farlo, utilizzeremo il paradigma di giusta sostenibilità così da garantire equità sociale e giustizia ecologica. Libertà sostenibile per un futuro sostenibile. Il modello economico si deve adattare ai limiti del pianeta e non viceversa. Per questo va fondato sui principi della giustizia ambientale ed ecologica così da poter concretamente esprimere in termini pluralistici e riflessivi una tendenza biocentrica.
Il diritto della vita alla vita ha bisogno infine di un altro tipo di definizione di cittadinanza. Una cittadinanza che, grazie alla saldatura tra giustizia ambientale ed ecologica espressa attraverso il riconoscimento dei diritti della natura, si sviluppa in termini non soltanto individuali ma anche sociali ed ambientali. Gudynas definisce questa cittadinanza come “meta-cittadinanza ecologica”. Una cittadinanza che a partire da una visone pluralistica espande la comunità della giustizia superando la visione classica attraverso la giustizia ecologica. Si tratta di reintrodurre nella nostra etica l’immaginazione e la compassione per aprirci a considerazione morali su altre specie viventi.
L’umanità ha bisogno urgente di proposte innovative capaci di rispondere alla crisi ed alle minacce di una catastrofe ecologica. La più grande sfida nella storia dell’umanità è già cominciata. Abbiamo il diritto e la responsabilità di vincerla.
* La prefazione di Luigi Ciotti e i tre testi selezionati dall’ultimo capitolo del libro di Giuseppe De Marzo sono qui pubblicati con il consenso dell’autore e per gentile concessione della Castelvecchi editore
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