Il primo Forum Internazionale delle Donne ha visto in giugno una vasta delegazione di attiviste femministe italiane arrivare nella Striscia e confrontarsi per tre giorni con organizzazioni femminili e femministe locali. Tra le altre cose, si proponeva di ricordare che quella palestinese è una questione politica, prima ancora che umanitaria
[…] Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente più di una piccola e povera città che resiste. Quando ci chiediamo cos’è che l’ha resa un mito, dovremmo mandare in pezzi tutti i nostri specchi e piangere se avessimo un po’ di dignità, o dovremmo maledirla se rifiutassimo di ribellarci contro noi stessi. Faremmo torto a Gaza se la glorificassimo. Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarla. Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà. Non ha cavalleria, né aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere. In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra lingua e i suoi invasori. Se la incontrassimo in sogno forse non ci riconoscerebbe, perché lei ha natali di fuoco e noi natali d’attesa e di pianti per le case perdute.
Silenzio per Gaza da Diario di ordinaria tristezza (1973) in Una trilogia palestinese di Mahmoud Darwish, Milano, 2018, pp. 118-119.
Sono passati quasi 40 anni da quando Mahmoud Darwish, uno deei maggiori poeti del Novecento, ha scritto questo testo in prosa che, ancora oggi, suscita sentimenti di amore per Gaza, le sue sofferenze e la sua bellezza deturpata.
Sentimenti che circolavano, naturalmente, anche nel primo Forum Internazionale delle Donne: tre intensi giorni di lavoro condiviso con attiviste palestinesi e italiane. Un momento di incontro strutturato in diversi workshop, dedicati a tematiche di genere, salute e diritti delle donne, lotta al patriarcato. Il forum è stato realizzato grazie all’impegno di numerose associazioni femminili locali: Association for women and child protection (AISHA), Creative Womens, Democracy and workers’ Rights Center (DWRC), Palestinian Development Women Association (PDWSA), Union of Palestinian Women Committees (UPWC), We’re Not Numbers e Girls in Green Hopes Gaza. Con loro il Centro italiano di scambio culturale “Vik”, dedicato alla memoria di Vittorio Arrigoni e diretto da Meri Calvelli, e le italiane Gaza Free Style, ACS, Mutuo Soccorso Milano e Casa delle Donne di Roma.
Nel bell’albergo Al Mathaf – “Il museo”, perché espone una collezione di pezzi archeologici – abbiamo incontrato oltre 100 donne palestinesi, di 7 associazioni diverse, per la maggior parte giovani e giovanissime, insieme a una quarantina di ragazze italiane della rete Gaza Free Style, protagoniste attive e impegnate, quasi tutte per la prima volta a Gaza. Al centro degli incontri grande curiosità, e grande affetto.
Idee e pratiche, tra guerra e creatività
La scrittura è al centro del progetto “We’re Not Numbers” (WANN), nato dopo il terribile attacco israeliano del 2014, nell’ambito dell’EuroMed HR Monitor. La sua sede, situata vicino alla libreria e biblioteca “Samir Mansour”, a Gaza City, è stata distrutta da due missili israeliani nel maggio 2021, poi ricostruita, ed è ora diretta da giovani. Ne parla la direttrice, Enas Fares Ghannam. “WANN vuol creare una nuova generazione di artiste e artisti globali”, spiega, “per un profondo cambiamento nel modo di parlare della causa palestinese”. Cambiare la narrativa, parlando di Palestina direttamente al mondo, senza intermediari, è uno dei suoi obiettivi ed anche il più attuale nella lotta palestinese. Come scriveva nel 2016 il giornalista palestinese Ramzy Baroud: “È vero, le guerre hanno devastato Gaza e l’assedio non consente a questo territorio di sfruttare e valorizzare il suo grande capitale umano. Ma non ne hanno sfigurato l’essenza, non ne hanno intaccato l’umanità. Gaza resta la patria di poeti, artisti, danzatori di dabka e spiriti indomiti, di un popolo fiero e incapace di piegare la testa. Ho capito che siamo tutti colpevoli della disumanizzazione di Gaza. Nel tentativo di far emergere le violazioni dei diritti umani da parte di Israele, alcuni alimentano un tipo di narrazione che nega ai gazawi lo status di esseri umani forti e dignitosi, creativi, pieni d’amore e volontà di resistere”2.
Durante tutto il Forum sono circolate emozioni, commozione e allegria, con una spinta prevalente: quella della reciproca curiosità. Abbiamo ascoltato con attenzione gli interventi che si sono succeduti dopo la presentazione di Meri Calvelli, direttora del Centro italiano di scambio culturale “Vik”, e i video messaggi arrivati da donne in altre parti del mondo. Il più emozionante è stato quello di un’attivista afghana, che ha denunciato in clandestinità la guerra in corso contro le donne nel suo paese, dopo anni di occupazione da parte degli Stati Uniti. Tra le attiviste riunite a Gaza c’era fame di ascoltare e parlare, far sapere e conoscere, anche nelle chiacchierate fuori dal Forum. Per chi è crudelmente rinchiuso da un assedio quasi totale da 15 anni, senza alcuna libertà di movimento, quei giorni trascorsi con un pezzo di mondo esterno hanno voluto dire poter respirare, forse anche dimenticare per qualche attimo una condizione claustrofobica.
