La paura della parola è una caratteristica essenziale dei tiranni, disse una volta il comandante zapatista David, nella Plaza Catedral di San Cristóbal de Las Casas. Era il 2011 e si concludeva la marcia silenziosa di un fiume di persone, tutte con il passamontagna, contro una guerra, una delle tante. Era quella che il presidente del Messico, Felipe Calderon, diceva fosse rivolta contro la droga. Quella guerra, con ben altri obiettivi, si combatte ancora oggi. La natura molto particolare della presa di parola, negata per secoli, è sempre stata un architrave del discorso zapatista. Pochi popoli e movimenti di altri calendari e altre geografie hanno espresso un rispetto e un senso di responsabilità simile verso la parola. Dalla fine di ottobre, quando il Capitán Insurgente Marcos ha annunciato l’avvio della sua terza vita, la sua ripresa di parola – non quella del “personaggio”, ovviamente, ma quella del movimento che attraverso (anche) la sua voce parla – ha un ritmo piuttosto impetuoso. Annuncia, tra le altre cose, un cambiamento molto profondo negli aspetti che sarebbe imperdonabile definire “organizzativi” degli zapatisti. Se ne parla nella IX parte di un testo molto ampio e assai denso. La trovate a fondo pagina, ma ci sarà tempo e modo per tornarci su. Qui, semmai, va almeno rilevata, solo per inciso, la pochezza interpretativa dei non pochi “zapatologi” che si sono precipitati a parlare di un ruolo defilato di Marcos (malato? stanco?) retrocesso da Subcomandante a Capitán. Nel serrato incalzare delle parti di quel testo – tutte comparse su Enlace Zapatista e puntualmente tradotte in italiano sullo storico sito del Comitato Maribel di Bergamo (potete leggerli cliccando sui link riportati in basso) -, noi di Comune, dopo aver pubblicato la prima e la seconda parte, abbiamo scelto di tradurne l’ottava. È un classico P.D., posdata in spagnolo, intitolato “P.D. Que hay que leer para saber de qué trata“, disegnato nell’inconfondibile stile del Sup. Si tratta d’un testo che ci sta particolarmente a cuore, perché riporta alla mente quelli del vecchio Antonio, che parla solo di notte. Lo fa intorno al fuoco e tra nuvole di fumo, per riferire le storie che gli raccontano gli dei sulla nascita delle stelle – “alcuni devono stare spenti perché altri possano brillare, però quelli che brillano lo fanno per coloro che stanno spenti: se no niente brilla…” e della storia del mondo. E poi ci sta a cuore perché, verso la fine, vi compaiono un nome e un concetto essenziali che hanno molto a che fare con il senso e il nome che dodici anni fa scegliemmo di dare a questa nostra avventura e alle pagine che state leggendo. Eppure, come sempre, questo testo, così come la leggenda che narra, serve soprattutto a parlare del nostro tempo, il tempo di una tormenta che, a Gaza e ovunque, si fa sempre più buia. Non ci dice cosa sia successo della luce perduta, ma ci invita a imparare a vivere e a camminare, pieni di domande, così come siamo e con quello che ci manca, anche nell’oscurità. Per ora non c’è altra via: il cammino, si sa, da che mondo è mondo, si fa camminando
Racconta la leggenda che, ai tempi in cui il tempo non importava, la pioggia e la notte coprirono la Casa de los Seres (che potremmo tradurre, concedendoci una piccola licenza, la Casa degli Esseri Viventi, ndt). Fu allora che andò via la luce. Tutto era oscurità. Le donne, gli uomini e le altrə andavano a tentoni e si scontravano tra loro. Per questa ragione, discutevano e litigavano tra fratelli e tra vicini. Non si riconoscevano nemmeno, malgrado fossero famigliari e conoscenti perché era molto buio. Fioccavano le accuse e le dispute.
I primi dei, quelli che fecero nascere il mondo, se ne stavano senza far niente, sdraiati nelle loro amache, raccontando barzellette e storielle. Nella Casa de los Seres, però, il chiasso arrivò fino a loro. “Chi fa questo baccano?”, domandò uno. “E chi lo sa”, disse un altro. Ixmucané, che era la dea madre, disse: “Andiamo un po’ a vedere cos’è questo schiamazzo”, ma nel tirarsi giù dall’amaca cadde con la faccia a terra. Sul volto le rimase il segno, come avesse avuto dei graffi. Si alzò da terra, non disse parolacce perché le parolacce non erano ancora state inventate. Si scosse un po’ per liberarsi dalla polvere, sollevò un po’ la sottana e uscì correndo verso la Casa de los Seres.
