C’è un paese che ha conosciuto la terza guerra mondiale con i suoi 10 milioni di morti, ma morire nella Repubblica Democratica del Congo evidentemente non è la stessa cosa che altrove. C’è un paese che possiede i migliori giacimenti delle terre “rare” per la nostra elettronica e la nostra informatica, ma in Congo quella ricchezza ha prodotto solo violenza e devastazioni. Ci sono persone, come Henri, che dal Congo sono fuggite molti anni fa: hanno attraversato Benin, Centrafrica, Camerun, Nigeria, Ghana, Algeria prima di essere deportati in Niger. Per il mondo oggi hanno smesso di esistere dal punto di vista giuridico: non sono rifugiati, non sono migranti, non sono sfollati, non hanno un lavoro né una famiglia. Vivono invisibili un esilio senza fine
La terza guerra mondiale in realtà c’è già stata e non accenna a terminare. Solo che i riflettori erano puntati altrove, su mondi e morti più importanti. Morire nel Congo della Repubblica Democratica, l’ex Zaire di Mobutu Sese Seko, non è la stessa cosa che altrove dove la statua al milite ignoto glorifica gli eroi e i martiri della libertà. Nulla di tutto ciò per gli stimati 10 milioni di morti e delle 500 mila donne violentate strada. Lo “scandalo geologico” della RDC, che possiede i migliori giacimenti delle terre “rare” per l’elettronica e l’informatica, ha solo facilitato il protrarsi delle guerre telecomandate dall’esterno e pagate a caro prezzo all’interno. Le coalizioni di vari Paesi africani e appoggi, in soldi, armi e logistica delle Grandi Potenze con interessi sul campo, hanno creato in questi anni una lunga guerra senza fine.
Per questo motivo, come tanti altri, Henri ha abbandonato una delle regioni più sfortunatamente ricche del suo Paese, la Repubblica Democratica del Congo, all’età ventidue anni e da allora, non vi è più tornato. Ha visto massacrare chi scappava dal martoriato Ruanda e poi, strada facendo, la nascita e lo sviluppo di gruppi armati al soldo di ditte e potenze straniere affamate di risorse minerarie. Henri si trova a Niamey, col doppio degli anni dal giorno del suo esodo dal Paese natale e non è neppure riconosciuto dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Ha smesso di esistere dal punto di vista giuridico. Non è rifugiato, non è migrante, non è sfollato, non ha lavoro, non ha famiglia, non ha identità. Gli resta soltanto ciò che si ostina a chiamare un futuro.
Per arrivare nel Benin, dove ha soggiornato per undici anni con lo statuto di rifugiato, aveva attraversato il Centrafrica, il Camerun e la Nigeria. Alla fine le autorità, per ragioni politiche, hanno ritenuto che il suo statuto non era più sostenibile e allora Henri è partito in Ghana pensando di avere migliore fortuna con l’Alto Commissariato per i Rifugiati basato a Ginevra, in Svizzera. Pensa dunque di prendere il proprio destino in mano per tentare di attraversare il mare di Mezzo che osserva con timore coloro che hanno l’ardire di sfidarne il mistero. Abbandona dunque il Ghana e, con un lungo viaggio, raggiunge l’Algeria, una delle sponde del Mediterraneo: qui Henri è arrestato, detenuto e infine deportato alla frontiera col Niger e, nel 2019, è accolto dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni.
Siccome Henri non vuole tornare nella sua regione di origine ancora in guerra, per motivi umanitari è affidato all’Alto Commissariato per i Rifugiati. Passa altri quattro anni come richiedente asilo in un campo-villaggio non lontano da Niamey chiamato Hamdallay, per vedere, infine, la sua domanda di asilo definitivamente respinta. L’istituzione gli offre una modica somma di denaro come “liquidazione” e Henri trova una camera da affittare in uno dei nuovi quartieri alla periferia della capitale, “Niamey 2000”, dove gli affitti sono meno cari.
La vita di Henri, nel suo cercare invano una terra d’asilo a causa della guerra permanete nel suo paese appare come una delle metafore del nostro tempo. Lui, il suo Paese e milioni di persone celebrano nel complice e assordante silenzio del mondo che conta, un esilio senza fine.
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