Tanti sono stati i temi ricorrenti, su cui la sintonia tra palestinesi e italiane è stata immediata: la violenza contro le donne, la guerra, l’arte e la cultura, il rifiuto di considerarsi ed essere considerate vittime. Anche il «separatismo» che pensavamo fosse non richiesto in una società in cui vige la regola della separazione donne-uomini e dell’inferiorizzazione delle donne, si è rivelato un terreno comune. In uno dei workshop a cui abbiamo partecipato, sul femminismo, nella sede dell’associazione Creative Womens, una giovanissima donna di 16 anni, Nasreen, ha chiesto e ottenuto che gli uomini uscissero dalla stanza. Ha sorpreso alcune più anziane, ma suscitato simpatia e vicinanza affettuosa, quando ha spiegato che «nessuno può permettersi di non farmi realizzare i miei sogni. Io cerco di operare il cambiamento che voglio vedere». Nasreen non si è arresa alla guerra, alla morte di sua madre, all’ingiustizia. Subito dopo l’attacco israeliano, letale, del maggio 2021, è stata proprio lei a lanciare l’iniziativa «Trauma free Gaza» per «cercare di liberare le menti». Avviata come uno scambio virtuale di racconti ed esperienze, è poi diventato uno spazio anche per ricevere informazioni e consigli di psicologi ed esperti. La perseveranza, o sumud, come si dice qui, viene alimentata e coltivata come una pianta preziosa. Come spiega Mervat, giovane sportiva che gioca a calcio e a basket: “Dopo ogni guerra dobbiamo scrollarci la polvere di dosso e andare avanti”.
Andare avanti vuol dire anche riuscire a procurarsi reddito per sé e la propria famiglia. Chi ha perso la casa non gode di alcun indennizzo, chi è stata costretta a scappare per sottrarsi con i figli ai bombardamenti, ha dovuto rifugiarsi nelle scuole gestite dall’UNRWA. «Le donne più degli uomini hanno una relazione forte con la casa, perderla vuol dire perdere una parte di sé, il sentimento della vita. Siamo forti, abbiamo più responsabilità, perché vogliamo proteggere, prenderci cura non solo di noi stesse, ma di altre donne, di tutta la società», spiegano in tante. Chi non riesce a scappare, si raggruppa con tutta la famiglia in un’unica stanza, «per poter morire insieme».
Terribile frase che abbiamo sentito pronunciare più di una volta. Chi sopravvive si trova in una condizione drammatica. Nella strada dove si trova la sede, danneggiata, delle Creative Womens, vivono altre donne la cui casa è andata distrutta dalle bombe. Si aggiunge la beffa di non trovare più chi affitta una casa, perché considerata un target dei bombardamenti. A noi chiedono soprattutto di far sapere nel nostro paese, al mondo, che cosa succede qui: “Portate il nostro messaggio: noi siamo umane. Dite a Israele di porre fine a questo blocco di 15 anni: ci meritiamo di vivere in pace”.
“Non vogliamo regali – dice Dunia, una delle donne più energiche delle Creative Womens, direttora dell’associazione – noi lavoriamo e possiamo vendere i nostri prodotti”. Così ci accorderemo con lei il giorno dopo per vendere in Italia alcuni dei bellissimi oggetti con ricami tatreez3 che producono. Posso portarne ben pochi, altri arriveranno forse con gli ultimi a rientrare della composita carovana organizzata da Gaza Free Style: i circensi, che si sono fermati per offrire uno spettacolo di circo nel tendone del Gaza Green Hopes4, con grande gioia di centinaia di ragazzini, gran parte della popolazione di Gaza.
Mariam Abu Dakka: una combattente
Mariam ha 70 anni, è una delle pochissime «veterane» che intervengono al Forum. E’ una donna conosciuta e amata, interviene alla fine della prima e dell’ultima giornata. Sempre con grande passione, applauditissima. Anche per lei il tema della cultura è molto importante per il cambiamento, che possono e devono portare le giovani: loro capiscono subito, maneggiano sapientemente la tecnologia, hanno molta energia. «Basta con la vecchia leadership», sostiene. È una donna che ha lottato tutta la vita per la sua libertà e quella della sua terra. È felice di questo incontro: “conoscerci – dice – vuol dire amarci”. Si sente a suo agio in questo Forum femminista: i femminismi palestinese e italiano lottano per cose diverse, ma i temi della democrazia e dell’uguaglianza sono comuni. «Contro le politiche di Israele serve l’unità delle donne palestinesi con le donne nel mondo». Anche Mariam parla della necessità di un femminismo globale, perché le donne insieme possono cambiare i sistemi di potere, ma bisogna partire da sé: conoscere e rispettare se stesse come passo essenziale per scardinare la cultura tradizionale. «Io ho una lunga storia di lotta: militare, politica, sociale ed economica”, spiega. “Aiuto le giovani ma lavoro in mezzo al popolo». È convinta che le donne siano protagoniste di una rivoluzione che contribuisce alla liberazione della Palestina, lottando, come nella sua esperienza, su tre fronti: quello di classe, quello contro l’occupazione e quello per la propria libertà. Aggiungendo che è indispensabile agire come palestinesi contro la divisione, sociale e politica: questo è un punto su cui il suo discorso vuole arrivare a tutte le donne e a tutti gli uomini.