Gli dei si scambiarono uno sguardo e non dissero niente. Però pensarono: “Sta’ a vedere che ci facciamo fregare da una donna?”, così scesero dalle amache, facendo attenzione, e corsero per raggiungere Ixmucané. Essendo stati tanto pigri, tuttavia, non avevano ripulito il terreno, che adesso era pieno di sterpaglie. C’era soprattutto un sacco di acahual (erba alta, ndt), ma abbondavano anche tzaw ch´ix (spine), rami secchi, un’erbaccia con le foglie taglienti (che qui chiamano anche gezau h´ak) e ch´oox tz´an, che è un arbusto con le spine. Però quegli dei corrono e saltano come possono lamentandosi nella corsa, perché non potevano permettere che li battesse una donna. Arrivano così alla Casa de los Seres, tutti graffiati e pieni di escoriazioni sul viso e nelle mani. Nessuno, però, si era accorto che erano così malridotti, perché non c’era luce. Per questo si crede che gli dei non abbiano ferite.
Nemmeno gli dei vedevano niente. Tutto era oscuro. Solo per il rumore si sapeva che c’era altra gente. “E adesso?”, si chiesero gli dei. Ixmucané, invece, non si chiese nulla, rimase lì a pensare. Gli dei maschi erano sempre molto fanfaroni e cominciarono a dire che bisognava andare a cercare legno di ocote (detto anche pino di Montezuma. ndt). Uno diceva che bisognava inventare la torcia e la lampada a olio. Un altro che bisognava mettere insieme un buon numero di lucciole. E così via.
Ixmucané pensò: “Bisogna rimettere la luce. Ma per rimetterla, dobbiamo trovarla. E per trovarla, dobbiamo sapere dove cercarla. E per sapere dove cercarla, dobbiamo sapere che diavolo è successo”.
Così riunì gli uomini, le donne e le altrə di mais. A quel tempo c’erano solo uomini, donne e altrə di mais, erano di tanti colori e ognunə aveva il suo modo di essere. Non esistevano religioni, né nazioni, né Stati, né partiti politici, né tutto quello che nacque dopo come seme della guerra. Così quando Ixmucané disse: “Venite fratellini e sorelline”, guidati dalla sua voce arrivarono tutti gli uomini e le donne e anche le altrə – perché non si sentivano esclusə -.
Allora si riunirono in assemblea. Non si vedevano, perché non c’era luce, però potevano parlare e ascoltare.
Ixmucané domandò loro “Allora, che facciamo?”. Gli uomini, le donne e le altrə continuavano a non vedersi tra loro – non c’era luce – ma rimasero in silenzio. Fino a che una voce disse: “E diccelo tu, cosa dobbiamo fare”. Gli applausi non si potevano vedere, ma si sentirono con chiarezza. Ixmucané si fece una bella risata e disse: “Non lo so neanch’io. Non lo sappiamo, ma forse così riuniti, in assemblea, e magari parlandone, qualche idea su cosa fare ci viene”. Rimasero tutti in silenzio, pensando a che cosa fare.
Il solo rumore che si sentiva era il baccano degli dei maschi che litigavano per sapere dove mai fosse finito l’ocote, se qualcuno s’era ricordato di creare le lucciole, del fatto che se non ero stato io… di che se quella cosa toccava farla a non so chi, perché questa è una cosa è da oca… e che cosa è da “oca” se le oche ancora non le hanno fatte. E così via.
Nell’assemblea, intanto, si stava parlando e proponendo cosa fare. Prima erano solo poche voci, dopo di più. Allora dovettero stabilire un ordine per parlare e mettere pure qualcuno a scrivere se si fosse stati d’accordo. Però non c’era luce per scrivere né per leggere, c’era solo la parola detta. Allora nominarono Ixmucané, perché lei riesce a tenere in mente quel che viene detto e poi lo ripete.
