Messa da parte, con ogni prudenza possibile, la fase più drammatica dell’emergenza, torniamo a interrogarci sul come muovere i primi passi alzando però lo sguardo verso un orizzonte concreto e possibile. Lo ha fatto, nei giorni scorsi, un lungo articolo di Antonio Castrononovi, che mette a fuoco il desolante paesaggio della “non città” aprendo uno spazio libero di discussione per un “progetto costituente”. Il modello di assetto territoriale cui ispirarsi, risponde Nino Lisi, può essere quello delle “nuove organizzazioni economico-sociali” auspicato a suo tempo da Bruno Amoroso e e Gian Battista Montironi, da declinarsi in quella idea di “Città Regione” evocata anche da Castronovi. Un territorio non gerarchizzato funzionalmente, nel quale sia presente ovunque e con equilibrio “l’Effetto Città”, cioè quell’insieme di condizioni, coincidenze e connessioni che facilitano il propalarsi di stimoli, il sorgere di idee, il tramutarsi in tutti i campi delle idee in progetti e dei progetti in realizzazioni. Un contesto in cui sarebbe agevole anche la partecipazione dei cittadini alla vita e alle decisioni pubbliche in modo da integrare la democrazia rappresentativa con forme di democrazia partecipata
Più che un articolo è un saggio quello pubblicato qualche giorno fa su Comune-info sotto il titolo “Dove comincia la fine della città“. In esso Antonio Castronovi, dopo una severa analisi della situazione della città di Roma e della sua genesi, lancia una proposta ambiziosa, molto ambiziosa, forse troppo. Ma niente di meno può essere all’altezza della gravità e della complessità del problema da affrontare. Dunque, secondo me, va presa in seria considerazione.
“Per affrontare e superare la crisi della città a partire dalle sue fondamenta materiali e morali”, Castronovi propone un “Progetto Costituente,(…) frutto di un processo partecipativo collettivo dei suoi intellettuali e della politica nel senso più nobile del termine, delle sue reti economiche e sociali, dei suoi cittadini “sapienti”, delle sue “comunità resistenti”, delle sue associazioni di liberi cittadini, dei suoi saperi, delle sue istituzioni culturali e di ricerca, che elaborino conoscenza critica e proposte sulla città: tutti insieme impegnati per ridare un senso alla comune appartenenza alla *polis, *per perseguire il bene comune, per ridare un’anima riconoscibile ad una città martoriata da un lungo malgoverno”.
Malgoverno che non è solo quello della Giunta Raggi, perché per imbattersi in un’amministrazione capitolina che avesse un’idea di città condivisibile e da rimpiangere ancora, bisogna risalire alle Giunte Petroselli ed Argan. Le immagini che oggi esprimono lo stato della Città, a mio avviso, sono due. Quella del pane calpestato a Torre Maura, nella quale si manifesta il degrado culturale e morale degli estremismi di destra ed il coraggio pacato del giovanissimo Samuele che vi si oppone dichiarando faccia a faccia ad un caporione di Casa Pound “Nun me va che no!”.
E la foto di Rayanne che, venendogli negato il diritto di avere un alloggio, si allontana con mesta fierezza dallo sgombero di Cardinal Capranica, a Primavalle, portando in braccio i suoi libri di scuola che non ha dove poggiare. Foto che attesta ad un tempo l’inettitudine e l’illegalità delle Istituzioni di prossimità, Comune, Regione e Prefettura.
Ha assolutamente ragione Castronovi perciò ad affermare che “Per ripartire servirebbe un lavacro liberatorio con un radicale cambiamento dello sguardo sulla città”. Un lavacro che vaccinasse dal far prevalere le ambizioni personali piccole e grandi, pur se legittime, sulla necessità di fare squadra in vista di un progetto comune; che isterilisse le spinte a piantare bandierine e salvaguardare appartenenze piuttosto che aprirsi a esperienze nuove; che depurasse il senso comune delle scorie dei luoghi comuni quando non di sub-culture che trovano humus favorevole nella superficialità delle chiacchiere da bar che troppo spesso hanno immeritata fortuna.
Lavacro che anch’io credo necessario per evitare quanto è accaduto in precedenti occasioni che Castronovi conosce, quali “Non possiamo tacere” o “La Roma che vogliamo”, nelle quali si ebbero delle fughe in avanti sul piano politico mentre su quello culturale ancora si cercava di focalizzare l’orizzonte progettuale da proporre per la Città.