Manal e la musica
Manal è la direttrice del Conservatorio di musica “Edward Said” a Gaza. Prima di fare questo lavoro, è stata attiva in tante associazioni di donne. Non poteva partecipare al Forum per il suo lavoro. Manal è una donna indipendente che lotta per la sua libertà e per quella dell’istituzione che dirige, che soffre per tutte le restrizioni, in tempi recenti aumentate, che il governo di Hamas oppone alle iniziative pubbliche. Come il divieto per le bambine al di sopra dei 12 anni di salire sul palco. Per ogni iniziativa deve chiedere un permesso, che spesso non viene accordato. «La musica – dice – è odiata dagli islamisti». Da alcuni anni l’associazione italiana Cultura è Libertà collabora e cerca di sostenere con la generosità di molti le attività del Conservatorio, in anni passati con borse di studio. Quest’anno ha contribuito alla realizzazione del Campo musicale estivo per bambine e bambini, che si svolge al Conservatorio tra giugno e luglio. Con alcune ragazze della delegazione italiana assistiamo al suo inizio proprio il 5 giugno.
Anche Manal ha molta voglia di parlare, di esprimere la sua esasperazione per la condizione che aggiunge al blocco israeliano le restrizioni e il continuo controllo di Hamas. «Io non ho neanche più la voglia di viaggiare, perché so che dovrò tornare qui. Quando, come lo scorso anno, ci sono pesanti bombardamenti tutti ci rifugiamo con i nostri familiari in una sola stanza. In quei momenti l’unico pensiero è raccogliersi, per morire insieme… quando gli attacchi finiscono riesco solo a sedermi di fronte al mare». Ama il suo lavoro e ci parla del Campo estivo organizzato con diversi programmi: “Natatif”, dedicato a ragazzini che non hanno nessuna conoscenza della musica e possono avvicinarsi agli strumenti, provandone tre e scegliendo poi quello che preferiscono; “Amamel”, per chi non è riuscito a passare gli esami oppure che ha già imparato qualcosa per suo conto; poi c’è l’“Art camp”, che prevede corsi non solo di musica, ma anche di danza e pittura.
È preoccupata per il controllo governativo sempre più stretto, che rende ogni giorno un momento di lotta. La pandemia di Covid-19 ha peggiorato le cose: un calo drastico di allievi e molti genitori non li iscrivono perché non hanno i soldi. La crisi è dura anche rispetto ai donatori: «Abbiamo rifiutato di sottoscrivere le condizioni imposte dall’Unione Europea”, spiega Manal. L’UE infatti ha recentemente notificato alla rete delle organizzazioni non governative palestinesi (PNGO) una condizione aggiuntiva ai contratti di finanziamento europei: le organizzazioni della società civile sono obbligate a non trattare con individui o gruppi designati come» terroristi” dall’UE. Questo include il personale, gli appaltatori, i beneficiari e i destinatari degli aiuti. Una mossa che non solo limita ulteriormente la libertà della società civile palestinese, ma criminalizza la resistenza anche nelle sue forme più pacifiche. A causa di queste condizioni “molti donatori si sono ritirati”, continua. “Rimangono piccole donazioni di associazioni che vogliono sostenere il nostro lavoro. Per le persone in genere, la musica è qualcosa di rilassante: per me significa una lotta quotidiana”.
Ci saranno altri incontri, giri per la città, chiacchierate in giardino, a riempire questi giorni indimenticabili. Il 9 giugno lascio Gaza. Rifaccio i tre assurdi controlli: quello di Hamas, dell’ANP, di Israele, questa volta lungo e minuzioso. Simboli dell’occupazione e della divisione, che dicono chiaramente che Gaza non rappresenta una questione umanitaria, ma politica. Porto nel mio bagaglio di emozioni e bisogno di dare seguito a questi giorni, anche queste parole di verità:
[…] Da lontano
vi scrutiamo impotenti:
e null’altro sappiamo
che invocare da voi l’elemosina della pace.
Noi che veniamo da lotte di secoli
condotte per tutte le terre infinite di questo globo rotondo
in cui dato a noi
fu di vivere,
e sembriamo ora
solo capaci
di educarci all’indifferenza.
O scrutare allibiti”.
Articolo tratto dal magazine ORIENT XXI
silvia dice
Grazie Alessandra per aver condiviso questa tua esperienza a Gaza. Grazie per il bellissimo articolo. Un grande abbraccio a tutte le donne di Gaza.