Furono avanzate molte idee e dette molte parole, tante che già non c’entrvano più nella testa di Ixmucané. Quindi lei cominciò a conservarle tra i capelli e i suoi capelli si fecero lunghi, ecco perché le donne hanno i capelli lunghi. A un certo punto, però, non bastò più neanche questo, sebbene si fosse sistemata i capelli. Fu così che si inventò il “fermacapelli” che, come indica il nome, vuol dire “acchiappa idee”. I capelli di Ixmucané ormai toccavano il suolo ma si continuavano a tirar fuori idee e parole. Allora Ixmucané cominciò a mettere le idee nelle ferite che si era fatta cadendo e urtando le spine e i rovi. Aveva ferite ovunque: nel viso, nelle braccia, nelle mani, nelle gambe. Tutto il corpo era pieno di ferite, così riuscì a conservare tutto. Per questo dicono che la gente di una certa età, quella che ha un certo giudizio, ha tante rughe e cicatrici. Vuol dire che ha molte idee e conosce tante storie. Cioè, che sa molto.
Un’altra volta, poi, vi racconterò quel che decisero in quella prima assemblea nella Casa de los Seres. Ora vi dico solo quel che disse Ixmucané. Disse così: “Bene, adesso disponiamo di quello che si dice un piano per affrontare il problema che abbiamo. Siccome il mondo sta appena nascendo e stiamo dando un nome a ogni cosa o caso, per non confonderci, quello che abbiamo fatto lo chiameremo “in comune”, perché abbiamo partecipato tutti: alcune dando certe idee, altri proponendone altre, e poi c’è anche chi dà la parola e chi prende nota di ciò che viene detto”.
All’inizio ci fu un silenzio. Era un silenzio forte, pesante. Poi si cominciò a sentire una che applaudiva, poi un altro, e poi tutti applaudirono e si capiva che erano molto contenti. Non si misero a ballare perché non si vedeva un accidente. Però molti ridevano, perché avevano trovato una nuova parola che si chiama “in comune”, che vuol dire “cercare insieme il cammino”. E non è che la inventarono gli dei per primi, quelli che fecero nascere il mondo, sono stati gli uomini, le donne e le altrə di mais che, in comune, trovarono la parola, vale a dire, la strada.
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Ixmucané era la più sapiente di tutti gli dei ed essendo stata la prima ad arrivare alla Casa de los Seres, aveva più ferite per la caduta e per la corsa che fece in mezzo all’acahual. Rimase così, segnata da quelle cicatrici. “Rughe” e “cicatrici”, le chiamarono. Da allora, le rughe e le cicatrici rappresentano la saggezza. Più rughe e cicatrici, più saperi. Chiaro, a quel tempo non c’erano i social network e nessuno usava trucchi e modificava le sue foto con la nota App. Poi capita che vedi la foto del profilo e dopo vedi la realtà, è allora che te ne vuoi scappare. No, le rughe e le cicatrici erano un orgoglio e non ce l’avevano tutti. Gli uomini e le donne giovani se le dipingevano perfino, le rughe e le cicatrici. Oppure se ne andavano tra i rovi per graffiarsi il viso con con le spine e gli sterpi. Perché non contava sapere chi era più bella o bello, ma chi era più saggia o saggio. Invece di “followers” e “likes” si cercava chi aveva più rughe e cicatrici.
Eh, già.
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Sì, pure a me piacerebbe sapere che cosa è successo con la luce perduta. Magari più avanti, in un altro post scriptum, riusciremo a saperlo. Per adesso, dobbiamo imparare a camminare e vivere così, nell’oscurità. Non c’è altra via.
Dalle montagne del Sudest Messicano.
El Capitán
Novembre 2023. 40, 30, 20, 10 anni dopo.
Fonte originale: https://enlacezapatista.ezln.org.mx/2023/11/11/octava-parte-p-d-que-hay-que-leer-para-saber-de-que-trata/
Traduzione per Comune-info: marco calabria
PRIMA PARTE: LE RAGIONI DEL LUPO (da Comune-info)
SECONDA PARTE: I MORTI STARNUTISCONO? (da Comune-info)
TERZA PARTE: DENI’ (da Comitato Maribel)
IV PARTE E I AVVISO DI AVVICINAMENTO: ALCUNE MORTI NECESSARIE (Da Comitato Maribel)
QUINTA PARTE: LI’ VA IL COLPO, GIOVANE (da Comitato Maribel)
SESTA PARTE: P.D. CHI VA IN CERCA SPERANDO DI TROVARE (da Comitato Maribel)
SETTIMA PARTE: UNO SCARABEO IN STREAMING (da Comitato Maribel)
NONA PARTE: LA NUOVA STRUTTURA DELL’AUTONOMIA ZAPATISTA (da Comitato Maribel)
DECIMA PARTE: SULLE PIRAMIDI E I LORO USI E COSTUMI
(Da Comitato Maribel)
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