Proprio dall’orizzonte progettuale si deve oggi partire e giustamente proprio questo propone Castronovi richiamando l’autorevolezza morale e culturale nonché la passione civica di don Roberto Sardelli, fra i principali animatori di quelle esperienze ed oggi non più fra noi.
Qualche modello di riferimento può trovarsi nell’attuale panorama culturale; ma ognuno va preso con molta cautela, quasi con diffidenza. Siamo in un momento assai critico, non in un passaggio di fase, non in una crisi di sistema, ma in un passaggio epocale, cioè di transizione da un’epoca ad un’altra.
Ce lo ha rivelato il Corona Virus che non ha prodotto solo una pandemia come tante, magari solo un po’ più violenta di quanto ricordiamo siano state altre.
Il Corona Virus ha svelato alcune verità dure da accettare. Anzitutto che la Natura non sopporta più la violenza recatale dagli uomini e dalle donne della nostra epoca per il modo di vivere, cioè di produrre e di consumare, che una parte dell’umanità si è concessa grazie alle scoperte scientifiche ed allo sviluppo tecnologico; che i cambiamenti climatici e le pandemie che minacciano la vita umana sulla Terra sono ambedue effetti collaterali, non voluti e non previsti, dello straordinario, benché distorto, benessere prodotto dal progresso scientifico e tecnologico; che quindi l’Occidente ricco ed opulento non può mantenere in vita il suo attuale modello economico-sociale, perché non è vero che l’uomo (nonché la donna) per mezzo della Scienza e della sua diretta filiazione che sono le Tecnologie può sottomettere la Natura e piegarla ai propri intendimenti ed interessi.
Questo però è stato il paradigma sul quale si è fondata e si è sviluppata la Modernità. Che dunque è giunta al capolinea.
Per questo, come ha affermato il Segretario Generale della CGIL, Maurizio Landini, concludendo il 23 maggio scorso una Tavola Rotonda sulla Legalità (vedasi collettiva.it), “siamo di fronte ad un punto: se anche l’esperienza del virus ci porta a riprogettare il nostro paese, oppure se invece si pensa semplicemente che passato il virus il problema è dare libertà al mercato senza alcun progetto, al mercato ai bisogni e gestire la ripresa lasciando le cose come stanno”.
L’alternativa posta da Landini riguarda direttamente anche la proposta lanciata da Castronovi. Si tratta infatti di stabilire, anche al fine delle energie coinvolgibili, in quale orizzonte collocare il “Progetto Costituente”, se in quello liberista del mercato senza condizionamenti dall’esterno, in cui lo Stato sia assente tranne che per finanziare e sostenere l’iniziativa privata senza porle vincoli – come pretenderebbe l’attuale Presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, e non solo lui – o in un orizzonte nuovo, tutto da costruire ma non partendo dal nulla, perché consistenti frammenti di un’economia “altra”, non capitalista, esistono già e non occorrerebbe molto per portarli a sistema. Ce lo ha insegnato un altro compagno di strada, purtroppo scomparso, Bruno Amoroso, animatore anche lui con don Roberto Sardelli delle esperienze che ho prima ricordato, Non Tacere e la Roma che Vogliamo.
La sua argomentata critica del Modello Roma, del cui fallimento si sta ancora pagando il prezzo, è tuttora valida.
Quando quel modello era in grande auge ne denunciava l’inconsistenza per consistere nell’offerta, degli “spazi ricreativi e culturali (della Città) che possono essere colonizzati e messi al servizio degli abitanti ricchi della Triade (Europa, USA, Giappone). Le sue ricchezze storiche e naturali, se mercificate, possono divenire fonte di sfruttamento turistico intensivo per i ceti medi in cerca di consolazione alle proprie frustrazioni sociali (e politiche) prodotte dalla Globalizzazione”.
A tal fine “i quartieri storici del centro, vanno sgombrati e questo si può attuare lasciando funzionare i meccanismi del “mercato”, deportando i suoi abitanti verso le vecchie e nuove periferie e sostituendo il tessuto urbano con alberghi di vario di tipo, abitazioni di lusso riservate ai pochi privilegiati, meglio se stranieri ricchi”.
Il “centro” perde così il suo genius loci mentre nelle periferie si moltiplicano le dinamiche dell’esclusione ed in tal modo, rarefacendosi le piccole fonti di reddito, disagio e degrado si congiungono ed inevitabilmente sorgono anche tensioni razzistiche quando la povertà, non per colpa dei poveri, si tramuta in miseria.
A questo disfacimento delle comunità locali, che non riguardava come non riguarda solo Roma, Amoroso suggeriva un antidoto basato sulla costituzione e messa in rete di “nuove forme di organizzazione economico-sociale”.
In un articolo pubblicato sulla Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale della CGIL n. 2/2011 propose di articolare territorialmente un sistema di progettazione, di finanziamento ed assistenza tecnica per la realizzazione di entità produttive volte ad un tempo alla valorizzazione del lavoro e a soddisfare i bisogni individuali e collettivi che le imprese volte alla massimizzazione del profitto non trovano conveniente appagare.
Proponeva dunque di sostenere la costituzione di un nuovo modello di accumulazione, di economia e di mercato non capitalistico, che desse vita a nuove fonti di reddito in primo luogo per le fasce sociali in difficoltà, e di concorrere a costruire (e ricostruire), attraverso il lavoro, reti di relazioni sociali che sono elemento rilevante della coesione sociale
La suggestione implicita nella proposta era di affiancare all’apparato produttivo costituito da imprese miranti alla valorizzazione del capitale un apparato non meno efficiente, mirante però alla valorizzazione del lavoro, e di instaurare tra i due apparati una corretta coesistenza competitiva.
Qualcosa di analogo proponeva, più o meno negli stessi anni, Gian Battista Montironi, sociologo animatore di un gruppo di studio denominato A.R.C.O., anche lui purtroppo scomparso.
Tipologie produttive del genere non erano – come non sarebbero oggi – da inventare. Esistono già, ha insegnato Amoroso. Sono le imprese denominate sociali, e poi quelle che, secondo la denominazione di alcuni, costituiscono il “capitalismo molecolare” e a detta di altri (sociologi ed economisti) sono tutt’altro che capitalistiche.
Sono ancora le imprese che fanno capo a quella che da altri viene chiamata economia sociale e economia della solidarietà. Si tratta insomma di un insieme numerosissimo e variegato di imprese, ma un insieme frammentato, che non riesce a “fare sistema”. Ma che oculate politiche potrebbero non difficilmente riconnettere.
Azzardo allora un’ipotesi.
Un modello di assetto territoriale cui ispirarsi per fronteggiare il desolante paesaggio di “non città” che ci si presenta, in cui potrebbe trovare adeguato spazio un sistema di “nuove organizzazioni economico-sociali” del tipo auspicato da Amoroso e da Montironi, potrebbe essere la “Città Regione” evocato anche da Castronovi.
Un territorio non gerarchizzato funzionalmente, nel quale sia equilibratamente presente ovunque “l’Effetto Città”, cioè quell’insieme di condizioni, coincidenze e connessioni che facilitano il propalarsi di stimoli, il sorgere di idee, il tramutarsi in tutti i campi delle idee in progetti e dei progetti in realizzazioni.
Un contesto in cui sarebbe agevole anche la partecipazione dei cittadini alla vita ed alle decisioni pubbliche in modo da integrare la democrazia rappresentativa con forme di democrazia partecipata, come si discuteva nelle riunioni di Non Tacere.
Ma attenzione. Non è che “l’Effetto Città” sia di per sé la panacea di tutti i mali della “Non Città”.
A Milano negli ultimi tempi si è sviluppato forte “l’Effetto Città” e se ne sono visti gli effetti positivi. Ma il Corona Virus ha svelato la debolezza di un modello dove il “pubblico” non ha governato e indirizzato il “privato” ma si è posto al suo servizio, sostenendolo e finanziandolo abdicando al proprio ruolo di governo.
Il prezzo è consistito in una crisi sanitaria gravissima che ha risparmiato i territori nei quali il “pubblico” non aveva abdicato così tanto al proprio ruolo.
Anche a questo proposito si ripropone quindi l’alternativa presentata da Maurizio Landini e per tanto anche a scelta delle forze sulle quali puntare. A questo riguardo il Segretario della CGIL ha proposto che CGIL, CISL e UIL diventino “punto di riferimento di tutta la società civile per costruire una cultura del cambiamento”.
Da tenersi presente, forse, anche nel nostro caso.
Nico Maiolino dice
Concordo anche se l’ipotesi mi sembra lontana e bisognosa di passi Intermedi
La costruzione di un piano che porti all’obiettivo prevede non solo gli attori ma le modalità la tattica le alleanze da costruire